Lettere (Serra)/V
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V.
Domina con la sua figura il campo della critica come D’Annunzio quello della poesia. Si potrebbe continuare il parallelo; poichè si parla, per l’uno come per l’altro di fine, o almeno di stanchezza, di superamento; e si sente qua e là della ribellione e del fastidio, quasi desiderio di sottrarsi a una disciplina che ha fatto il suo tempo. Desiderio vano, in tutti e due i casi; desiderio di scolari.
Per altro c’è del vero anche in questo errore: il sentimento di qualche cosa che è finita, si è compiuta; come al termine di una giornata di lavoro, quando la gente si reca i suoi arnesi in ispalla e si divide e va per i fatti suoi; chi ai piano, chi al monte; e la figura di colui che sale la costa solitaria appare a un tratto lenta e grande a coloro che si perdono scalpicciando nella bassura del crepuscolo. Così fa Croce; ha finito una parte del suo lavoro, e si allontana: la sua persona si è staccata dall’opera giornaliera, in cui ci pareva di averlo vicino e compagno, e spicca con un profilo non più famigliare.
Allora sorge oscuramente il problema di definire e valutare ciò che si divide da noi; la sostanza di questi dieci o quindici anni di cultura e di pensiero e di lavoro letterario che è stato fatto o promosso o improntato sempre da Croce, dall’esempio, dalla vicinanza di Croce. Abbiamo dunque collaborato a qualche cosa di grande, che durerà, abbiamo assistito al nascimento di uno di quei pensieri che gli uomini conserveranno e ripenseranno lungamente dopo di noi, con sempre rinnovata ansia e soddisfazione; o siamo stati soltanto spettatori, e in parte compagni di una di quelle fatiche potenti e pazienti, la cui grandezza finisce con l’operaio?
La domanda ci interessa fortemente. Poichè è certo — qualunque sia il valore intimo del Croce — che egli è stato grande per noi: la sua opera ha dominato dall’alto il pensiero di questa generazione: nessuno ha saputo elevarsi al di sopra di quella o starne fuori del tutto; così i vecchi, invidiando e contrastando e seguitando pure riottosi; come i giovani, accettando e agitando con la impronta baldanza degli imitatori: ma ora si dice, pochezza nostra, o vera grandezza sua?
La risposta non si può trovare nel nostro frettoloso bilancio; che si contenta di registrare il dubbio come un elemento della situazione. In cui c’è da una parte un certo disagio nostro, davanti al cambiamento; con la voglia in qualcuno di liberarsi dal disagio, senza risolverlo, mettendo il Croce addirittura fra i superati; e dall’altra parte, il cambiamento.
A guardar così materialmente si direbbe che il Croce abbia oramai compiuta la parte più importante, polemica e costruttiva, del suo lavoro.
La filosofia dello spirito è terminata; la Critica col XII volume, che del resto è già scritto da tempo, cessa la battaglia e si può dir che finisca; l’opera capitale su Vico è stata stampata; che cosa resta al Croce? In quest’ultimo anno si direbbe che egli abbia voluto, con quella sua correttezza metodica, esaurire il programma della prima serie delle Opere; ha vuotato il cassetto delle sue note sulla letteratura contemporanea; ha stampato anche il volume delle moralità e delle chiose prima che invecchiassero; e adesso si ritira, comincia la serie seconda; analecta, paralipomena. Il lavoro ha un’apparenza più modesta, raccolta; è in certo modo un riepilogo, la ripresa e il compimento di certi propositi giovanili, che gli son cari, e che gli dispiaceva di aver lasciato indietro; ma adesso, avendo adempiuto il suo compito più duro, si può concedere la soddisfazione di condurre a termine anche quelli. Com’è noto, si tratta prima di tutto del De Sanctis; pubblicare i suoi quaderni di scuola, rifar la storia della sua vita, delle sue amicizie, delle sue corrispondenze; la nuova serie della Critica sarà dedicata in gran parte a questa opera lunga e minuta di bibliografia, da letterato e insieme da fedele pio. E poi ci sarà una collana di studi sugli storici italiani dell’’800, accompagnando nel campo dell’erudizione critica quelle ricerche sul problema della storia, con cui il Croce è tornato quasi appassionatamente a quello che fu il primo tormento e il primo inizio delle sue meditazioni giovanili: ricerche che si continuano in memorie accademiche, in recensioni, in episodi che non fanno rumore, e pare che abbiano un interesse più personale che oggettivo. Ma tutte le cose che fa per adesso il Croce par che valgano più per lui che per noi; anche quando egli ritorna all’edificio della sua filosofia, e aggiusta qua e là qualche pietra, ribadisce un chiodo; e poi si volta a difendere il suo lavoro dalle incursioni e dall’audacia di chi lo vuole abbattere o rinnovare; e allunga una frustatina ai suoi superatori, e impartisce una lezione a dei giovani indisciplinati, e si accinge a far giustizia, da un certo punto di vista di difesa personale, delle novità dell’idealismo attuale.
Questa press’a poco è l’impressione che oggi rende il Croce ai più. Non è certo per altro che sia esatta.
Qualcuno pensa che la caratteristica vera dell’ingegno del Croce sia il progresso continuo e dialettico, qualità dell’intelligenza che non ha niente di comune con gli episodi e con gli oggetti del suo lavoro. Non l’ingegno creatore, nella sua potenza che turba e afferra improvvisa come un motivo di musica nuova pullulato dal fondo — nel senso di Bergson; ma la forza pacata chiara sistematica dell’intelligenza che si dilata e cresce nel suo corso, come l’acqua che mai non si ferma: forza la cui operazione non si può quasi dire che sia più profonda in un punto o in un altro, e che certamente non è misurata dall’importanza apparente dei problemi su cui si esercita, e non è esaurita in nessun volume, perchè la sua natura è appunto il progresso: il quale continua e forse si accresce dalle questioni storicamente grandi e solenni della prima serie alle minuzie e anche agli aneddoti della seconda.
Il Croce — se è tale — non può esser finito, nè diminuito; perchè egli non è soltanto una scoperta, una formula, poniamo la formula dell’estetica come scienza dell’espressione, o la distinzione del momento economico dall’etico; che a voler rammentare i suoi contributi capitali alla storia del pensiero bisognerebbe forse fermarsi su questi punti; ma è una attività, e questa è sempre viva, e può esser più intensa, quando è più silenziosa e raccolta in termini modesti.
Nel Croce come attività c’è qualche cosa che trascende sempre il crocianesimo; intendiamo quella certa comodità e scolasticità di formule, di distinzioni e di risoluzioni, che annulla quasi tutti i problemi in un solo, e nega e sopprime le difficoltà nuove nell’atto stesso che si propongono; questa disposizione si ritrova esagerata e meccanizzata negli scolari, ma è ben visibile anche in lui, nell’uggia di quel sorriso calmo e viso lieto, per cui non esistono più problemi nell’universo, ma soltanto l’onesto divertimento di risolverli; e l’oggetto della nostra impazienza o magari della nostra angoscia morale ancora non è veduto da lui, che già è diventato, quasi per ordinamento inevitabile e predisposto, un gioco di termini e di formule, tanto chiare da parer vuote.
Questa attitudine del Croce si sente nella polemica, e oggi forse meglio di ieri; le lezioni che egli ha dato, e che si compiace di dare a certi giovani (Borgese, Papini, Boine e via via) hanno spesso qualche cosa di antipatico e un po’ chiuso, come un castigo che non si cura affatto della salute dell’anima a cui si rivolge, e sopra tutto un pretesto per aggiungere una cosina che non aveva trovato posto nell’ultima edizione del volume grosso (del resto anche la generosità intellettuale del Croce, che pur è stata così benefica, ha avuto spesso un carattere di impersonalità indifferente e quasi superficiale nella sua larghezza; e oggi poi c’è qualche cosa in lui, come colore psicologico, chiuso, meno fidato; più lontano insomma; come appunto si diceva cominciando). Anche la polemica col Gentile, così importante per certi riguardi, appare finora nell’insieme un po’ angusta, limitata nel tecnicismo delle formule consuete, e quasi dentro il cerchio già perfetto dei tre volumi della Filosofia dello Spirito.
Ma il Croce non è chiuso, lui, col pensiero, in quel cerchio. Continua e cammina, con moto equabile e necessario.
Non importa se, per esempio, il problema della storia avesse già avuto nei suoi libri una risoluzione elegante e compiuta. Dal punto di vista sistematico tutte le commessure e le viti potevano sembrare a posto; ma egli ci pensava ancora, con un tormento intimo e incontestabile; e ha ripreso e rinnovato la soluzione con quelle tre memorie, che per ora non escono dall’ambito sistematico (anzi rappresentano forse un accomodamento un po’ sofistico; con la distinzione di storia e pseudo storie, che corrisponde al compromesso fra concetto puro e concetto rappresentativo), ma pur hanno posato il dito su una piaga più profonda; su quell’antinomia del presente e del passato, dell’uno e dei molti, dell’identico e del distinto, che egli poteva molto comodamente, nella sua posizione trascurare, avendola già sistemata per postulato; o annullare come sogliono, giocando di prestigio, gli scolari. E lui invece non se la, nasconde, ma la affronta; non oso dire che l’abbia vinta; ma ha lottato e lascia credere che lotterà e si travaglierà ancora, con una insistenza la cui profondità ci sfugge e ci sorpassa forse.
Così ha fatto nell’estetica, in modo da progredire sopra la sua formula col concetto della liricità; e con questo criterio bisogna anche considerare le sue schermaglie contro l’idealismo attuale, che non sia solo una difesa «pro domo», ma l’espressione di una esigenza intima e severa; che non si contenta delle composizioni astratte, ed è attaccata, attraverso il tecnicismo e la dottrina, ai momenti reali della vita etica e alle angoscie vere della riflessione, attaccata quasi diremmo al solido, al concreto, al tormento che è quel tormento e non un altro in tutto l’universo. Così attraverso la bonomia tranquilla, pingue, un poco floscia e sorridente del suo viso di napoletano miope e senza gesti, si rivela a tratti la maschera dura pesante tetra di un pensiero ignoto.
In quanto poi alla sua produttività più propriamente letteraria, basterà averne ricordato il programma, la cui importanza è tutt’altro che secondaria. In fondo, le note di letteratura, che stanno per cessare, non erano il meglio del Croce; e nell’Italia di ieri hanno avuto un valore specialmente didattico e di cultura.
I nostri lettori, per esempio, non si sono quasi accorti che il Croce è quasi miglior letterato che critico. In quanto è un eccellente scrittore, classicamente misurato e composito, nutrito di reminiscenze e di citazioni che sostituiscono in lui, come in tanti classici e classicisti, il pittoresco dell’immaginazione, ricco di pathos e di calore sincero, che riscalda e manda luce anche; certe pagine, come sul Vico, sono ammirabili; e momenti assai felici di urbanità, di evidenza, e anche di malizia si trovano da per tutto. Aggiungete che la sua critica, fuor che nelle discussioni, quando la personalità dello scrittore diventa pretesto a chiarire un punto e sopra tutto a toglier di mezzo uno pseudo problema teorico, la sua critica appartiene piuttosto alla maniera vecchia che alla nuova: molti e molti saggi si direbbero scritti da uno che certo non ha letto l’Estetica. Son saggi di moralità e di psicologia letteraria, che guarda, più che all’artista, all’uomo e al contenuto dell’opera; e riesce a caratterizzarlo con formule indovinate, come quelle sul Carducci poeta della storia, sul Pascoli «poeta-puer», sul D’Annunzio, sul Martini: toscanità, sul Guerrazzi: eloquenza, e via via.
S’intende che formule e tratti generici, cavati dal contenuto, sono drammatizzati e quasi dialetticamente dedotti con una vigoria, che mostra lo scolaro del De Sanctis: scolaro fedele e al tempo stesso onestissimo, che ha saputo adattare la maniera del maestro alle facoltà della sua natura più sobria e modesta.
Ma il pregio migliore di quei saggi è nella maturità, nell’economia e nel garbo, che ne fa spesso dei bozzetti limpidi e arguti come pochi altri.
D’altronde, questo è un discorso inutile nel punto in cui il Croce si ritira dalla critica militante; e non si vede ancora come continuerà. Scriverà, cose belle e interessanti, a ogni modo; ciò può bastarci.