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le lettere 361


I professori che son saliti alle cattedre nell’ultimo decennio, e quelli che si preparano a salirvi domani, hanno buttato via la muffa, e son pieni di pretese verso la cultura, le idee, la critica, l’estetica. Invece di limitarsi ai codici e agli archivi e agli schedari, fanno delle conferenze, scrivono di letteratura moderna, ricercano magari le fonti del D’Annunzio, o disegnano delle monografie sul Carducci; fanno la concorrenza ai giornalisti insomma, si insediano nelle quinte colonne e nelle pagine dei magazines, quando non si decidano addirittura a piantar la cattedra o a chieder l’aspettativa per entrare nella letteratura militante.

D’altra parte i giornalisti salgono sulle cattedre; e il pubblico pensa timidamente che non ne siano mai discesi; tanta severità scientifica ha invaso da anni le colonne dei quotidiani; anzi si direbbe che i giovani pensatori che vi esercitano le loro funzioni difficili siano essi i professori veri, a cui anche gli altri, gli studiosi e i lavoratori già maturi, guardano con invidia, mentre aspettano trepidando il cenno di lode o di biasimo; e c’è tanta autorità e tanto prestigio in ciò, che non ci accorgiamo neanche più della noia.

Il vero è che quel così detto ideale critico nuovo è rappresentato in un modo più pronto e più intero e quasi diremmo più legittimo dalla critica giovane; e quel tanto di provvisorio e di relativamente insufficiente, che la fretta giornalistica comunica per forza agli episodi del lavoro, non ne diminuisce però il valore di principio e di diritto.

E poi, il pubblico guarda a questo: e questo è il canone di cui si serve, più o meno consapevolmente, per intendere e per misurare le altre