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Aggiungete un’altra tendenza, che si potrebbe dire della reincarnazione degli astratti. Pare che insieme col travaglio di analisi e di dissolvimento, che riduce nella critica odierna tutte le impressioni dirette della lettura e della commozione a definizioni e via via a principi spirituali sempre più astratti, sorga anche un bisogno di restituire più profondamente la vivacità e la ricchezza di quelle stesse impressioni. Ed ecco la ragione di quel linguaggio metaforico così violentemente colorato e ingrossato di aggettivi, con cui i critici possono raggiungere, come dicono, la piena adeguatezza dell’arte: non c’è concetto tanto vasto o finezza psicologica così squisita, che non sia adombrata con gli aggettivi i più carnali e solari.
Un pedante vorrebbe dire che qui insieme con Croce si trova D’Annunzio: abitudine stilistica di risolvere le impressioni in principi astratti, pur conservando pathos e calore, anzi rendendo a ogni minuzia solennità enfatica, splendore di tragicità, serenità e via via. Ma lasciamo stare i pedanti. A noi basterà soggiungere, per l’esattezza, qualche cosa sui risultati e sugli effetti di questa critica.
Fin qui si è parlato dell’impostazione dei problemi. Che per solito è giusta, almeno fino a un certo punto. Se si paragona, così a occhio e croce, il modo spregiudicato e disinvolto, come un giovane oggi, per quanto modesto, avvicina un’opera d’arte, col modo che avrebbe tenuto uno di cinquanta o di cento anni fa, bisogna pur riconoscere che c’è stato progresso. Certi pregiudizi, certi impedimenti, certi veli su gli occhi, che imbarazzano talora anche un Carducci o un Leopardi, noi non li abbiamo più: gli occhi van dritti all’essenziale. Le intenzioni, insomma, son buone.