Lettere (Serra)/VI
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VI.
CRITICA LETTERARIA
Poteva parer più logico metter per titolo a questo paragrafo, Critica, semplicemente.
Il carattere primo della critica d’oggi è appunto di non avere più nè limiti nè specialità; tutto quello che è arte e pensiero e storia degli uomini, in qualunque episodio, può diventare ugualmente problema spirituale, ossia materia per una critica, che non è già fatta delle vecchie piccole chiose minute in margine ai libri; ma ha per compito di ripensare addirittura e ricostruire tutto l’universo artistico e morale.
Del resto l’affermarsi della critica, come interesse mentale esclusivo e come esercizio intero di tutte le capacità umane, tanto dell’intendere quanto dell’esprimere, e la parte presa, così dall’attitudine critica in genere come dai critici in persona e in particolare, nella cultura moderna, son cosa che non riguarda il 1913, e neanche l’Italia; nè se ne potrebbe dire in una cronaca.
È una vera e propria rivoluzione, e non soltanto letteraria; che va dal pensiero alla pratica, e dall’esigenza intellettuale di una sistemazione e risoluzione di tutti gli oggetti, come problemi di cultura, fino all’avidità individuale di una formula quasi taumaturgica per nuovamente creare e possedere tutte le cose umane, a nostro uso e consumo.
C’è in Italia un ideale critico, che informa di sè analisi e ricerche di letteratura e musica e arte in genere e erudizione e storia, in tutti i campi, riassumendo nella sua novità molto retaggio del passato, in un modo che sarebbe curioso a considerare; e vale poi più largamente come orientamento comune degli spiriti.
Ma queste son cose che tutti sanno. E basta averle accennate perchè ognuno possa collocare nella cornice conveniente le notizie spicciole, che qui si raccolgono.
⁂
La critica letteraria si può dividere, molto in grosso, fra due categorie: dei giornalisti e dei professori (militante e cattedratica; estetica e storica; si può dir come si vuole), a cui corrispondono due tipi di libro; il volume che raccoglie una serie di articoli già stampati in periodici; e il volume che sviluppa, più o meno severamente, una tesi, tratta un argomento in forma di monografia; il primo rappresenta la critica quotidiana di mestiere; il secondo ci dà le tesi di laurea, i titoli da concorso, le lezioni universitarie, il lavoro metodico di scuola e d’archivio.
Un terzo tipo di volume libero, che ha per scopo sè stesso, l’essai dedicato a una questione o a una figura, il vero e proprio libro di critica insomma, manca in Italia; e i tentativi che ne abbiamo sono rimasti per lo più un titolo di collezione1 e un programma degli editori, i libri non son venuti fuori.
Questo non importerebbe molto tuttavia; perchè si sa che le più belle originali consistenti opere di critica son nate proprio dalla raccolta di articoli e dalla pubblicazione di corsi scolastici; a partire dai Lundis e dai Saggi critici fino alla Storia del Giorno; ma bisognava notare la particolarità, per la cronaca.
Piuttosto sarà da rammentare che la divisione non è poi molto recisa. È uno stato di cose oramai vecchio che continua oggi più in apparenza che in sostanza. Ieri, si dice verso il ’70 e l’’80, la distinzione fra i due tipi aveva un significato: in quanto che l’articolo di giornale, fosse causerie con garbo e vivacità letteraria, come la poteva fare un Panzacchi, o pura e semplice recensione, o chiacchierata di dilettante o soffietto d’amico, non aveva niente di comune con la critica, come la faceva D’Ancona o Rajna o il Giornale Storico, secondo quel tipo di pura enumerazione ed esattezza materiale di citazioni, di apparato, e insomma di catalogo, affatto estraneo, fuor che per l’oggetto casuale, alla letteratura e alla critica, intesa come esercizio del giudizio e del gusto (era il tempo in cui estetica voleva dir press’a poco superficialità e dilettantismo; e critica designava soltanto l’erudizione, dal punto di vista dell’onestà piuttosto che dell’intelligenza; meglio ancora di critica si diceva poi «scienza»).
La distinzione era di generi e non di persone; c’è sempre stato dei giornalisti che sono diventati professori, come, poniamo, il Cesareo, e dei solenni eruditi, che scrivevano anche varietà e recensioni spicciole, come il D’Ancona, mostrando nel giornalismo una certa personalità robusta e piacevole, che non appariva nei volumi, o il Renier, conservando nelle varietà moderne la minuzia arida e perdendo la ricca utilità del lavoro sul Giornale.
Oggi poi la distinzione si è attenuata, è rimasta come uno di quegli usi della vecchia etichetta, di cui si conserva la traccia ma non si sente la ragione nella nostra società democratica; e lo scambio e la confusione è cresciuta.
I professori che son saliti alle cattedre nell’ultimo decennio, e quelli che si preparano a salirvi domani, hanno buttato via la muffa, e son pieni di pretese verso la cultura, le idee, la critica, l’estetica. Invece di limitarsi ai codici e agli archivi e agli schedari, fanno delle conferenze, scrivono di letteratura moderna, ricercano magari le fonti del D’Annunzio, o disegnano delle monografie sul Carducci; fanno la concorrenza ai giornalisti insomma, si insediano nelle quinte colonne e nelle pagine dei magazines, quando non si decidano addirittura a piantar la cattedra o a chieder l’aspettativa per entrare nella letteratura militante.
D’altra parte i giornalisti salgono sulle cattedre; e il pubblico pensa timidamente che non ne siano mai discesi; tanta severità scientifica ha invaso da anni le colonne dei quotidiani; anzi si direbbe che i giovani pensatori che vi esercitano le loro funzioni difficili siano essi i professori veri, a cui anche gli altri, gli studiosi e i lavoratori già maturi, guardano con invidia, mentre aspettano trepidando il cenno di lode o di biasimo; e c’è tanta autorità e tanto prestigio in ciò, che non ci accorgiamo neanche più della noia.
Il vero è che quel così detto ideale critico nuovo è rappresentato in un modo più pronto e più intero e quasi diremmo più legittimo dalla critica giovane; e quel tanto di provvisorio e di relativamente insufficiente, che la fretta giornalistica comunica per forza agli episodi del lavoro, non ne diminuisce però il valore di principio e di diritto.
E poi, il pubblico guarda a questo: e questo è il canone di cui si serve, più o meno consapevolmente, per intendere e per misurare le altre manifestazioni dell’operosità critica. Di qui dunque bisogna rifarsi.
Sapete bene di che cosa si tratti. Prima di tutto, c’è una tendenza generica, sentita da ciascuno come una esigenza morale della vita moderna, verso quella che si potrebbe chiamare «revisione dei valori» (non solo letterari, s’intende). Si ha l’impressione che tutto il mondo debba essere scoperto e messo in ordine un’altra volta, proprio da noi; tutto quello che è stato fatto prima non ci serve; o al più esiste come materia per la nostra curiosità e per il nostro ripensamento. Non ci sono più sedi riservate e pacifiche. Sebbene, nell’effetto d’oggi, la critica si rivolga di preferenza alle cose attuali, il suo dominio comprende per diritto anche la letteratura classica fino alle origini e in tutte le questioni più sottili e più ombratili: non ce n’è alcuna invero, dalla religiosità del Manzoni e dal romanticismo del Petrarca via via fino alle caratteristiche dottrinali del dolce stil nuovo e ai tipi di lingua letteraria e cortigiana nel trecento, che non possa essere ripresa nuovamente come un problema di valore. E ce ne accorgiamo anche dal piglio mutato degli stessi specialisti, che non riescono più a collocare i risultati del loro lavoro positivo, bibliografico e biografico e descrittivo, in quelle vecchie e comode categorie — di medio evo rinascimento età moderna ambiente fonti soggettivismo oggettivismo ecc., ereditate per la più parte dalla scuola storica che fu del primo secolo XIX, attraverso la filologia romanza francese e il positivismo — ma si affannano intorno a dubbi e sopra tutto parole e formule di una novità che arriva all’iconoclastia. E son tormentati da una voglia inaudita di discussioni e di libretti, che una volta si sarebbero chiamati divulgativi. Intanto, gli editori ristampano i classici, e ci trovano il loro tornaconto, anche.
In codesta creazione di valori nuovi e liquidazione dei vecchi, l’interesse della critica si trova spostato profondamente: non c’è più differenza di cose belle o brutte, degne o indegne; ma in un certo senso tutto può essere materia egualmente importante di analisi e di ricostruzione; ogni cosa è parte di un mondo ideale, anzi un mondo essa, che il critico deve rivivere nella sua complessità. Che è infinita: poichè non c’è cosa tanto meschina, in cui tutto il problema dell’universo non si possa riassumere.
In altre parole, quel che importa non è l’argomento, ma il lavoro del critico, a cui l’opera, è appena un pretesto. Possiamo aggiungere che la coscienza di questa posizione superiore e privilegiata si fa sentir bene nel tono della nostra critica: essa porta nel suo seno, non già le quisquilie grammaticali o paleografiche dei vecchi pedanti, ma le possibilità quasi di una seconda creazione di tutte le cose del mondo; ed è naturale che le porti con molta dignità. Così la critica adempie la sua funzione vera e propria; di affrontare le cose come problemi, che possono e devono essere risolti nella loro essenza, assolutamente.
Tutto ciò può parere un po’ astratto, ma per necessità. Sarebbe difficile indicare qualità letterariamente più precise.
Anche quello che si potrebbe credere carattere e colore dominante della nostra critica, la derivazione da Croce, non ha niente che non sia generico e vago, quasi diremmo trasformato.
Lasciamo stare adesso tutti gli episodi personali di Croce, letterato e scrittore, anche nella critica, misurato e piacevole e arguto nei modi tradizionali, che non son più i nostri. Ma anche le parti teoriche e morali, che derivano da lui, e sono prima di tutto l’identificazione della critica all’arte, con tutte le conseguenze intorno all’impostazione e alla risoluzione dei problemi critici, che ognuno sa, e poi l’abito della critica praticata come «limitazione» e come «superamento»; anche queste parti hanno subito una trasformazione profonda.
Lo schema della nostra critica è un altro: è il dramma spirituale.
Resta sempre l’obbligo e l’uso di ridurre l’opera d’arte in elementi intelligibili e definiti; ma quel che interessa è la loro combinazione. Mi tratta non tanto di intendere con precisione e con chiarezza, quanto di ricostruire con forza dialettica. Gli elementi astratti devono essere dedotti l’uno dall’altro, in modo da formare un quadro compatto e drammatico, ricco di contrasti violenti, di chiaroscuri e d’antitesi, che si compongono e poi si rinnovano in dissidi sempre più strazianti; si vede la lotta del bene e del male, del nuovo e del vecchio, la felicità di ciò che arriva ad esprimersi e l’oscuro travaglio delle cose che restano chiuse; si sente il peso di tutta la soma misera e mortificata che aggrava nel buio cieco il volo dello spirito trionfante.
Se pensate un poco alle analisi dei nostri critici, troverete che tutte tendono per istinto a questo schema; il dramma è da per tutto; tanto più romantico e più grandioso quanto più incerti e torbidi ne sono gli elementi. Quel che può esser perduto di meschina precisione, si acquista di pathos.
Aggiungete un’altra tendenza, che si potrebbe dire della reincarnazione degli astratti. Pare che insieme col travaglio di analisi e di dissolvimento, che riduce nella critica odierna tutte le impressioni dirette della lettura e della commozione a definizioni e via via a principi spirituali sempre più astratti, sorga anche un bisogno di restituire più profondamente la vivacità e la ricchezza di quelle stesse impressioni. Ed ecco la ragione di quel linguaggio metaforico così violentemente colorato e ingrossato di aggettivi, con cui i critici possono raggiungere, come dicono, la piena adeguatezza dell’arte: non c’è concetto tanto vasto o finezza psicologica così squisita, che non sia adombrata con gli aggettivi i più carnali e solari.
Un pedante vorrebbe dire che qui insieme con Croce si trova D’Annunzio: abitudine stilistica di risolvere le impressioni in principi astratti, pur conservando pathos e calore, anzi rendendo a ogni minuzia solennità enfatica, splendore di tragicità, serenità e via via. Ma lasciamo stare i pedanti. A noi basterà soggiungere, per l’esattezza, qualche cosa sui risultati e sugli effetti di questa critica.
Fin qui si è parlato dell’impostazione dei problemi. Che per solito è giusta, almeno fino a un certo punto. Se si paragona, così a occhio e croce, il modo spregiudicato e disinvolto, come un giovane oggi, per quanto modesto, avvicina un’opera d’arte, col modo che avrebbe tenuto uno di cinquanta o di cento anni fa, bisogna pur riconoscere che c’è stato progresso. Certi pregiudizi, certi impedimenti, certi veli su gli occhi, che imbarazzano talora anche un Carducci o un Leopardi, noi non li abbiamo più: gli occhi van dritti all’essenziale. Le intenzioni, insomma, son buone. A questo la propedeutica crociana ha giovato. Ma le intenzioni e i programmi non bastano: conviene anche realizzarli.
E allora si può dire che se l’impostazione dei problemi è giusta, la soluzione è quasi sempre sbagliata.
Ciò non importa molto, naturalmente, a una critica, per cui tutte le cose buone e cattive valgono solo come pretesto di drammi spirituali, in cui l’ingegnosità dialettica e stilistica può brillare ugualmente, se pure la giustezza delle impressioni sia un poco sacrificata.
Ed è curioso poi questo, che anche quando un giudizio, all’ingrosso, è imbroccato, bisogna contentarsi della grossolanità: guai a scendere alle giustificazioni minute, e sopra tutto alle citazioni. Sono lo scoglio di questa gente, che ha troppo ingegno e troppa profondità, per potersi curare del gusto.
Così accade che con tanto squillare e armeggiare di scoperte, non si arrivi finalmente a trovare nemmeno una piccola conclusione o un risultato sicuro. Ci siamo messi un poco d’accordo sopra D’Annunzio, rinunciando a capirlo; e del resto non c’è altro che contraddizioni e abbagli e incertezze.
In compenso, c’è di gran dottrina, e magnificenza di drammi. Il pubblico impara, commovendosi; ma trova, qualche volta, che gli schemi di questi drammi sono un po’ monotoni, e che i personaggi non cambiano mai; sia Dante sia la Guglielminetti che dà il pretesto, son sempre quegli stessi miscugli e quei contrasti di nuovo e di vecchio, di sensualità e di cerebralità, di liricità e di storicità.
Ne viene un poco di noia, che non si può confessare, per non sembrar dilettanti e ottusi di mente. Ma pur si sfoga qualche volta quasi inconsapevole: pensate all’ammirazione e al rispetto che sorge naturalmente davanti alla figura di un vero letterato della vecchia razza, che conservi solo un poco di quella educazione fina, di quel garbo e di quel buon gusto, capace di scoprire una cosa nuova e di indicarla sveltamente, come poteva far ieri, non diremo un Carducci, ma un Panzacchi, un Nencioni.
Ecco Ferdinando Martini sorge nel nostro pubblico come un maestro. La gente dice il suo nome e si accosta alle sue pagine, e sien pure vecchie pagine raccolte, con un senso di sollievo e di soddisfazione.
Ora è certo che Martini è uno scrittore assai blico come un maestro. La gente dice il suo nome verso l’elaborazione letteraria, e quel chiaro buon senso che diventa precisione nei giudizi e grazia nei motti; piace e si fa ascoltare, sia che discorra variamente di storia o di letteratura, sia che alzi un po’ il tono nel saggio o nella commemorazione. Ma in somma, tutto il suo pregio, oltre la piacevolezza del dire, viene da qualità moderate e misurate, e sopra tutto dalla educazione letteraria, che risale ai tempi del Carducci, e che gli consentì di farsi giornalista e chroniqueur alla maniera, e con molto nutrimento, francese, senza perdere il buon gusto e lo stile; con questo egli non sorpassava di molto, ai suoi tempi, il valore degli altri scrittori del Fanfulla; se non per lo spirito; e questo lo faceva parer forse, in confronto ad altri amici del Carducci, un po’ superficiale, un po’ francese. Oggi invece fa l’effetto quasi contrario; di essere un letterato molto serio, molto italiano; un rappresentante autorevole della buona tradizione. (Anche lui se ne risente; e fa dei discorsi di una bella severità accademica, in parecchie circostanze).
In realtà, è sempre quel che era. Come si vede nei capitoli delle memorie, che è venuto pubblicando ultimamente; son bozzetti pieni di sveltezza e di garbo, ma animati da uno spirito puramente aneddotico.
Lasciamo star l’episodio che pure è significativo. Ma è quel respiro di sollievo e di allegrezza che allargò il petto a tutti i lettori d’Italia, a ritrovare l’altr’anno il libro di Don Chisciotte di Scarfoglio, in cui alla fine non c’era nulla più che una continuazione giovanile e baldanzosa della critica carducciana, delle Confessioni e Battaglie; ma si sentiva un gusto vivace e letterario, che pareva una meraviglia nuova, insieme col suono di quella prosa buona di razza? Che ristoro da queste cose opache e ingrate, che ci opprimono!
È inutile far delle distinzioni. Tutte le gradazioni di maniera e i gruppetti di scuole o d’amicizie letterarie che potremmo descrivere nel mondo dei nostri critici, risalendo dai giornali alle conferenze, e dalle conferenze alle cattedre e magari alle accademie, non ci direbbero niente di nuovo: l’ideale e gli schemi, che balzano all’occhio nei critici di moda, si vanno attenuando a mano a mano e temperando e dissimulando attraverso una infinità di compromessi con ogni sorta di abitudini e di tendenze diverse; accompagnandosi con le ricerche di fonti e con la bibliografia, coi paralleli e coi quadri d’ambiente, magari con le discussioni dei generi letterari e con le conclusioni morali e sociali, della vecchia critica, che vive ancora nei professori anziani non meno che nei giovani scapigliati. Ma l’ideale generico, il linguaggio e la maniera non muta tuttavia, non muta l’effetto; e non c’è, in tanta abbondanza di produzione critica nè un’opera che resti nè uno scrittore vero. C’è della dottrina e dell’ingegno, certo; ma niente che superi l’importanza superficiale di una cultura che si elabora e ancora non ha acquistato figura letteraria, niente che non si consumi insieme con l’anno che passa.
La cronaca registra dei nomi. Borgese. Bene o male, è il primo, il più noto, quello che possiede meglio il suo pubblico. La sua opera conta qualche cosa, anche per la mole. Lasciamo stare il primo scritto, troppo lodato, sulla critica romantica, e un disgraziato saggio su Mefistofele; ma un libretto improvvisato enfaticamente sopra D’Annunzio rappresenta ancor oggi forse di meglio che l’intelligenza italiana abbia potuto intorno all’artista più singolare dei nostri tempi; e i tre volumi de La Vita e il Libro sono una cosa solida, che conserverà ancora per un certo tempo il suo interesse: non ci sarà in tutta la serie una pagina buona, o un saggio che si possa dire felice, ma il cattivo gusto e le volgarità particolari finiscono per comporre un qualche cosa di forte, in cui la nostra cultura si ritrova caratterizzata e descritta chiaramente. Quel che noi abbiamo cavato dai libri e dai movimenti spirituali degli ultimi anni, da Croce a D’Annunzio, da Rolland a Kipling, è tutto lì; è poco forse, e rivela le qualità sommarie e vili della nostra ambizione; ma ne rivela anche lo sforzo e l’acume e la prontezza.
Sappiamo bene che Borgese non è un critico, nel senso sincero. È un lettore grossolano, senza delizia di impressioni precise; i particolari gli sfuggono. Tutto in lui è approssimativo, anche l’impressione della tecnica; pare qualche volta che egli trovi di colpo il punto di vista più giusto per osservare il lavoro artistico, con una autorità che sorprende — come quando trovò il principio della prosa dannunziana nell’indifferenza sonora di uno schema dattilico — poi, seguitando, si vede che la sua giustezza è generica; la citazione, la distinzione che tenta fra il bello e il brutto, rivelano una goffaggine di principiante.
In ciò egli rappresenta alla perfezione questo tipo di critica, che è solo un atteggiamento, una impostazione di problemi. Anche la sua carriera è, come si dice, rappresentativa.
Cominciò a imitare D’Annunzio e poi l’ha negato, sforzandosi di superarlo; si è nutrito lungamente di Croce, e poi se ne è staccato quasi per un effetto di maturata individualità; ma anche oggi, a considerar bene, non c’è altro in lui che Croce e D’Annunzio, come ieri, come sempre. Questa è stata fin dal principio la sua forza e il suo difetto. Croce e D’Annunzio sono stati i suoi maestri di scuola; egli arrivò subito a capire che l’ultima parola del pensiero e dell’arte era in loro; e si diede a imitarli, a gareggiar quasi con loro, con quella facilità di certi ingegni, che arrivano subito a una relativa e pericolosa perfezione.
È il tarlo di queste educazioni letterarie moderne, che cominciano dalla fine; s’attaccano addirittura al lirismo, all’originalità, alla grandezza autentica: e, naturalmente, cambian tutto in retorica.
Così accade che Borgese sia l’uomo di tutte le qualità approssimative; dà l’illusione di molti cloni dell’arte e dell’intelligenza, e in fondo non ne possiede interamente nessuno.
Il suo modo di scrivere, anche al di fuori dell’abilità puramente giornalistica (pochi sanno incominciare e troncare l’articolo come lui; a squilli di tromba), ha un’efficacia innegabile; è ricco, robusto, corrente, con una felicità verbale precisa e immaginosa, una varietà di effetti drammatici e ironici e austera, una potenza di antitesi e di metafore che fremono nella compagine sonora e serrata dei periodi.
Ma ciò è falso e vuoto; è un’illusione creata dalla foga oratoria, tutta tesa ugualmente dal principio alla line, che trascina il lettore e gli impedisce quasi di avvertire il cattivo gusto, la banalità, la sfacciataggine di quella roba, che sta insieme e si regge per virtù del fragore, come le note di una cattiva fanfara: finchè cammina, non ci si bada.
Egli ha uno stampo per coniar la metafora (che di solito è materiale e precisa, quasi per contrasto con le sfumature spirituali che deve esprimere: carne, frutti, pitture, congegni meccanici e simili), come ne ha uno per l’antitesi (etica), e ha uno schema per il periodo; l’apparenza è buona, moderna; ma l’effetto è sempre meccanico.
Allo stesso modo la sua potenza di congegnare delle tragedie spirituali e di «inquadrar nella storia» si riduce a una abilità puramente materiale e terribilmente monotona; e i caratteri più superficiali, pratici, moralistici dell’opera d’arte gli servono a questo scopo bene e meglio che le qualità essenziali; del resto, egli raccoglie senza differenza le line e gli altri in certe formule di una facilità superba, e il dramma è bell’e fatto, sviluppato, dedotto, con una vivacità dialettica, che fa scordare tutto. Ma anche questa è più curialesca che profonda; è una forza che urge e che stringe, e si esaurisce nell’effetto che ha cercato.
Tutta la fatica di Borgese resta così un poco al di tuoni, à côté; tanto della letteratura, che del pensiero. Ha capito un po’ tutto, ha turbato, sfiorato, intravisto tante cose; non se ne è appropriata nessuna.
Il meglio di lui restano i tentativi generici,2 intorno a questioni di cultura, piuttosto che di critica; pagine sul nazionalismo, la polemica con Croce; e il più bel saggio critico è quello su Jean-Christophe, che è, appunto, un episodio o una crisi di moralità letteraria, forse più che di arte.
In ogni modo, egli è l’ideale, a cui poco o tanto si conformano tutti, e adesso ha trovato la sua perfezione commerciale e definitiva nelle colonne del Corriere. Si è imborghesito un poco, si è fatto più mediocre, più anodino; cura un po’ più la frase, e un po’ meno l’antitesi, ha messo da parte certe audacie, e certe mordacità; compie il miracolo settimanale di costruire un buon articolo, con niente.
Ma è sempre il maestro. C’è nel pubblico l’impressione confusa che tutti gli altri critici giovani — fuor che Cecchi — siano soltanto un Borgese pallido e povero, che non è arrivato a realizzarsi. È la maniera che s’impone. Quelli che ne restano fuori, non rappresentano una superiorità o una differenza intima, ma piuttosto un difetto, un qualche cosa di arretrato e indebolito, oppure un conato leggero, di desideri e qualità superficiali, che non riescono a prender corpo.
Fu il tentativo, poniamo, delle Cronache Letterarie, verso una critica più letteraria e più tecnica, secondo la tradizione; con quel garbo arguto e abbastanza vivo e ben educato di qualcuno, come i Bontempelli, Romagnoli, Toffanin e via via: qualità delle persone, che non era ragion sufficiente di differenza, e non produsse niente di durevole: anzi, ce n’è di quelli che oggi son rientrati nella maniera comune, e tirano a far del Borgese.
Qualche cosa di più giustificato, ma dello stesso valore, ci rappresentano le sopravvivenze di maniere vecchie, che il pubblico perdona come una moda antiquata e tuttavia non ridicola a qualche scapolo un po’ invecchiato.
Così si ammette in Domenico Oliva, per esempio, che continui la sua maniera aneddotica e fiorita: — un po’ di erudizione di seconda mano, qualche osservazioncella grammaticale, molti elogi, delle digressioni e dei ricordi personali, con quel tono di civetteria candida e di noncuranza leggera, che egli mostrò di avere imparato dai «chroniqueurs» francesi, non proprio dai maggiori, ma da quelli che venivan subito dopo, i Claretie, i Fagnet, i Brisson, i Sarcey e altri che non ricordiamo più bene, perchè non c’eravamo al tempo degli Scholl e dei Weiss; e poi una gran diligenza, un italiano pulito, dell’ingenuità, dell’amenità, del colore e della somiglianza nei bozzetti: dell’intelligenza magari, ma onesta e che non dà noia: roba un po’ invecchiata, ma di cui nessuno dice male, davanti a un uomo eccellente, da cui parecchi hanno appreso più che non dicano.
Qualche cosa di simile si ammette, ma un po’ meno, nel Gargano: è troppo vicino il tempo in cui le sue osservazioni sopra, un verso o sopra un’immagine sembravano un’audacia, davano un’idea di tecnica, e di competenza; adesso quella critica in nome di un sentimento poetico, che è sincero in lui, ma vago e incertissimo come concetto critico, e ondeggiante nell’effetto fra il sentimentalismo soggettivo e le minuzie metriche o stilistiche di un maestro non privo di gusto, quella critica che non è neanche più acerba e appassionata, e che si limita molte volte a un certo ufficio pietoso, e dignitoso del resto, di amicizia o di commemorazione, non persuade più: si ammette lui, come uomo di sentimento e di giudizio acuto, ma non la sua abitudine alquanto vana.
E si vede bene, del resto, che accanto a lui. nello stesso giornale, vien fuori, come una necessità del destino, la critica nuova: fatta un po’ più modesta, più conversevole, più spicciola e insieme più ornata, professorale e aneddotica, se volete, non senza toscanità e macchiette quasi piacevoli, dal Rabizzani; ma sono pur sempre le limitazioni di Croce e gli schemi di Borgese, per quanto pettinati alla scuola di Mazzoni, e nutriti dei ricordi delle compilazioni compariste. Ciò si rivela anche meglio quando, invece di bozzetti, l’uomo tenti il saggio critico; e allora vien fuori il dramma spirituale.
È una sorte comune, che poco o tanto tocca anche agli altri, di cui è impossibile ricordare i nomi, scrittori di critica nei mille periodici della penisola. In ciò è la superiorità di Borgese sopra molti, che pur valgono in parte meglio di lui, ma non riescono a fare delle loro qualità acute o ingegnose forma personale, che esca dalla maniera.
Lasciamo stare certa critica, fatta per combinazione o per convenienza. Ci sono i poeti e i novellieri, che si valgono delle recensioni per pagare debiti di cortesia verso i colleghi, giovani o anziani; i giornalisti che seguitano a praticare, e talora anche con garbo, la critica come soffietto editoriale e cosa di famiglia; e poi tutti quelli che fanno della critica solo per episodio o perchè la moda porta così, perchè l’articolo critico è un’arma sempre pronta in mano e può essere anche una scappatoia, è più facile da collocare e in un certo senso anche da fabbricare.... Non andremo a finire nel pettegolezzo.
D’altronde, di fronte a ciò, bisognerebbe ricordare certi meriti che ha la nostra critica, massime dei giovani, che son riusciti, sia pure in pochi, a trovare su questo terreno un angolo di libertà, seriamente e sinceramente amato.
Ma più si guarda all’effetto raggiunto, alla personalità espressa. Non troviamo nessuno; se non certe facoltà, poniamo, chiare e sottili, ma sempre generiche e senza precisione letteraria, in Gargiulo; e altre in altri, di cui possiamo apprezzare singolarmente l’ingegno: ma non basta.
Originalità non si trova nemmeno in quelli che sembrano andare contro corrente; come Thovez, che ha una certa semplicità e sincerità di impressioni sue, ma troppo superficiali e confuse, e limitate quasi al tono un po’ più schietto della voce; del resto anch’egli si muove nell’ambito di quei soliti principii e ambizioni generiche, lirismo, spontaneità, rinnovazione o rinfrescamento del senso poetico, e non sa giudicare o analizzare se non per note astratte.
Più indipendente e originale, è Cecchi. Non nel punto di partenza; che muove anche lui da D’Annunzio e da Croce, o forse meglio, dal Croce che era in Borgese. Osserva la formula drammatica nella deduzione del suo saggio, e subisce la legge di trasformare le impressioni artistiche in astrazioni corpulente e patetiche: insomma ha preso lo stampo della sua critica press’a poco dalle mani di Borgese. Aggiungiamo che non è mai riuscito a adoperarlo bene come Borgese: i suoi articoli sono mal costruiti, con qualche cosa di oscuro che distrugge ogni effetto di antitesi e di catastrofe. Non c’è taglio nè spicco nè eloquenza nelle cose sue; ma una lentezza faticosa e indigesta, un gusto acerbo, quasi di grappoli d’uva verdissima, pestati e infranti duramente, senza che ne coli goccia di umore.
Ma c’è in lui un dono profondo, un vero dono di critico: una mezza genialità informe, che si sveglia davanti alle cose dell’arte, come un bisogno assoluto di rendersene conto, di ritrovarne in se stessa il principio puro, quasi la formula chimica essenziale; o forse piuttosto una formula magica, che gli permetta di possedere e di riprodurre secondo la sua volontà tutte le operazioni e il miracolo di quell’arte.
Questo bisogno di condensare tutto il lavoro artistico in un incantesimo breve, è il male di cui tutti i critici soffrono un poco, nel nostro universo in cui gli incantesimi non sono possibili: ed è il tormento di Cecchi, che lo aggrava col suo travaglio invece di risolverlo.
Egli è di quella razza che non sa rinunziare, ma quasi in un punto e in una parola sola vorrebbe esprimere tutto il mondo che dentro preme. Nei suoi primi saggi — sul Pascoli mi pare — si sentiva un desiderio tumultuoso di buttar fuori, a proposito di un particolare qualunque e senza riguardo del suo valore preciso, tutta quanta la impressione ricevuta dal poeta nell’insieme, e poi ancora tutta la commozione e il senso e l’amore della poesia in genere, e a mano a mano ogni sensazione di natura e di vita: tutto quanto. Un caos.
E ogni momento, ogni frase, pareva che fosse improntata di questa urgenza, gonfia di intenzioni e di facoltà e di voglie disparate, da realizzare tutte in una volta. Perchè in Cecchi, oltre alla facoltà di intelligenza e di passione critica, c’è anche una certa natura quasi d’artista, ricco di sensazioni, o piuttosto tormentato dal bisogno di creare espressioni sensibili di sè: questo bisogno l’ha spinto a tentare anche la novella e lo sfogo versificato, con una infelicità singolarissima. Perchè è curioso questo; che mentre un altro, poniamo un Borgese, scrivendo dei versi sonori e corretti e lucenti, riesce a dare soltanto la misura esatta della sua enfasi e della sua falsità artistica, Cecchi, scrivendo delle cose detestabili, si fa rispettare e ci interessa. Egli è pieno di queste apparenti contraddizioni: si sente che ha frequentato i classici fin da ragazzo e non per ambizione sola di cultura, ma per bisogno e amore, ha letto inglesi e greci nel testo e Dante e i trecentisti, e ne parla molte volte come uno che conosca soltanto i manuali e i ditirambi moderni; e scrive come se non avesse letto altro che D’Annunzio, e i dannunziani, e qualche giovane d’oggi, mescolando la pompa degli astratti e il decoro stilizzato con dei tentativi di monelleria toscana e colorita — uso Papini, Jahier — la metafora commerciale di uno con la squisitezza letterata di un altro.
Ha una personalità e una facoltà critica propria; e ne cava degli articoli che molte volte sembrano ricalchi faticosi e incerti dei più superficiali drammi degli altri.
Si sperava che la sua ingratitudine fosse effetto dei principii, e che potesse maturarsi e rischiararsi nel lavoro. Non è stato nulla; piuttosto che semplificare la sua mistura, si direbbe che l’abbia aggravata; vi ha aggiunto il tecnicismo speciale dei critici di pittura, adoperato così all’incirca, tanto per avere un colore di più sulla carta.
C’è dei momenti in cui ci si domanda se non basterebbe dare un’occhiata a quella pagina con la curiosità benevola che si ha per il quadretto di un dilettante divisionista: uno lo solleva e si diverte a guardare così d’infilata il rilievo dei filetti di pasta.
Invece si legge. Perchè si sente, bene o male, che quell’odioso scrittore parla di cose serie; che si pone, davanti a un’opera d’arte, il problema della sua qualità con una schiettezza profonda. Qualche cosa di vero c’è sempre nel suo saggio e sopra tutto qualche cosa che riguarda direttamente l’arte. Certo non si può ricordar nessuna cosa di lui riuscita bene e compiuta: nè sui minori, che gli aggrava e gonfia troppo, nè sui grandi, che lo fanno naufragare nel vuoto e nella retorica solare.
La miglior cosa sono le stroncature. In quelle mostra il suo gusto con una sicurezza violenta e quasi primitiva: sebbene certe bruschezze di temperamento non sono ancora una critica. Come è provato dal fatto che qualche volta egli abusa della sua sicurezza, e ha la civetteria dell’originalità: demolire quel che gli altri han lodato e scoprire le bellezze non viste: naturalmente, vien punito là dove pecca: pigliando dei granchi.
A ogni modo, come si diceva, è il solo fra noi che abbia una natura vera di critico e la passione di esercitarla.
Accanto a lui potremo ricordare, per una certa serietà e compiutezza di figura, Bellonci: in cui la riduzione della letteratura a puri elementi e interessi, se così posso dire, di cultura, è condotta fino all’ultimo segno, con una onestà e un rigore e una precisione, che finisce a giustificarsi di per se stessa e a farsi rispettare. Non c’è niente, in quel lavoro modesto, che faccia spicco fuor del comune; anzi la sua diligenza può riuscir faticosa e meno grata a parecchi. Ma insomma par di vederci l’estremo limite a cui si può giungere per questa strada, così caratteristica del nostro tempo, che pur partendo dal modernismo e dall’attualità più generica, è riuscita, attraverso l’analisi dottrinaria, a certi obblighi di umanità e di intelligenza e di classicismo non soltanto formale.
E poi c’è, o piuttosto c’era, che da un pezzo non si occupa di letteratura e in ogni modo non se ne è mai occupato in modo speciale, Amendola. Anche lui portava nella critica un’intonazione piuttosto morale e storica, che artistica: ma non al modo di quelli che mascherano la incompetenza tecnica con le banalità spirituali. L’interesse etico era in lui un carattere e una forza schietta, capace di creare cose solide; e si sentiva nelle sue pagine una mente ben fatta, e una vera e propria autorità di scrittore, di cui bisognerà riparlare sotto altro titolo.
Un eccellente critico letterario sarebbe Prezzolini; se non avesse tanto odio per la letteratura e non fosse rivolto, con gli studi e con l’animo, da un’altra parte. Anche lui, è uno di quelli che sono profondamente convinti di essere nati proprio per quelle cose che non sanno fare; e così, dopo i tentativi di gioventù, volle rinunziare a ogni pretesa di lavoro originale nell’arte e nel pensiero, e si condannò a far l’uomo pratico, il portavoce degli altri, il discepolo di Croce e di Gentile in filosofia e il banditore di Papini e di Soffici e di Rosso e di tutti gli altri amici in arte, l’organizzatore e il revisore o al più il maestro di moralità spicciola, l’informatore critico di politica e di questioni vive.
Invece niente era meno pratico e meno politico che la sua natura facile e irritabile di vero letterato; niente meno filosofico che la sua testa di fiorentino vivace e un po’ arido, puritano per combinazione. Prezzolini è prima di tutto uno scrittore; piacevole, arguto, chiaro, acuto. E sarebbe un critico felice, per gusto rapido e per finezza psicologica — solo se avesse avuto un’educazione più letteraria, con un po’ più di latino e di pace; ma anche così, quando non si mette di proposito a far della critica come se si trattasse di una rivoluzione morale, riesce a fare, quasi per episodio, delle cose buone. Il profilo che tracciò di Croce era eccellente, per esempio; e lo studio che ha cominciato adesso intorno ai suoi amici dell’Acerba, è ammirabile di misura e di precisione.
A ogni modo, la sua opera vera e l’interesse della sua figura non è qui.
Un altro giovane s’annunzia come critico serio e robusto, proprio in questo punto: De Robertis: in una sua recensione, nella Voce, si leggono delle pagine sul De Sanctis, che rappresentano un progresso reale di intelligenza e di giudizio critico su tutte le opinioni correnti. C’è qualche cosa di buono in chi le ha scritte, con una maturità di riflessione che allontana ogni enfasi: e a cui manca solo per ora la compiutezza dei particolari; De R. ha il difetto dei giovani, che intendono meglio le questioni teoriche e glandi, come posson essere date da un De Sanctis e da un Carducci, che non i piccoli problemi delle persone vive e minori.
Dopo queste eccezioni, ci potremmo risparmiare di fare altri nomi. La maniera domina, impersonale e tranquilla. Si impone anche, fino a un certo punto, a quelli che abbiamo indicato genericamente come professori, a quelli che hanno giù una certa autorità e meriti di lavoro proprio in altri campi, ma che non sanno conservarli quando si accingono alla critica vera e propria; e si adattano, più o meno abilmente, alla moda; siano essi specialisti di letterature classiche o medievali, professori giovani o vecchi eruditi.
Fermiamoci alla critica letteraria.
S’intende che le nostre impressioni sono affatto indirette e di scorcio: il lavoro speciale che questi, molto spesso valenti, uomini, compiono nelle cattedre e nelle accademie e insomma nel loro ufficio, tanto come maestri quanto come investigatori e studiosi, non riguarda il pubblico, che non se ne accorge e sarebbe anche incompetente ad apprezzarlo. C’è tuttavia una parte di quel lavoro e certi aspetti di quelle personalità che possono arrivare sino a noi, in quanto trascendano il loro campo speciale, o come valore letterario vero e proprio, o come valore di attualità. Di ciò possiamo parlare.
Per quanto si vede, sussiste ancora in parte tra i professori, lo stato di cose della generazione precedente; in cui un certo tipo che si diceva scientifico, rappresentato nella sua utilità e nella sua angustia dal Giornale Storico, si opponeva recisamente alla cosidetta letteratura amena; e il più meschino degli eruditi si permetteva di disprezzare il dilettantismo del Carducci, così come, d’altronde, il più sciagurato dei versaioli si credeva lecito di maledire alla sterile pedanteria delle schede, ribellandosi in nome dell’arte che non aveva alla scienza che non conosceva. (Qualche cosa di quello stato d’animo si può trovare anche in un artista degno come il Panzini; certi eruditi sono la sua bestia nera. E si rivide al tempo delle Cronache Letterarie, più o meno retoricamente).
Se non che, ci son poi dei mutamenti notevoli. Il tipo scientitico impera ancora sulle cattedre e nei concorsi, per forza di uomini e clientele; ma ha perduto molto della sua autorità morale: le ricerche letterarie, anche fra i professori, non ne osservano più la legge unica e rigorosa; e se la osservano, sono poi valutate secondo il merito: una volta, bastava che un giovane mettesse nei suoi lavori quel tanto di pedanteria, di rusticità, e materialità piena di sdegnose rinunzie a ogni intelligenza, perchè gli fosse concesso di darsi l’aria di un genio: oggi, anche quelli che producono dei lavori di pura erudizione, lasciano intendere spesso, con una sorta di civetteria a rovescio, che lo fanno solo per necessità, per avere un titolo; ma se li lasciassero fare, sarebbe tutta estetica. (Per fortuna, non li lasciano fare).
Il tipo eroico del pedante candido e immenso, carico eli tanta dottrina che finiva per diventare una sorta di intelligenza — come un mucchio di ciottoli così enorme che si dovessero rotolare e nettare e arrotondare per il logorio spontaneo — il tipo di Rajna, insomma, non si produce più. Non è più imitato. C’è Rajna, appunto, venerato come un mito preistorico della nostra filologia, testimone dei tempi in cui l’Italia cominciò a collaborare alla Romania e la gente si commuoveva a pensare che le canzoni di gesta potessero essere nate come i funghi e i poemi d’Omero, proprio sotto le tende degli eserciti carolingi; c’è, vegeto e ammirabile nella sua robusta vecchiezza, il D’Ancona; il Comparetti e altri della vecchia guardia, a cui la serietà e la grandezza del lavoro compiuto fa onore anche presso quelli che ne sanno poco.
Ma sono lontani. Il maestro vero di letteratura per noi è rappresentato meglio dal Torraca; in cui si sente almeno tanta acutezza d’intelligenza quanta è precisione di dottrina; e l’una e l’altra possono servir bene a castigare con asprezza le arroganze così dei chiacchieroni come dei mestieranti dell’erudizione.
Anche fra i giovani che lavorano più severamente oggi, si cerca e si apprezza l’ingegno: e si vede bene in quelli che sono capofila dell’ultima generazione, non meno per la produttività scientifica positiva che per l’acume della mente, come Ezio Levi; che pecca solo nello scrivere con qualche pretesa di colorito un po’ volgare.
Insomma, la pura erudizione, alla tedesca, come si suol dire, l’erudizione come una fede e un ideale e un valore assoluto, non si sente più.
E accade che anche quelli che la possiedono cerchino di farla valere con dei mezzi e dei ripieghi estranei a quella che è la sua importanza e la sua bontà intima, di cui si è perduta un poco la certezza. Così fanno i giornalisti e gli intervistatori, che nel presentare al pubblico la notizia di qualche novità o di qualche opera veramente nobile di ricerca — sia la ricostituzione di un testo, la scoperta e l’identificazione di un codice, il catalogo di una collezione o il riordinamento di un archivio — sentono la necessità istintiva di darle una vernice quasi eroica, come farebbero per uno scavo archeologico, parlando di tesori restituiti alla gioia, di primavera della stirpe, di genio ricostruttivo e rianimatore. E gli eruditi stessi dal canto loro si piegano verso la moda, si provano di aggiungere alle loro doti stimabili e serie, qualche cosa di più brillante o più ingegnoso; e si vede un Novati accentuare paurosamente quella tendenza al bello stile e alla leccatura laboriosa, che ha sempre dato tanta uggia alle sue scritture, e un Flamini tirar fuori dal cassetto dei versi giovanili e scriver dei lavori danteschi di critica ipotetica, ahimè, e soggettiva, e perfino un Gian, il più onest’uomo del mondo, affrontare, sia pur di passaggio, degli argomenti teorici.
Croce è passato come il malefizio della stella cometa in una notte di febbraio sul riposo placido delle campagne; la gente non dorme più tranquilla.
Potremo trovare qualche effetto non cattivo di questo impulso; un eccellente neolatinista come De Lollis, per esempio, che è stato condotto a mettere in pubblico, con dei saggi di critica moderna, quelle qualità di acuta intelligenza e di precisa dottrina che solo pochi potevano conoscere: certo anche in lui il contrasto fra la maniera minuta e curiosa dello specialista di letterature comparate e l’obbligo nuovo di crear formule e valori, non è compiutamente risolto; e qualche volta, massime in questioni di poesia francese, la ricchezza bibliografica sostituisce in parte il giudizio.
Ma per un uomo d’ingegno conosciuto meglio, quante fatiche inutili di brave persone, che si son messe a rifare per conto loro il Croce o il Taine o Dio sa chi, senza bisogno e senza risultato, altro che di sporcar della carta.
O senza arrivare a questo punto si ha l’esempio, più misurato e più largamente rappresentativo, di Guido Mazzoni; uomo di ingegno prima di tutto, toscano arguto e mobile e facile, pulito come una mosca, buon maestro, bel parlatore, erudito con curiosità precisa e ornato di lettere ottime, col siuto attento a ogni modernità; che non è uscito dal decoro della sua cattedra dove siede con dignità di accademico e di poeta e di sapiente; ma tuttavia, in due lezioni su tre, lascia passare qualche accenno all’estetica di Croce e si dimostra famigliare con tutte le audacie della critica teorica, rinnovatrice dei valori.
Così si trovano, con un’ombra di fisonomia distinta, quelli della generazione che valica adesso i quaranta, educati anche loro alla scuola storica o meglio ancora comparatista, ma tormentati sin dal principio dall’obbligo di mostrarsi aperti alle novità filosofiche ed estetiche e di tenerne conto nei loro lavori, che acquistano però un certo aspetto di ricchezza abbastanza naturale ed equilibrata.
In realtà sono, per così dire, strati di cultura sovrapposti, con quella precisione superficiale di chi tien dietro ai libri attraverso le recensioni, e conosce molte cose, invano. A guardar così di fuori si direbbe che il dominio di costoro siano, piuttosto che le varianti e le biografie, le fonti e le letterature moderne. Uno dei migliori, nel gruppo, è certamente il Galletti, che ha poi meriti di studioso serio.
Ma il più bel tipo è il Farinelli, simpatia dei giovani che non se n’intendono, e pur amano di amore disordinato e generico l’erudizione insieme e la genialità; nessuno come il Farinelli, a parte i meriti del cercatore, riesce a dare l’illusione di tutte e due, con tutto quel pathos che si consuma nella farragine delle notizie e delle frasi, come una fiamma nel fumo della legna verde e stizzosa.
Son tutte note molto incerte e saltuarie; ma tornano al primo detto, che caratteristiche speciali in questa seconda categoria dell’operosità critica non ce ne sono. Una critica vera e propria, dell’Università, distinta da quella dei giornali e degli eretici, e pure interessante e attiva, com’è in Francia, dal Lanson al Bédier, noi non l’abbiamo.
C’era una provincia letteraria che pareva appartenere ai professori, con qualche cosa di proprio e di caratteristico: il dantismo. Ma anche questo è oramai del passato. La nostra cronaca se ne accorge, come di un movimento che si sta spegnendo.
Solo qualche anno fa il dantismo era una cosa d’importanza nazionale; nel suo insieme complesso e disparato di produzione scientifica e di erudizione oziosa e magari di moda ciarlatanesca, di libri e opuscoli e conferenze e cerimonie e letture, a cui il pubblico partecipava con tutto l’interesse e con tutta l’intensità di cui era capace, pareva che gli studi danteschi fossero il punto in cui l’Italia attiva e presente concentrava tutta la sua forza di attenzione storica e letteraria, e cercava e trovava quasi la coscienza di sè stessa come valore spirituale.
Oggi continuano in parte le manifestazioni, ma non hanno più quel significato. L’interesse si riporta su altri punti.
Gli oratori, gli uomini politici, i giornalisti, l’attualità insomma comincia a ritirarsi da Dante; che vien restituito agli uomini del mestiere, agli studiosi; i quali anch’essi rientrano nell’ombra da cui erano usciti per un momento; e da cui potrebbe emergere solo qualche cosa di veramente importante. Ma, sia detto di passaggio, non par che ce ne sia; questa marea che si ritrae non lascia quasi altro che pula e seccume alla riva.
Una sorta di resoconto, pur giornaliero e senza prospettiva, come si trova, per esempio, bell’e pronto nei volumi del Bollettino della Società Dantesca — la cosa più seria e più utile che ci resti — permette fin d’ora un qualche giudizio sommario sopra una mole di lavoro enorme e inutile. (Utile soltanto come fine a sè stesso, come esercizio di erudizione, come opera di cultura, e anche come divertimento non meccanico, se volete).
Nessun valore nuovo e notevole, di uomini o di opere, ne è uscito: anche per quelli, che appaiono personalmente stimabili, il dantismo è stato più che altro un’occupazione.
Lasciamo da parte il lavoro tecnico, di illustrazione storica e accertamento critico del testo, la cui utilità dura e potrà dimostrarsi nel seguito; ma si vede fin d’ora nelle ultime edizioni dei commenti. Pur troppo si può credere che anche per questo rispetto, con tanti mezzi e tanta fatica, e con tutto l’aiuto della voga favorevole, si sia ottenuto meno di quanto era ragionevole sperare; fuor che nelle opere minori (e la Vita nuova pare ancora un po’ sub indice), i progressi verso l’edizione definitiva sono lenti.
Ma per quello poi che ci interessa, il dantismo ha giovato soltanto a portare in luce qualche figura meritevole, che poteva restare un po’ indietro; come quel Fedele Romani, che è morto da poco, e forse fu aiutato dalla fortuna delle sue esercitazioni dantesche discrete a mostrare meglio ultimamente le qualità più geutili ili scrittore e d’artista. Il migliore di tutti rimane sempre il Parodi, uomo dotto, acuto, scrittore non ordinario e ragionatore sottile e soddisfacente in ogni campo, l’anima del Bullettino; mostra di avere anche facoltà, critiche ed estetiche, e ci tiene; non bisogna scordarsi tuttavia che la sua critica non esce dal tipo della recensione erudita, che si esercita sopra lo schema del lavoro già fatto dagli altri, e considerato come cosa acquisita, per via di rettificazioni parziali e ritocchi successivi; e anche la sua estetica è piuttosto una aggiunta di colori stilistici e di considerazioni e impressioni episodiche, sopra lo schema espositivo, che non una disposizione originale e necessaria dell’animo.
Gli altri che la moda dantesca aveva inalzato s’incamminano verso la loro più naturale mediocrità, sulle tracce di due guide; una, il dotto e vario e ingegnoso D’Ovidio, accademico ammirabile, ma non scienziato veramente nè critico nè artista, simbolo di quel che c’era un po’ ozioso nella sottilità di codesto dantismo; e l’altro rappresentante del dantismo di solenne apparato storico e linguistico, con patriottismo e religione e gravezza grande, l’eruditissimo ed eccellente e mediocre Del Lungo.
Con tutto questo, non abbiamo ancora parlato di letterati veri. Sapete bene che non ce ne sono più. O almeno non compaiono. Mi perdonino quelli che non nomino: ma di chi è la colpa se la loro gentilezza resta chiusa nell’animo e negli studi; come una cosa timida, che non ha forza di esprimersi e di imporsi?
Ce n’è, nelle scuole e nelle case, che sanno ancora leggere i libri per consolarsi e per farsi migliori, continuando in sè e nei vicini quella silenziosa religione, fatta di pudore e di forza, di sanità e di studio affezionato delle belle grandi cose dell’ingegno umano, che è sempre stata una delle saluti più vere della nostra Italia.
Ma non sono discorsi da cronisti. Al più potremo ricordare, tra i professori, l’ultimo scolaro del Carducci, l’unico che ne rappresenti nella scuola e con la persona l’esempio di letterato come tecnico e competente, in ciò che la tradizione, come si suol dire, ha di castigato e squisito, solido e secco; e in ciò che l’osservazione e lo studio e la pratica dei grandi può dare di mordente al giudizio e di abilità alla mano; l’Albini insomma. Il quale non ha fatto molto in verità, anche mettendo da parte l’ambizione del nostro secolo geniale; qualche studio preciso, dei versi e dei dialoghi eleganti, qualche pagina accademicamente saporita e perfetta: eppure non si può pensare a lui, come non si pensava all’Acri, senza un senso quasi di vergogna, da scolari a maestro, almeno per tutte le piccole cose che uno come lui sa naturalmente, e noi non sappiamo, e pur ne parliamo come se le sapessimo.
La nostra gente è oggi, per rimanere nei termini del titolo, assai meglio critica che letterata.
Con questo non si vuol dare nessun giudizio definitivo. Come in tutti i cambiamenti, c’è perdita e guadagno.
E se a noi, in questo momento in cui ci guardiamo intorno, hanno dato nell’occhio prima certi caratteri di insufficienza e di antipatia che sono nel lavoro di codesta critica, non vorremo dimenticarne però certe note di esigenza più profonda e altre quasi conquiste di libertà spirituale, che non sono di oggi, e riusciranno forse più potentemente benefiche domani.
Del resto, a voler cavare una conchiusione sul valore di questo momento, troppe cose bisognerebbe soggiungere intorno a uomini e questioni e tendenze, così di critica come di letteratura in genere, per cui qui non c’è posto.3
Solo una cosa, sul punto di fermarci, possiamo dire e vorremmo che servisse a rendere un significato comune a molte parole discordi: abbiamo parlato di libri buoni e cattivi, di scrittori felici e infelici, secondo l’impressione che può parere sommaria e indifferente del pubblico. Ma se pensiamo che tutte queste fatiche e uomini appartengono, al di sopra del momento, alla letteratura, cioè alla vita intima e durabile e vera dell’Italia, allora ci scordiamo di quel che piace e di quel che non piace, e vogliamo ricordarci soltanto che tutto è cosa nostra e per questo l’amiamo.
Note
- ↑ Ne abbiamo parecchie: i Profili, i Contemporanei, gli uomini d’Italia, i moderni, gli antichi e che so io. Ma o si sono arrestate, o han dato la solita roba; conferenze da una parte, e dall’altra tesi e avanzi di corsi scolastici, che non riescono a fare il libro. L’unica serie che va avanti bene è quella dei Profili; appunto perchè il suo modulo, anche materialmente, modesto e facile da riempire, si impone alla personalità degli autori con una certa economia necessaria di notizie e di disegno, che non lascia posto a digressioni o erudizioni o analisi, come dicono, originali. Potrebbe parere un difetto; ed è, tra noi, una fortuna. Senza dire che anche in quei limiti si possono ottenere cosette buone; per un esempio, l’Esiodo del Setti o il Bodoni del Barbera.
- ↑ Anche i giudizi sopra gli scrittori come persone, temperamenti, hanno una precisione pratica che non è mai nei giudizi di stile.
- ↑ Riprenderemo, per questa parte, il discorso in un volume di questa collezione: «L’Italia d’oggi», della Serie II. Movimenti spirituali e curiosità letterarie. (Del quale la materia è: «Critica d’arte e di musica, Filosofia, Storia, Risorgimento, Letteratura classica, Letteratura straniera, Collezioni di scrittori, Teatro, Riviste e giornali, Movimenti e gruppi giovanili, Futurismo, Nazionalismo, Letteratura religiosa, le Donne»).