Chi vuol fiabe, chi vuole?/Le bisacce del lupinaio
Questo testo è completo. |
◄ | Radichetta | Saltacavalla | ► |
LE BISACCE DEL LUPINAIO
campava sè e la famiglia vendendo i lupini.
Ogni mattina caricava sull’asino le bisacce di tela grossolana ripiene di lupini, e andava attorno, gridando con speciale cantilena:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio!
I ragazzacci che non avevano un soldo per comprarseli, gli facevano il verso.
Uno gridava: — Lupin dolci, lupini, lupinaioI E gli altri rispondevano in coro: — Con mezzo soldo n’avete uno staio!
Il lupinaio un po’ rideva, un po’ si arrabbiava, specialmente nelle giornate in cui i compratori erano stati pochi, e qualche comare gli domandava per chiasso:
— È vero? con mezzo soldo uno staio?
Non rispondeva e tirava via:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio!
Il guaio era quando tornava a casa con le bisacce appena dimezzate. La moglie, linguacciuta, lo assaliva:
— Vedete? Non siete più bono a vendere due bisacce di lupini!... Di che cosa dobbiamo campare? Di vento? —
La figlia stava zitta, e faceva segno con gli occhi al padre di aver pazienza.
Da qualche tempo in qua, i ragazzacci, non contenti di fargli il verso, avevano trovato un barbaro mezzo di danneggiarlo, quasi fosse colpa del lupinaio se essi non possedevano un soldo per comprarsi i lupini.
Si riempivano le tasche di sassolini di fiume e si presentavano in quattro, in sei, attorno all’asino, accompagnando uno di loro che chiedeva, mostrando il soldo:
— Un soldo di lupini! —
E mentre il lupinaio era occupato a versare nella tasca del ragazzo il misurino dei lupini, gli altri, rapidamente, gettavano manate di sassolini in una bisaccia dandole una rinsaccata di sotto in su, perchè il lupinaio non se n’accorgesse.
Se n’accorgevano invece coloro che compravano, e se la prendevano con lui. Gli toccava di leticare a ogni po’. Sembrava una malizia di rivenditore poco coscenzioso. E il peggio era quando tornava a casa con le bisacce appena dimezzate e i lupini mescolati coi ciottoli. La moglie, linguacciuta, lo assaliva:
— Vedete? Ve la fanno sotto gli occhi e non vi accorgete di niente. Se dura così, nessuno più comprerà lupini... e noi camperemo di vento! —
La figlia stava zitta, e faceva segno con gli occhi al padre di aver pazienza.
Poteva mai sospettare di quei ragazzacci?
— Un soldo di lupini! —
E vedendo che quel po’ di lupini dovevano dividerseli fra cinque o sei, il poveretto faceva colmo più dell’ordinario il misurino, e intanto che lo versava nelle tasche del compratore, quegli altri, lesti lesti, buttavano nella bisaccia quanti più sassolini potevano, e le davano una rinsaccata, di sotto in su, perchè il lupinaio non se n’accorgesse.
Se n’accorgevano invece coloro che compravano; e siccome la cosa si ripeteva tutti i giorni, così accadde che nessuno più comprava lupini da lui.
Inutilmente si sgolava per le vie:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
Non lo chiamavano, non lo fermavano più.
Una sera, disperato di essere andato attorno tutta la giornata senza aver venduto neppure un misurino di lupini, e non avendo animo di affrontare i rimproveri della moglie, il povero lupinaio si era deciso di finirla, andando a buttarsi nel fiume.
Si cacciava l’asino davanti e pensava:
— Prima butto nel fiume questi lupini maledetti, e poi faccio il tonfo io. —
Lo fermò a mezza strada una bella signora:
— Lupinaio, lupinaio! Datemi quattro soldi di lupini.
— Signora mia, rivolgetevi a un altro. Dei miei non so più se siano i ciottoli o i lupini. È una disgrazia, che mi accade senza che io possa capire come e perchè.
— Dove andate a venderli dunque?
— Vo a buttarli nel fiume, e io dietro!
— Lasciatemi vedere. —
La bella signora ficcò le mani prima in una, poi nell’altra bisaccia, rimescolò, rimescolò i lupini e ne trasse fuori una manciata:
— Dove sono i sassolini? Vi è parso, buon uomo! —
Incredulo, ficcò le mani anche lui fino in fondo alle bisacce, e le cavò fuori piene di lupini; neppur l’ombra di un ciottolo!
— Tornate addietro, buon uomo! Farete buoni affari; vedrete! —
Si voltò per ringraziarla: la bella signora era sparita. E avvenne precisamente com’essa aveva predetto.
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
Con sua grande meraviglia, appena venduti qua e là una ventina di misurini, vide accorrere da ogni parte donne, uomini, vecchi, bambini...
— Lupinaio! Lupinaio! —
Non faceva in tempo a misurare e a intascare soldi. E in meno di un’ora tornò a casa con le bisacce vuote. Il giorno dopo, daccapo!
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
In ogni via, in ogni piazza gran folla attorno all’asino.
— Prima a me, lupinaio! —
Si spingevano, si urtavano, facevano a pugni.
— Zitti! Ce n’è per tutti! —
E di lì a poco non ce n’era più! E il lupinaio allegro, con le tasche gonfie di soldi, tornò a casa per riempire le bisacce.
La moglie, vedendo tanta ressa, gli diceva:
— Dovresti rincararli: due soldi il misurino! —
Li rincarò; e la folla, invece di diminuire, ingrossò ancora di più. Il lupinaio non sapeva spiegarsi come mai la gente ammattisse tutt’a un tratto pei lupini, quasi fossero più dolci dei confetti. In ogni via, in ogni piazza, gran folla attorno all'asino... (Pag. 232)
Nella confusione di dover servire questo e quello, egli non aveva osservato che i compratori, appena ricevuta la loro misurina di lupini frugavano con l’indice fra essi, prendevano qualcosa che vi trovavano mescolata e, poi, la più parte, li buttavano via, senza metterne in bocca neppur uno.
Una mattina, avviandosi ad andare attorno di buon’ora, vide accostarsi una povera donna.
— Un soldo di lupini!... E, in carità, mettetevi una monetina di più. Sono vedova ed ho quattro figli.
— Di quali monetine parlate?
— Di quelle che voi date a tutti coi lupini! —
Il lupinaio restò sbalordito. Come? Lui per un soldo dava un misurino di lupini e una monetina, senza saperlo?
Provò; diè un soldo di lupini alla povera donna, e vide che questa, frugato col dito, trovava una monetina grossa quanto un lupino.
— Tenete, poveretta! Tenete! —
Le diè altri quattro misurini, per gratitudine, e tornò subito a casa, senza gridare per via: — Lupin dolci, lupini, lupinaio!
— Moglie mia! Figlia mia; siamo ricchi! —
Non potè dir altro. Rovesciò per terra le due bisacce di lupini e si buttò ginocchioni per frugare. Li sparpagliava di qua, di là, li rimescolava, li osservava quasi a uno a uno... La moglie e la figlia lo credettero impazzito.
— Ma che cosa cerchi?
— Le monetine d’oro!
— Quali monetine?
— Quelle che, senza saperlo, ho dato alla gente con ogni misurino di lupini! Per questo si affollavano a comprare!
— Va bene — disse la moglie. — Ora che sei sicuro che non ce n’è, rimetti i lupini nelle bisacce e va’ a venderli! Le vere monetine d’oro saranno i soldi che riporterai.
— Ma quella povera donna dunque? L’ho vista io una monetina grossa quanto un lupino!...
— Si è burlata di te!
— Babbo, la mamma ha ragione. Come può essere? —
Il lupinaio, pur ripetendo:— L’ho vista io, con questi occhi! — raccolse i lupini, mise le bisacce sull’asino e si avviò:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
Gran folla, gran ressa.
— Lupinaio, prima a me!
— Prima a me, lupinaio!
— Uno per volta! —
E allora si accòrse che la gente, avuta la sua misura di lupini, frugava con l’indice, prendeva qualcosa che vi trovava mescolata e li buttava via senza metterne in bocca neppur uno. Dunque le monetine d’oro erano mescolate ai lupini! E come mai egli non le aveva trovate?
Tornò a casa con un pretesto. Rovesciò per terra quel che rimaneva in fondo alle bisacce e si buttò ginocchioni a frugare. Sparpagliava i lupini di qua e di là, li rimescolava, li osservava quasi a uno a uno.
— Ma che cosa cerchi?
— Le monetine d’oro. Anche questa volta le hanno trovate tra i lupini! Ed io niente! —
E faceva saltar per aria, stizzosamente, i lupini che aveva davanti.
— Domani ti accompagno io. Voglio vederci chiaro. Porteremo due misurini, così faremo più presto. —
Uscirono per le vie molto di buon’ora.
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
Gran folla, gran ressa!
Ma non appena la donna si accorse che la gente, avuto il misurino di lupini, frugava con l’indice, prendeva qualcosa che vi trovava mescolata, e li buttava via senza metterne in bocca neppur uno, si convinse che era vero delle monetine, e interruppe la vendita.
— Marito mio, torniamo a casa: mi sento male. —
Pretesto per non dare agli estranei tante belle monetine che potevano formare un tesoretto.
A casa, chiuse l’uscio, per cautela, rovesciò per terra le due bisacce di lupini e si buttò ginocchioni assieme col marito. Fruga, sparpaglia, rimescola... Niente! Rimescola, fruga, sparpaglia... Niente!...
— O che dobbiamo lavorare per il bel muso della gente? Smettiamo di vendere i lupini, giacchè le monetine sono per loro e non per noi!
— Dici bene: smettiamo!
— Eppure abbiamo guadagnato tanti soldi — entrò a dire la figliola. — I soldi per noi, le monetine, se è vero, per gli altri.
— Sta’ zitta, sciocchina! —
E lo stesso giorno il lupinaio portò l’asino in piazza per venderlo.
— E le bisacce?
— Quelle servono a me. —
Ciò non ostante, molti entravano in gara, lusingandosi che quell’asino dovesse portar fortuna. Quando la gara si arrestò, l’asino veniva pagato quanto un bel cavallo da corsa.
La notizia delle monetine d’oro fra i lupini era arrivata agli orecchi del Re, un avaraccio che avrebbe voluto cavar oro anche dalle rape. E ordinò:
— Mandate a chiamare il lupinaio. —
Uno dei Ministri aveva suggerito:
— Maestà, faremo così: il lupinaio venderà per conto suo; le guardie però fermeranno i compratori, frugheranno per trovare le monetine tra i lupini e le sequestreranno in favore della cassa reale come moneta di contrabbando.
Il consiglio era parso al Re una stupenda trovata.
Il lupinaio tremava come una foglia.
— Maestà, sono innocente!
— Non vi si accusa di nulla. Per quale ragione avete smesso di vendere i lupini?
— Sono stanco di andare attorno, e il guadagno è così scarso! Ormai! Ho venduto fin l’asino.
— E le bisacce? — domandò il Ministro.
— Vecchie, di telaccia, le ho buttate in un angolo.
— Portatele a Sua Maestà, che saprà ricompensarvi. —
Il lupinaio si consultò con la moglie:
— Il Re vuole le bisacce dei lupini.
— Quelle delle monetine?
— Quelle!
— No, marito mio. Qui sotto c’è un mistero. Chi sa che un giorno o l’altro esse non si risolvano a dar monetine anche a noi? Portagli quell’altro paio.
— Le vuole piene di lupini.
— Riempile. —
Il Ministro, malizioso, disse:
— Facciamo la prova. —
La prova riuscì male. Niente monetine.
E Sua Maestà ordinò che il lupinaio fosse gettato in fondo a un carcere.
Accorse la moglie piangendo.
— Grazia, Maestà!
— Ma prima dovete portarmi le vecchie bisacce dei lupini.
— Ha sbagliato, il poveretto; vado a prenderle io.
E portò un altro paio di bisacce vecchie, rattoppate.
— Facciamo la prova. —
Anche questa volta la prova riuscì male. Niente monetine.
E la moglie fu mandata a raggiungere il marito in fondo al carcere.
Accorse la figlia, piangendo:
— Grazia, Maestà!
— Ma prima devi portarmi le vere bisacce dei lupini.
— Hanno sbagliato, poveretti; vado a prenderle io. —
E portò proprio quelle, e la prova riuscì. In ogni misurino di lupini veniva trovata una monetina d’oro!
Il Re fece la grazia al lupinaio e alla moglie, e la Regina, incantata della bellezza e della modestia della ragazza, se la tenne nel palazzo per cameriera.
Il Re, da quell’avaraccio che era, non si fidava neppure dei Ministri per la vendita dei lupini. Vo!le fare da sè, e si mise davanti al portone con le bisacce caricate su un asino e il misurino in mano:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
Aveva detto ai Ministri:
— Tanti misurini, tante monetine! Aprite bene gli occhi! —
Da principio la gente radunata davanti al palazzo reale non osava di accostarsi a chiedere un soldo di lupini. Credevano che Sua Maestà volesse divertirsi, e stavano a guardare per vedere come finiva.
— Lupin dolci, lupini, lupinaio!
Sparsasi la notizia per la città, la folla aumentava, per godersi lo spettacolo del Re che faceva da lupinaio. E intanto nessuno osava di accostarsi a chiedere un soldo di lupini. Ma non appena uno fu così ardito da dare l’esempio, tutti vollero aver l’onore di esser serviti da Sua Maestà. E fosse malizia o la fretta, Sua Maestà non riempiva mai bene il misurino. A ogni misurino, lui intascava un soldo, e alle cantonate, le guardie, sotto la sorveglianza dei Ministri, frugavano nelle tasche dei compratori e sequestravano le monetine, dichiarandole di contrabbando.
E quando, verso sera, Sua Maestà smise la vendita, fece subito la rassegna: tanti misurini, tante monetine. Il conto non tornò esatto, ma lo sbaglio era di poco. Il Re non ci fece caso.
Alla gente quest’affare del sequestro, la prima giornata, era parso un grazioso scherzo di Sua Maestà. E il giorno dopo accorse più numerosa, lusingandosi che lo scherzo non sarebbe stato ripetuto.
Sua Maestà appariva di maggior buon umore:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
Durò una settimana. Poi la gente si diradò, e alla fine soltanto pochi curiosi sfaccendati rimasero fermi davanti al palazzo reale, guardando a bocca aperta Sua Maestà che si sgolava inutilmente:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
Intanto, in quegli otto giorni, la cassa reale rigurgitava di monetine d’oro, e il Re, da quell’avaraccio che era, le contava e le ricontava.
In quel tempo giungeva alla Corte l’ambasciata di un Re vicino: veniva per chiedere in nome del Reuccio suo figlio la mano della Reginotta. La richiesta fu gradita e, di lì a qualche mese, arrivava il Reuccio, preceduto da ricchissimi doni per la sposa, e accompagnato da un gran seguito.
Entrando nel palazzo reale, scorgendo tra la folla delle persone di Corte la bionda figlia del lupinaio, cameriera della Regina, il Reuccio ne fu talmente colpito, da scambiarla per la Reginotta. Piegò un ginocchio dinanzi a lei e le baciò la mano.
Uno dei Ministri del Re si affrettò ad avvertirlo dello sbaglio:
— Principe, costei è la cameriera della Regina! —
Il Reuccio rimase.
— Se una cameriera è così bella, figuriamoci la Reginotta! —
Invece la Reginotta non era, è vero, brutta addirittura, ma non si poteva dire neppur bella.
Il Reuccio, che non aveva ancora vent’anni, era incapace di fingere, e disse chiaro e tondo:
— Io sposo la cameriera! —
Fu uno scandalo. Il Re, la Regina e la Reginotta, indignatissimi, si ritirarono nelle loro stanze. I Ministri, in nome di Sua Maestà, annunziarono che avrebbero chiesto ragione di quest’offesa anche ricorrendo a una guerra. E il Reuccio tornò nel suo regno, ripetendo per strada:
— Sposo la cameriera! Sposo la cameriera! —
Il Re suo padre chiese scusa per evitre una guerra. E intanto ne soffrì quella che non c’entrava punto, la figlia del lupinaio.
— È strega, figlia di stregoni! Le monetine fra i lupini non erano forse opera di incantagione? —
Chiusa in un’umida cella, la poverina piangeva la sua mala sorte; se non che, verso mezzanotte, sentiva una voce dolcissima:
— Non disperarti! Sii buona; ti aiuterò io!
— Chi mi parla?
— Colei che ha soccorso tuo padre.
— Fatevi vedere.
— Domani. —
Ogni notte, a mezzanotte, così; ma quel domani non arrivava mai. La povera giovane, la mattina, non sapeva se avesse dito per davvero quella voce, o se avesse sognato.
Finalmente, una notte, il buio della cella fu rotto da un vivissimo splendore, e tra quella luce le sorrideva una bellissima signora.
— Non piangere! Sii buona. Ti aiuterò io. Sono colei che ha soccorso tuo padre il giorno che, sconfortato, voleva buttarsi nel fiume. Domani arriva il tuo liberatore! —
La giovane era così stupita di quel che vedeva ed udiva — ora non sognava davvero! — da non saper ringraziare quella signora prima che sparisse tutt’a un tratto.
E il giorno dopo si sentiva per la via una voce giovanile che gridava:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
Era un contadinotto poveramente vestito, che si tirava dietro un asinello, carico di due bisacce di lupini. Non se ne vendevano da un pezzo, e la gente si affollava a comprarli, anche per la speranza di trovarvi le monetine, come nelle misurine del vecchio lupinaio. No, questa volta si trattava di soli lupini, ma così grossi, così dolci, ch’era una delizia mangiarli.
Sentendolo gridare: — Lupin dolci, lupini, lupinaio! — il Re pensò di gastigare colei che avrebbe voluto sposare il Reuccio, e gli aveva fatto la malia, dandola per moglie a un lupinaio come suo padre. Fece chiamare quel giovane e gli disse:
— Vuoi prender moglie?
— E come la mantengo, Maestà?
— Ti darò io una piccola dote.
— Allora...
— Devi sposarla subito e condurla via, lontano.
— Come ordina Vostra Maestà.
— Così la superbiosa avrà quel che si merita! — dicevano Re, Regina e Reginotta, convinti che la povera giovane si fosse servita di male arti per farsi sposare dal Reuccio.
La disgraziata era divenuta pallida, magra, aveva perduta ogni freschezza.
Il Re, con accento canzonatorio, le disse:
— È venuto il Reuccio a chiedervi in moglie: eccolo qua. — Si sosarono e uscirono dal palazzo reale. (Pag. 253)
E indicò il giovane lupinaio che se ne stava tutto intimidito in un canto.
La giovane lo guardò e rimase confusa.
— Non vi piace? Non importa: lo sposerete lo stesso.
— Grazie, Maestà!... Anzi, lo sposo volentieri.
— Qui c’è il regalo di nozze che noi vi facciamo: aprirete l’involto quando sarete marito e moglie, e lontani di qui.
— Maestà — balbettò il giovane che sembrava molto commosso. — Prendo tempo otto giorni per recare questa notizia ai miei genitori.
— Tu intanto tornerai al tuo carcere finchè esso non viene. —
La povera giovane si senti stringere il cuore; le era parso di riconoscere in quel lupinaio qualcuno che ella aveva visto una volta, non ricordava in quale circostanza, insomma una fisionomia non ignota. Sentendogli dire però che prendeva tempo otto giorni, credette che fosse una scusa per andar via e non tornar più.
La notte, a mezzanotte, ecco la solita dolcissima voce:
— Non piangere. Verrà, tra otto giorni. Sarai felice.
— Ah, buona Fata! non m’ingannate... Voi siete una fata! Indovino?
— Indovini. —
Ed ogni notte, a mezzanotte, così.
Il Re e la Regina avevano pensato di fare un dispetto agli sposi.
— Che cosa gli daremo per regalo al lupinaio?
— Una sporta di lupini.
— No, gli daremo le bisacce del vecchio lupinaio che ora non servono più. —
Il Re, da quell’avaraccio che era, dopo che la gente non aveva voluto più comprare lupini da lui perchè le guardie sequestravano le monetine con la scusa che erano roba di contrabbando, aveva provato più volte se mai quelle bisacce conservavano l’antica virtù; ma inutilmente; tra i lupini non si trovava più traccia di monetine. Ora che erano inservibili, logore e rattoppate, ne avrebbero fatto un bel regalo di nozze agli sposi; un lupinaio e una figlia di lupinaio non meritavano di più. Le avevano fatte involtare con una bella stoffa di seta, e Re, Regina e Reginotta ridevano, ridevano, pensando alla sorpresa degli sposi che certamente immaginavano di trovarvi chi sa che dono reale!
La mattina dell’ottavo giorno, ecco il giovane lupinaio. Per non perder tempo, si tirava dietro l’asino con le bisacce piene di lupini, e gridava allegramente:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
E prima che arrivasse al palazzo reale aveva già venduto fin l’ultimo lupino.
Si sposarono e uscirono dal palazzo reale. Lo sposo portava sotto il braccio l’involto col dono del Re.
Re, Regina e Reginotta ridevano, ridevano della burla.
Ma che è, che non è, si sente nella piazza un forte rumore. Re, Regina e Reginotta si affacciano a un balcone per vedere che cosa accadeva e rimangono allibiti, quasi senza respiro.
La piazza era ingombra di carrozze dorate, tirate tutte da quattro cavalli bardati con gran magnificenza; cocchieri in ricche livree sedevano in serpe, e un’immensa folla di popolo stava attorno ad ammirare quello spettacolo inatteso.
Figuriamoci la rabbia del Re, della Regina e della Reginotta, quando videro salire in carrozza gli sposi ancora modestamente vestiti, che si voltarono a guardare in su, prima di partire. Lei salutava e il giovine intonava con voce squillante:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
I cavalli presero il galoppo, e in pochi minuti le carrozze degli sposi e del seguito erano fuori di vista.
La Regina e la Reginotta svennero, cadendo in convulsioni, e il Re pareva diventato una statua di sale. Avevano capito, ma troppo tardi; quel giovane lupinaio era il Reuccio che non aveva voluto sposare la Reginotta.
Gli sposi furono accolti con grandi feste. All’ultimo pensarono di vedere che cosa si trovava nell’involto ricevuto in dono dalla famiglia reale.
— Ah! Le bisacce di mio padre!
— Quali bisacce?
— Quelle con cui egli andava attorno a vendere i lupini. Avevano una gran virtù; ma giacchè quell’avaraccio del Re ce l’ha regalate, vuol dire certamente che non la conservano più.
E spiegò in che cosa consisteva.
— Proviamo; chi sa?
— Proviamo. —
Le fecero riempire di lupini, e quasi mettessero in atto un gioco nuovo, il Reuccio e la Reginotta disposero torno torno nella gran sala tutte le dame di palazzo e i cortigiani; e, prese in mano due misurine, cominciarono a cantilenare, ridendo:
— Lupin dolci, lupini, lupinaio! —
Le dame e i cortigiani dovevano affollarsi a chiedere un soldo di lupini, e dare un soldo davvero.
Quando ognuno ne aveva avuta la sua misurina, e non sapeva se doveva mangiarli o no, la Reginotta disse:
— Dame, cercate tra i lupini. —
E il Reuccio:
— Cercate tra i lupini, cavalieri! —
Tutti cercarono con viva curiosità, e tutti trovarono una monetina d’oro grossa quanto un lupino.
Ah! Dunque le bisacce non avevano perduto la loro virtù!
E la Reginotta disse:
— Sentite, Reuccio. Io vorrei che queste bisacce fossero appese a un uncino accanto al portone del palazzo reale. Dovrebbero esser sempre riempite di lupini, e che la povera gente potesse prenderne una misurina al giorno, non più.
— La vostra volontà è legge! — rispose il Reuccio.
E le bisacce quel giorno stesso furono appese a un uncino accanto al portone del palazzo reale.
Un banditore fece sapere a tutti:
— Badate! Una misurina al giorno e non più! e soltanto la povera gente! —
Fu una festa! Mille benedizioni alla Reginotta e al Reuccio! Se non che, dopo pochi giorni, nessuno voleva contentarsi di una sola misurina, e quindi di una sola monetina. Erano spintoni, urtoni, risse, legnate, ferimenti; le guardie non riuscivano a impedire i disordini.
E una mattina le bisacce erano sparite. Quelle monetine guadagnate senza nessuna fatica avevano acceso tale avidità in tutti, che la fata — dovette esser lei! — le portò via chi sa dove e non sono state più ritrovate, né quelle né altre consimili.
Lupin dolci, lupini, lupinaio:
Con mezzo soldo ne avete uno staio.