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370 | scritti di renato serra |
egli trovi di colpo il punto di vista più giusto per osservare il lavoro artistico, con una autorità che sorprende — come quando trovò il principio della prosa dannunziana nell’indifferenza sonora di uno schema dattilico — poi, seguitando, si vede che la sua giustezza è generica; la citazione, la distinzione che tenta fra il bello e il brutto, rivelano una goffaggine di principiante.
In ciò egli rappresenta alla perfezione questo tipo di critica, che è solo un atteggiamento, una impostazione di problemi. Anche la sua carriera è, come si dice, rappresentativa.
Cominciò a imitare D’Annunzio e poi l’ha negato, sforzandosi di superarlo; si è nutrito lungamente di Croce, e poi se ne è staccato quasi per un effetto di maturata individualità; ma anche oggi, a considerar bene, non c’è altro in lui che Croce e D’Annunzio, come ieri, come sempre. Questa è stata fin dal principio la sua forza e il suo difetto. Croce e D’Annunzio sono stati i suoi maestri di scuola; egli arrivò subito a capire che l’ultima parola del pensiero e dell’arte era in loro; e si diede a imitarli, a gareggiar quasi con loro, con quella facilità di certi ingegni, che arrivano subito a una relativa e pericolosa perfezione.
È il tarlo di queste educazioni letterarie moderne, che cominciano dalla fine; s’attaccano addirittura al lirismo, all’originalità, alla grandezza autentica: e, naturalmente, cambian tutto in retorica.
Così accade che Borgese sia l’uomo di tutte le qualità approssimative; dà l’illusione di molti cloni dell’arte e dell’intelligenza, e in fondo non ne possiede interamente nessuno.
Il suo modo di scrivere, anche al di fuori del-