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376 scritti di renato serra

zioni corpulente e patetiche: insomma ha preso lo stampo della sua critica press’a poco dalle mani di Borgese. Aggiungiamo che non è mai riuscito a adoperarlo bene come Borgese: i suoi articoli sono mal costruiti, con qualche cosa di oscuro che distrugge ogni effetto di antitesi e di catastrofe. Non c’è taglio nè spicco nè eloquenza nelle cose sue; ma una lentezza faticosa e indigesta, un gusto acerbo, quasi di grappoli d’uva verdissima, pestati e infranti duramente, senza che ne coli goccia di umore.

Ma c’è in lui un dono profondo, un vero dono di critico: una mezza genialità informe, che si sveglia davanti alle cose dell’arte, come un bisogno assoluto di rendersene conto, di ritrovarne in se stessa il principio puro, quasi la formula chimica essenziale; o forse piuttosto una formula magica, che gli permetta di possedere e di riprodurre secondo la sua volontà tutte le operazioni e il miracolo di quell’arte.

Questo bisogno di condensare tutto il lavoro artistico in un incantesimo breve, è il male di cui tutti i critici soffrono un poco, nel nostro universo in cui gli incantesimi non sono possibili: ed è il tormento di Cecchi, che lo aggrava col suo travaglio invece di risolverlo.

Egli è di quella razza che non sa rinunziare, ma quasi in un punto e in una parola sola vorrebbe esprimere tutto il mondo che dentro preme. Nei suoi primi saggi — sul Pascoli mi pare — si sentiva un desiderio tumultuoso di buttar fuori, a proposito di un particolare qualunque e senza riguardo del suo valore preciso, tutta quanta la impressione ricevuta dal poeta nell’insieme, e poi ancora tutta la commozione e il senso e l’amore della poesia in genere, e a mano a mano ogni