Italiani all'estero

Giuseppe Prato

1905 Indice:Prato - Italiani all’estero - 1905.pdf emigrazione Italiani all'estero Intestazione 13 giugno 2024 100% Da definire


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GIUSEPPE PRATO


ITALIANI ALL’ESTERO


CONFERENZA

tenuta all’Università Popolare di Torino

l’8 aprile 1905


Estratto dalla Rassegna Nazionale

fascicolo 1° Giugno 1905


FIRENZE

UFFICIO DELLA «RASSEGNA NAZIONALE»

Via Gino Capponi, 46-48


1905

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Signori,


Fu felice pensiero quello della benemerita Università Popolare di consacrare ad una sintetica evocazione dell’Italia all’estero una di queste geniali adunanze, così proficuamente dedicate allo studio delle questioni più vitali del progresso sociale e scientifico moderno. Felice pensiero, perchè, mentre nessun argomento tra quanti preoccupano nell’ora attuale lo studioso dei fenomeni umani si riconnette con legami più intimi alle sorti dell’avvenire nostro nel mondo, ancora l’opinione pubblica, in troppa parte incosciente od ignara, si rifiuta a riconoscerne la capitale importanza, occupandosene coll’interesse operoso che si accorda ai problemi la cui ripercussione sulla nostra vita è più diretta e più appariscente.

Come non sia stata parimenti felice la scelta del povero espositore cui una fiducia benevola volle affidato innanzi a loro quest’arduo tema, prevedo avranno fra breve ragione di argomentare. Nè egli certo avrebbe ardito accondiscendere all’invito lusinghiero, se, a rinfrancarlo, non fosse sorta in lui la convinzione che, in argomento di tal natura, e che involge tanta somma di interessi, di speranze, di sventure, di glorie e di sofferenze italiane, meglio è che la persona di chi parla scompaia perchè più alta e forte sia l’eloquenza dei fatti.

Ai fatti quindi limitandomi, e tra questi ai men noti, vedrò di porre in luce del problema i lati almeno più caratteristici, nella fidanza che alla ristrettezza del tempo concesso si vorranno addebitare in parte le molte lacune inseparabili dalle esigenze di una esposizione frettolosa e, per quanto è possibile, sommaria.


Non son molt’anni, Signori, dacchè il fenomeno della emigrazione fu riabilitato, mi concedano la parola, al cospetto dell’opinione pubblica italiana.

Avea corso nei secoli anteriori in Europa, e si perpetuò fino a mezzo il XIX tra noi, una feroce teoria, che, ri[p. 4 modifica]manenza di tramontate tradizioni di servaggio feudale, considerava l’emigrante quasi un ribelle al dovuto vassallaggio di sudditto, non ancora attenuatosi in dovere patriottico di cittadino.

Onde moltiplicati decreti e leggi proibitive in Inghilterra; imprigionamenti, confische negli Stati germanici; impedimenti vessatori in Spagna; divieti assoluti nei minori Stati, dove più geloso ero lo spirito di esclusivismo.

Fu prima la Gran Bretagna a comprendere quale avvenire di prosperità le fosse precluso dai pregiudizi d’una sfatata economia e d’un decrepito diritto pubblico, ed a spalancar le porte alla spontanea corrente d’espansione diretta a fecondare le colonie su cui l’ardimento dei navigatori aveva inalberato, fra solitudini selvaggie, il segno della conquista anglo-sassone. Nè tardarono a seguirne l’esempio la Francia, indi la Germania, la Svizzera, l’Olanda, l’Austria-Ungheria, le quali tutte, non paghe di sancire solennemente il principio di una piena libertà dell’espatrio, provvidero ancora, in determinate circostanze, a tutelarlo, con un deciso favoreggiamento ufficiale.

Ultima ad entrare in questa via di modernità e di giustizia l’Italia nostra, nella quale i cessati Governi aveano spinte a tal segno le cautele contro i pericoli politici dell’emigrazione, da renderla, in pratica, pressochè impossibile; e dove, anche dopo il 1860, l’ostilità antica durava pertinace e si esprimeva in forma scientifica negli scritti di parecchi fra i più eletti statisti ed economisti d’allora; il Gioia, il Minghetti, il Ferrara, il Carpi, concordi tutti nella premessa assiomatica del carattere dannoso dell’emigrazione. Applicazioni letterali di tale preconcetto apparvero quella vera grida spagnolesca che fu la circolare Lanza del ’73, la quale prescriveva ai Prefetti di frenare con ogni mezzo qualunque emigrazione, anche lecita e spontanea; nonchè l’art. 5 del Progetto Crispi del 1887, che concedeva al Ministro la facoltà di limitare il numero degli emigranti, così quanto alle provincie di origine come quanto ai paesi di destinazione.

Forza di eventi e maturità di tempi incominciavano però a condurre, anche nei cervelli più misoneistici, la luce. Ed essa uscì trionfante, non senza fieri contrasti a dir vero, dalla dotta discussione avutasi nel 1888 in Parlamento, la quale finì per concludere al definitivo riconoscimento teorico del diritto personale di emigrare. [p. 5 modifica]

A soli diciasette anni di distanza, questo principio ha fortunatamente cessato di essere oggetto di qualsiasi obbiezione fra noi.

L’emigrazione umana, insegna tutta la scienza moderna, è fenomeno necessario, provvidenziale, fatale. La storia intera è là ad additarci un succedersi continuo di emigrazioni, pacifiche le une, apportatrici le altre di rovine e di stragi, e che si chiamano ora invasioni, ora conquiste, ora esodi, or scorrerie, or protettorati, ma che son sempre lo stesso fenomeno, il quale si svolge perpetuo, governato da leggi arcane nella perennità del suo ciclo. Fatto biologico normale e spontaneo nel grande organismo dell’umanità; legge provvidenziale di circolazione e di equilibrio, esso soverchia ogni tentativo di arresto o di limitazione legislativa, abbatte ogni impedimento di barriere, con la potenza incoercibile delle maggiori energie della natura. Come la circolazione del sangue, la dilatazione dei fluidi, le maree dell’oceano e dell’atmosfera, le vibrazioni dell’etere, il corso degli astri, l'emigrazione non è che un effetto della gran legge d’armonia che regola e pondera con reciproche attrazioni tutti i movimenti dell’universo.

Se però non lice ad alcuno frapporre ostacoli od elevar barriere a questo legittimo fenomeno, ch’è risultante di complicati fattori sociali e psicologici, ben è doveroso per ogni popolo il cercar di disciplinarne, a vantaggio proprio, le manifestazioni, vegliando a che la perturbazione cui dà luogo l’anormale spostamento di interessi e di persone si attui col minimo di ripercussione dannosa e col massimo di profitto a pro’ del gruppo sociale generatore.

L’importanza capitale, meglio direi la necessità assiomatica di questo debito protettivo e tutelare nei rapporti speciali della patria nostra, non ha, credo, mestieri neppure di un accenno di dimostrazione.

Da qualche anno, nessuno può ignorarlo, l’emigrazione ha preso fra noi proporzioni così imponenti da trasformarsi in uno dei fattori principalissimi della nostra vita economica e del nostro avvenire civile.

Le statistiche che, nel 1876, accusavano poco più di 100 e nel 1890 di 200 mila emigranti annui, ne denunziarono, nel 1902 e 1903, più di 500.000, di cui quasi 300.000 di esodo permanente. Inferiori, vent’anni sono, all’Inghilterra, alla Germania, alla Spagna nelle cifre dei partenti, noi abbiamo acquistato sopra tutti un assolutissimo pri[p. 6 modifica]mato; tantochè, confronto ben fatto per impensierire, la sola Irlanda, spopolata dall’oppressione di classe e dalla fame, porge oggi una percentuale di emigranti più alta relativamente al numero dei suoi abitanti. Le varie regioni delle penisola concorrono in proporzione diversa nella corrente smisurata. Primeggia il Veneto, con 114.000 partiti, in buona parte, è vero, soltanto temporaneamente.

Seguono, per numeri assoluti, la Campania, la Calabria, la Sicilia, gli Abruzzi, la Basilicata, in alcune delle quali l’emigrazione, tutta permanente, ha da gran tempo oltrepassati, con rapporti annui costanti del 12, del 13, del 15, perfino del 16 per cento, quel limite massimo di normalità oltre il quale essa si trosforma in indice patologico inquietante di acuto malessere e di precipitoso dissolvimento sociale.

Non v’ha paese del globo in cui nuclei di italiani non si siano formati e non vivano compensando incessantemente col flusso dei nuovi arrivati i vuoti di una decimante snazionalizzazione.

A 4 milioni circa il Commissariato dell’Emigrazione fa ascendere il numero di questi nostri fratelli disseminati nel mondo; e vi sono paesi nei quali essi appaiono ormai piuttosto popolo che colonia.

Nella sola America, dove, nel 1881, gli italiani non arrivavano a 600 mila, ne troviam oggi 1.100.000 al Brasile, 620.000 nell’Argentina, 730.000 agli Stati Uniti, 100.000 nell’Uruguay, più di 50.000 nei minori Stati. In Europa essi sommano a più di 650.000, dei quali quasi 300.000 in Francia, forse 120.000 in Svizzera, 80.000 in Austria, 70.000 in Germania. Le terre mediterranee e levantine, piene ancora delle tradizioni dei nostri fasti marinareschi, si van saturando anch’esse con impressionante progressione. All’epoca dell’intervento inglese si contavano in Egitto 16.000 italiani; se ne noverarono nel 1901, 40.000. A Tunisi ve n’erano 11.000 prima della conquista; sono oggi 90.000 almeno.

38.000 ne vivono in Algeria; 25.000 in Turchia; parecchie migliaia nelle terre asiatiche, nell’Estremo Oriente, in Australasia. A ben pochi certo di quanti enumerano, comparandone l'importanza, le vecchie città della penisola, vien fatto di pensare che, oltre i monti e gli oceani, In mezzo a comunità straniere, l’elemento italiano abbia potuto raggrupparsi in agglomerazioni forse anche più numerose, per quanto casuali, inorganiche ed amorfe. E molti meravi[p. 7 modifica]glierebbero forse udendo che New York, per esempio, contiene più italiani che Venezia; Buenos Ayres più che Firenze o Bologna; Marsiglia più che Alessandria o Pisa: Tunisi più che Cuneo o Girgenti.

Quali le cause, si domandano gli studiosi, di questo progressivo, spontaneo versarsi della popolazione italiana all’estero? Quali le conseguenze immediate e remote sulla vita interna del paese? E sopratutto, è un bene o un male questa crescente sottrazione di energie vive muoventi a fecondare terre non nostre?

A quest’ultima questione, intorno la quale si esercita da tempo la virtuosità matematica dei nostri economisti, credo abbia risposto meglio di ognuno Luigi Bodio, dimostrando il carattere fatale e necessario del fenomeno, nelle condizioni attuali della ricchezza, del lavoro, del risparmio nel giovane Regno.

È facile dire: Perchè non provvedono le classi agiate, perchè non provvede magari il Governo a trattenere in patria tutta questa gente, occupandola nell’agricoltura, nell’industria, nelle opere pubbliche? Perchè non si favorisce la colonizzazione dell’Italia irredenta che sta entro i confini del Regno? Certo è impresa di grande interesse nazionale il porre a frutto le terre incolte; ma la questione non è da trattarsi sotto l’aspetto d’un rimedio all’emigrazione; dacchè fu già data in più occasioni la dimostrazione che di terreni incolti suscettibili di coltura ce n’è soltanto per 1 milione di Ea.; e, supposto di occupare su questa superficie un numero di lavoratori nella proporzione in cui si trovano i contadini nella bonifica d’Ostia, ci sarebbe da collocare, col tempo, 280 mila coloni; l’emigrazione netta di un anno, al più.

Dar lavoro vuol dire aver danaro da spendere, ossia aver capitali disponibili. Ma, a un dato momento, il capitale è quello che è, e non si può accrescere improvvisamente questo fattore indispensabile della produzione. E la nostra emigrazione è effetto appunto dello squilibrio esistente fra lo scarso capitale e l’offerta eccessiva della mano d’opera italiana. Noi siamo purtroppo lontani dai 70 miliardi di ricchezza nazionale che qualche fertile immaginazione aveva regalati all’Italia risorta appena dalle recenti crisi economiche.

Calcolandola a circa 65 miliardi il Nitti ha testè riconfermato di quanto la ricchezza media per abitante italiano [p. 8 modifica]si mantenga inferiore a quella degli Stati di mediocre prosperità. E d’altronde, indipendentemente da ogni documentazione statistica, l’interesse altissimo del danaro in molte provincie; l’usura spietata nelle campagne, specie nel Mezzogiorno, stanno a rappresentare che il capitale è scarso tra noi, e sopratutto che manca la fiducia, per cui si esige sul mutuo un premio di assicurazione enorme.

Nè solo è scarso in Italia il capitale materiale; ma anche le altre condizioni morali ed intellettive che si richiedono per secondarne l’azione non abbondano; intendo dire lo spirito di iniziativa e di associazione, la buona fede nel commercio, la istruzione professionale, la cognizione delle migliori pratiche mercantili, delle lingue estere e via dicendo. Fattori tutti della produzione che non si possono mutare e rafforzare se non lentamente e i quali fan sì che, dato un certo equilibrio esistente fra i capitali e la mano d’opera, è vano sperare che all’improvviso si possa dar lavoro alle centinaia di migliaia di disoccupati.

Noi abbiamo, non giova dissimularcelo, una popolazione eccessivamente numerosa per i nostri mezzi economici. L’ultimo censimento ci assegna una media di 113 abitanti per km. quad.; mentre la Germania ne ha soli 97; 80 Austria; 72 la Francia; ed abbiamo un quoziente di nascite che è fra i più elevati in Europa, tantochè ogni anno l’eccedenza dei nati sui morti è di 300 a 350 mila; e vi fu un anno, il 1897, in cui l’eccedenza arrivò a 406.000; quasi la popolazione di una provincia che si è aggiunta, senza il territorio per mantenerla.

In queste condizioni inquietanti di accrescimento demografico l’emigrazione è dunque per l’Italia una necessità di salute sociale. Noi abbiam bisogno che partano 200 0 300 mila individui all’anno perchè possano trovar lavoro quelli che rimangono.

Certo non a torto molti si lagnano che parecchie regioni si vadano spopolando, a segno da render assai difficile la ricerca di lavoratori nelle stagioni delle semine e dei raccolti. E non è senza amarezza l’osservazione che i partenti sono in gran numero gli uomini di buona età, robusti, intelligenti, altrettante forze perdute per la produzione.

Ma non bisogna dimenticare d’altra parte che questi nostri emigranti, i quali, rimasti in patria sarebbero per tanta parte dell’anno disoccupati, mandano a casa somme ingenti di risparmi, che aiutano a sostener l’esistenza dei [p. 9 modifica]rimasti: donne, vecchi, fanciulli; e lasciano anche un’eccedenza, che fa crescere il valore della terra, trasformando grado a grado molte contrade in aspetto di insolita prosperità.

Effetti confortevoli, cui corrisponde per di più, in alcuni paesi dell’estero, un affermarsi e dilatarsi sempre maggiore di influenze, di energie, di interessi italiani; un moltiplicarsi di gruppi ed un’estendersi di intraprese; una vittoriosa ascesa del lavoro fecondo, che, abbandonato alle sue sole forze, ha saputo dimostrare anche una volta al mondo che soltanto nella lotta pertinace, attraverso ad una selezione tragica, si acquistano le austere e gagliarde virtù dei dominatori.

Non certo malagevole tornerebbe compendiare nelle linee di un quadro ottimistico le conquiste e le vittorie che queste falangi di derelitti, cacciati dalla miseria sulla via del misterioso oltremare, hanno saputo strappare all’avversità delle circostanze contrarie, pure in mezzo agli ambienti più ostili.

Basterebbe ricordare Buenos Ayres, che deve ad architetti ed impresari italiani i suoi edifizi più superbi, e dove i connazionali nostri pareggiano ormai gli argentini nelle statistiche delle proprietà immobiliari, li superano nella ricchezza mobiliare, ed occupano nella gerarchia sociale i posti intellettualmente più alti. Basterebbe, uscendo dalla capitale platense, addentrarci in quella provincia di Santa Fè, che nei poderi e nelle case, nell’aspetto delle colture e nei nomi dei coloni ci procura l'illusione di un lembo di patria trasportato oltre l’oceano, quasi a simbolo di duratura conquista. E potrei, sulle orme di uno studioso a Loro ben noto, rintracciar le vicende trionfali di qualcuno tra i principi mercanti che, coi mezzi iniziali più esigui, tra difficoltà di ogni natura, ha fatto conoscere fino in fondo alla prateria argentina ed alle foreste brasiliane i prodotti dell’industria nazionale. Potrei evocare 1 floridi gruppi coloniali di alcuni Stati del Brasile, riproducenti nelle loro denominazioni l’immagine gloriosa delle patrie città, le figure più illustri o le date più care della nostra storia nazionale: gli immani vigneti dell’Asti Californiana piantati, diretti e in buona parte posseduti da italiani; i frutteti modello dei dintorni di New Orleans, che procurano ai nostri il monopolio di questa produzione nel Sud degli Stati Uniti: la New Italy australiana, dove il Governo locale invia i suoi coloni [p. 10 modifica]ad apprendere la coltura della vite e del gelso; le migliaia di poderi dei contadini siciliani in Tunisia; le colossali imprese capitalistiche di costruzione del Cairo e di Alessandria; le case di commercio solide e stimate di Smirne e di Costantinopoli; i fiorentissimi esercizii di caffè, di ristoranti, di alberghi di Londra e di Barcellona; e con essi le centinaia di piccole industrie ed i mille mestieri, dai più alti ai più umili e dispregiati, in cui s’esercita, con successo, la versatilità mirabile, l’operosità infaticata, l’alacre spirito inventivo e la longanime perseveranza di questi nostri profughi del disagio e della fame che sì spesso vediamo far ritorno in veste di trionfatori.

Ma, signori, l’arrestarci con compiacenza nella contemplazione del consolante spettacolo, non rivelerebbe del grande e complesso fenomeno che ci sta innanzi se non il lato men caratteristico, perchè il più appariscente. Dalle turbe di pezzenti che quotidianamente vediamo salpare dai porti della penisola alla volta di un oscuro ignoto non si improvvisano i proprietari della terra e i dirigenti de commerci e delle industrie, né pur soltanto gli operai capaci di fornire a condizioni eque forme superiori di lavoro specificato, senza che una somma incalcolabile di sofferenze, di privazioni, talora purtroppo di colpe e di vergogne piombi sulla massa disgregata ed amorfa, separandone gli elementi più resistenti e più forti, per ricadere sugli altri con inesorabile severità.

Onde, se può avere importanza studiare la fisonomia dei nuclei stabili e permanenti, che soli appaiono agli osservatori superficiali, di interesse assai maggiore riesce il sorprendere la massa emigrante nella fase che precede questo processo di selezione, in quel periodo cioè in cui un’azione efficace può ancora sovr’essa esercitarsi, per diretta ingerenza ufficiale, o a mezzo di acconci organi tutelari, dalla madre patria.

La classifica tradizionale che divide l’emigrazione, in base ai passaporti, nelle due grandi categorie di temporanea e permanente, non tien conto, a parer mio, nella presunzione arbitraria di intenzioni su cui è fondata, di un fatto, che è notissimo a quanti ebbero occasione di frequentare con qualche dimestichezza i partenti: che cioè nessuno di essi, anche tra coloro che vendettero per lasciare il paese ogni loro avere, scaccia dal fondo del proprio cuore una tacita, sia pure non confessata, speranza di un possibile, e [p. 11 modifica]segretamente sognato, rimpatrio. Il ritorno più o men prossimo o la permanenza dipenderà essenzialmente dalle circostanze fortuite d’arrivo e sopratutto dal fissarsi che farà l’emigrante in qualche applicazione agricola stabile.

Solo allora potrà ritenersi che il suo distacco dalla patria sia permanente, e, in massima, definitivo. In caso diverso egli non farà che entrare nell’immane esercito del lavoro italiano nomade e vagante, la cui caratteristica é la temporaneità e la precarietà di sede e di abitudini, ma che, appunto perché intimamente intrecciato alla vita economica dei paesi di destinazione, porge, nel confronto cogli ambienti locali, fenomeni più istruttivi di studio, e più spesso suscita, negli attriti che incontra o subisce, problemi ardenti, la cui eco talora compie perfino il miracolo di scuotere per qualche momento l’apatia serena della madre patria.

Se non che la madre patria, cui poco piacciono i disturbatori importuni della sua olimpica quiete, ha adottata, di fronte a questi suoi esuli errabondi, una linea di condotta della massima semplicità; se ne è cioè disinteressata quasi del tutto. Basta leggere i rapporti di qualcuno tra i nostri consoli per convincersi in quale concetto siano tenute, nelle sfere ufficiali, le masse avventizie del lavoro nazionale. Se pochi, per verità, son giunti fino ad imitare la geniale trovata di quel loro collega in una delle maggiori citta svizzere che, qualche anno fa, per evitare le noie degli emigranti di passaggio, aveva pensato bene di sopprimere l’insegna del Consolato, non occorre però esser molto esperti di menzogne convenzionali per scorgere, attraverso le loro generiche dichiarazioni di simpatia, il senso di fastidio indicibile che l'irruzione periodica di queste turbe procura alla loro burocratica vita.

Ed in senso analogo si é venuta orientando, facilmente persuasa, l’opinione pubblica, impressionata a volta a volta dalle persecuzioni selyaggie di cui questi modesti pellegrini del lavoro sono fatti segno nella loro umile ricerca del pane; dalle ignominie messe in luce relativamente a talune manifestazioni di sfruttamento che tra essi si verificarono; dagli atroci delitti politici che gettarono una luce sinistra sulle tendenze antisociali serpeggianti in quella massa errabonda. Onde il sorgere ed il generalizzarsi della triste leggenda di degradazione, che, nel nome della dignità na[p. 12 modifica]zionale, chiama in colpa questi infelici del vilipendìo e del disonore cui soggiace in altri paesi il nome italiano.

Nulla di più ingrato e di più ingiusto, o signori, ove si ponga mente, con spirito equanime, ai risultati di tale emigrazione ed alle cause che la determinano.

Sono centinaia di milioni che annualmente contribuisce all’economia del paese il lavoro dei suoi figli sparsi nel mondo; ed è commovente cosa il rappresentarci per un momento i mille eroismi ignorati, le mille lacrime di nostalgia solitaria, i mille dolori di privazioni materiali, e di morali prostrazioni che si compendiano nella ingente somma di sussidio, mercé la quale tanti casi di miseria appaiono alleviati, tante rovine scongiurate, tante piccole fortune formate e consolidate a pro’ del benessere nazionale.

Le terre incolte d’Italia sono da gran pezzo, lo ripeto, un luogo comune di una certa retorica. Ma chi si é curato mai seriamente di questo capitale ben altrimenti grande e fruttifero di incolta energia umana, che con prodigalità incosciente noi incessantemente lanciamo nel mare tempestoso della concorrenza mondiale, triste e regolare tributo della miseria ed ignoranza nostre all’egemonia economica ed intellettuale di civiltà più evolute?

Ahimè! Mentre gli altri popoli, l’inglese, lo svizzero, lo svedese, in buona parte anche il germanico, inviano all’estero operai tecnicamente perfetti, che entrano nelle più complicate industrie a titolo di graduati, noi dividiamo colla Spagna, colla Polonia, colla Turchia, non voglio aggiungere coll’India e colla Cina, il non invidiabile privilegio di fornire al lavoro universale la materia inferiore dei gregarii, dolorosa e reietta carne da cannone industriale, Su cui ricade il peso di tutte le crisi, il danno di tutte le fallite intraprese.

E gli stranieri che non conoscono la patria nostra se non per tali esempi che quotidianamente lor vengon sotto gli occhi, si fermano necessariamente, nella nozione dell’Italia vera, al tipo tradizionale dell’italiano pittoresco, o perché geniale e ispirato (l’artista), o perché lacero e derelitto (il bracciante); «ma dell’artista e del bracciante essi non vedono il lato socialmente utile e prezioso: in quello l’espressione intensa degli istinti ereditari di una razza affinata da 30 secoli di storia; in questo la sua potenza di macchina, rozza si, ma poco costosa — nell’uno il fiore sommo [p. 13 modifica]di un albero tre volte millenario, nell’altro le sue radici profonde, oscure, terrose. Abituati ad apprezzare solo il lavoro come mezzo per salire alla conquista del potere e del danaro, essi, anche senza definirlo con disprezzo, intravedono nell’artista e nel bracciante due forze più istintive che raffinate della volontà e dell’energia costante verso il meglio: due forme diverse, nella mente e nei muscoli, di lavoro non specificato, di unskilled labour».

Onde avviene, ed è fatale, che ai lavoratori italiani siano riserbati dovunque all’estero i lavori più duri, più ingrati, peggio retribuiti.

«Essi formano, scriveva dalla Svizzera Pasquale Villari, un popolo nomade senza casa, senza famiglia, senza scuola, senza chiesa, senza libri o giornali italiani; lontani dalla patria, in un paese di cui non conoscon la lingua e in cui non son ben visti, per la concorrenza che fanno. — È sopratutto presso i tunnels, aggiungeva, che il problema si presenta nella sua enorme gravità. Fa pena il vederli, dopo 8 ore di rude lavoro, uscir dalla montagna, per dar luogo ad altri che vanno a prender il loro posto. Tornano alla luce del sole estenuati, anneriti, bagnati di sudore e acqua, la quale filtra da tutte le parti. Si abbandonano sopra una panca, e mangiano avidamente un parco desinare, poi vanno a dormire in 8 o 10 nella stessa stanza.

Quando si destano dal sonno, che cosa devono fare, prima che ritorni l’ora del lavoro, non essendo possibile lavorare sotto terra più di 8 ore nelle 24? Per essi non v’è luogo di svago, di riposo, di istruzione. Non c’é che la bettola, coi liquori e le donne di mala vita, venute anch’ esse dall’Italia. L’oste, che appartiene, o pretende appartenere, ai partiti sovversivi, si adopera con insistenza a promuovere il loro malcontento perché, quando ci son scioperi, le osterie si riempiono. È difficile misurare il rancore l’odio che si son venuti lentamente accumulando nel cuore di quegli operai. Certo è che quando arrivano, e mai non mancano, gli agenti dei partiti più estremi, trovano il terreno già mirabilmente apparecchiato a far germogliare il seme velenoso che gettan nel loro animo.»

Spettacolo di pietà profonda, che si ripete pur troppo sotto tutte le latitudini, dovunque un gruppo di lavoratori italiani si spinga alla conquista di un nuovo campo di operosità. [p. 14 modifica]

Lo sfogliare i fascicoli dell’ottimo Boll. dell’Emigrazione procura a questo proposito una vera stretta al cuore.

Sono, nelle più ricche città degli Stati Uniti legioni intiere di operai che, avviliti ad ogni più dispregiato mestiere, convertono in torvi conati di anarchia l’odio accumulato contro l’esoso sfuttamento cui soggiacciono: — sono in Vienna turbe ognor aumentate di braccianti e di artigiani, relegati dalla deficiente coltura ad un deplorevole grado di inferiorità di fronte al proletariato locale, che all’abbiezione in cui vivono credono trovar compenso nel primato saputo conquistare in ogni manifestazione di spirito ribelle. — Sono, in parecchie regioni della Germania, agglomerazioni ogni giorno crescenti di fanciulle italiane, abbandonate senz’appoggio a mal retribuiti impieghi industriali, reclute designate del triste esercito del vizio: — sono nella Francia meridionale e centrale centinaia di minorenni, condotti con ogni raggiro di frode malvagia a morir (di stenti e di tubercolosi nelle vetrerie, vittime di una brutalità trascendente ogni qualifica di esecrazione. È tutto un popolo di derelitti e di disperati, che nell’esistenza randagia, nella sofferenza e nel dolore, quotidianamente si sente suggerito dal dileggio e dalla contumelia straniera, il disprezzo per la patria immemore e lontana, un odio cieco e bestiale per tutto ciò che alla sua psiche impulsiva di folla incosciente ne incarna comechessia, intangibile individuazione, il concetto tradizionale.

Oh! a chi stupì di fronte agli atroci fenomeni di patologia sociale che ebber nome Caserio e Luccheni, Angiolillo e Bresci, a chi guardò con meraviglia le bande di pezzenti e di criminaloidi che si affacciarono, durante i torbidi del 1898, dal confine svizzero, od alle turbe di forsennati che percorsero, deliranti di gioia, le vie di Berna e di Losanna la sera dell’assassinio di Re Umberto, ben si potrebbe rispondere che, data la lunga incuria, la negata protezione, l’abbandono tant’anni durato, è a meravigliare piuttosto tali fatti non siano stati fin qui se non minaccia isolata, sintomo precorritore della fosca bufera di sovvertimento che incombe colla visione di un nuovo Medio-Evo, cui ben potrà mancare le crociate dei cavalieri, non certo l’orde e le devastazioni dei barbari.

All’estero come all’interno noi abbiamo abbandonate senza guida le turbe del proletariato, proprio quando la [p. 15 modifica]crisi delle coscienze scuoteva in esse le basi secolari della morale e delle reverenze tradizionali. Esse furon lasciate senza aiuto a lottare colle difficoltà, le sofferenze, le suggestioni menzognere; non hanno trovato una mano, un volto, un consiglio amico. Non meravigliamoci almeno se in terreno così incolto fruttò il seme dell’odio: se, a sentir parlare di ineguaglianze sociali, di redenzioni e di rivendicazioni, si destò in esse un inquieto fermento di istinti, di mal represse ribellioni, di cupidigie, e, più acuto e prorompente, un desidero di giustizia!

Signori, l’insistere che abbiano fatto sopra uno stato di cose tanto miserevole, se anche possa esser sembrato eccessivo, non apparirà privo di ragione quando si pensi che l’emigrazione lavoratrice sta per entrare dovunque in un periodo di crisi, a petto al quale le difficolta d’oggi e di ieri rappresentan condizioni di invidiabile prosperità.

Illuderci non giova, e sarebbe colpevole.

Il movimento democratico, che cresce nei paesi industrialmente più progrediti, ha adottata, nei rapporti della merce lavoro, una linea di condotta impressa da esclusivismo cosi feroce, da render di giorno in giorno più malagevole ai nostri il rispondere senza pericolo alle crescenti richieste del capitale estero. Se, già da gran tempo, le Trades Unions inglesi son riuscite ad espellere di fatto completamente dalle officine e dai cantieri britannici quasi tutte le categorie di operai italiani: se ognuno ricorda le persecuzioni selvaggie cui essi furon fatti segno altra volta, per parte dei compagni indigeni, in Francia ed in Svizzera, un pericolo più grave si fa innanzi ora, man mano che le falangi operaie riescono ad acquistare, nei parlamenti e sui Governi, un’influenza più diretta e preponderante.

Le fasi della campagna accanita, che con tenace concordia di intenti si prosegue dai partiti operai dei vari paesi nel senso di limitare o sopprimere l’accettazione del lavoro straniero, anche là dove il difetto di braccia è più evidente e più disastroso, potrebbe da solo formare oggetto di una interessantissima trattazione. A noi basterà ricordare tuttavia come questo protezionismo a oltranza si sia trasformato in legislazione positiva in tutti gli Stati dove la conquista del potere per parte delle organizzazioni proletarie può dirsi un fatto compiuto; e batta con furia crescente alle porte dei Parlamenti tuttora riluttanti ad accogliere i suoi egoistici postulati. [p. 16 modifica]

Esempio tipico la Federazione Australiana, che, ricopiando ed aggravando antecedenti disposizioni degli Stati che la compongono, ha emanato, come uno dei primi atti federali, un decreto, in cui ai divieti di immigrazione per cause igieniche e morali aggiunge quelli per analfabetismo e nullatenenza, proibendo per di più lo sbarco a quanti sian forniti di un preventivo contratto di lavoro con qualche industriale del paese. Nè guari diverse le leggi poste in vigore da parecchie altre colonie britanniche dal Sud Africa, dalla Nuova Zelanda, dalla Colombia Inglese, dove agli stessi cittadini della metropoli è praticamente quasi impedito il soggiorno.

Sono però gli Stati Uniti quelli che rappresentano sotto questo aspetto per noi l’incognita più inquetante. Delle tendenze che nella gran Repubblica si agitano rispetto al vitale problema, posson esserci indizio significativo le parole con cui, poche settimane sono, il Dep.º Sherman di Boston, già console federale a Liverpool, concludeva un discorso ai suoi elettori: «L’America deve finirla colla fisima poetica di atteggiarsi a mamma ricoveratrice dei poveri e degli oppressi di tutto il mondo: sarebbe vergogna il tollerare più a lungo che essa sia sfruttata da forestieri che vengon qui a far danari unicamente per il loro paese natio. Noi abbiamo l’indiscutibile diritto di scegliere coloro che debbon esser i collaboratori nostri nel mantenere questa patria la più grande nazione del mondo!» E gli applausi frenetici che coronarono l’orgogliosa teoria interpretavano, bisogna pure riconoscerlo, l’opinione d’una parte ingente del pubblico americano, sul quale influiscono molto mediocremente gli argomenti pacati, a base di fatti e di cifre, con cui alcuni trai suoi scenziati più eminenti dimostrarono, anche di recente, l’erroneità delle accuse di anormale criminalità che si scaglian contro la undesirable immigration, ed il coefficiente prezioso che essa rappresenta nella progressiva messa in valore del paese.

Onde pur troppo il moltiplicarsi davanti al Congresso di concrete proposte restrittive e la nomina di Commissioni intese a studiarne l’applicabilità. Se fino ad oggi non fu adottato ancora il principio, da molti caldeggiato, che vorrebbe respinti gli analfabeti dai porti dell’Unione (gli italiani lo sono nel 48 %); Se la pressione di alcuni grandi capitalisti interessati riescirà forse a Scongiurare per ora il pericolo di veder limitato a un determinato numero di [p. 17 modifica]immigranti annui (60 od 80000) la facoltà di sbarco accordata a ciascuna nazionalità, sarebbe stolto chiuder gli occhi alla previsione che, in un avvenire assai prossimo, possa serrarsi, almeno parzialmente, all’esodo nostro questa porta verso l’operosità feconda e le eventualità di fortuna.

Nè un assegnamento molto maggiore deve farsi sugli Stati d’Europa, verso i quali, per tradizione antica si rivolgono a falangi le turbe esulanti. In Svizzera, nella cui prosperità economica il lavoro italiano rappresentò un elemento inestimabilmente efficace, si agitano da tempo tra il proletariato indigeno correnti ostili, che vorrebbero sfrattati a colpi di decreti i formidabili concorrenti. Più incerto ancora da questo punto di vista, appare lo stato d’animi in Francia, la quale dibatte da più anni febbrilmente la questione della presenza degli Stranieri, ed ha visto sfilare, dall’84 al 7901, dinanzi al Parlamento, fino a 43 progetti, tanto socialisti che nazionalisti, per frapporre ostacoli al loro soggiorno.

Come meravigliarsene d’altronde se la patria stessa del liberismo, l’ospitale Inghilterra ha ultimamente iniziate le sue tarde velleità protezionistiche nominando una Commissione Parlamentare per avvisare al modo di restringere lo sbarco degli stranieri incolti ed indigenti?

D’ogni lato dunque ostilità, esclusioni, minaccie di ostracismi, prodromi oscuri di un ayvenire tutt’altro che lieto.

Vero é che al pericolo che ingrossa ed incalza alcuni italiani hanno scoperto da tempo un antidoto, che non esitarono a proclamare sovrano.

Poichè, dicono, sono le organizzazioni sindacali estere che premono sui loro goyerni per ottenerne le leggi restrittive, basterà che i nostri operai, anzichè tenersene appartati, entrino senza esitanza in esse come parte integrante, perchè l’orientamento delle rivendicazioni proletarie si modifichi radicalmente a lor favore, e l’attuale spirito di concorrenza si trasformi in solidarietà cosciente contro il comune ayversario: il capitale sfruttatore.

Non si potrebbe esser più semplici e più spicciativi di così. Peccato che, dovunque ne fu tentata l’applicazione, il metodo ingegnosissimo abbia dati, alla prova, risultati per appunto opposti a quelli che si desideravano.

La storia degli scioperi cui partecipò all’estero, per pattuita solidarietà, elemento italiano, non potrebbe essere, al riguardo, più istruttiva. In parecchie città della Svizzera [p. 18 modifica]si va assistendo da qualche anno allo spettacolo che vorrei dire umoristico, se non mel vietasse la profonda pietà, di turbe di lavoratori italiani partecipanti con violenza clamorosa a disordini aventi per dichiarato scopo lo Sfratto legale del lavoro straniero. A Marsiglia gli italiani, a lungo mantenutisi neutrali nelle contese fra capitale e lavoro, hanno ultimamente partecipato agli scioperi che han turbato, dal 1900 in poi, la vita di quel porto; rappresentando nei tumulti avanguardia irresponsabile ed impulsiva lanciata, a minaccia dell’ordine pubblico, dai dirigenti i sindacati locali.

Gli effetti di questa prova disinteressata di fratellanza non si fecero aspettare. Composto il conflitto, mentre la stampa sindacale e i compagni indigeni riversavano generosamente sovr’essi tutta la responsabilità dei danni prodotti, strepitando più che mai per il loro licenziamento, gli chauvins del Parlamento osavano paragonare questo ingerirsi degli stranieri nei tumulti locali nientemeno che alla occupazione inglese di Tolone nel 1793. «Migliaia di italiani, — urlava alla tribuna un autorevole e repubblicanissimo ex-ministro — per un momento padroni del nostro gran porto mediterraneo, furon veduti ritardare la partenza dei rinforzi per la Cina, tagliare le comunicazioni della metropoli coll’Algeria e le colonie. Questa presa di possesso dei sindacati internazionalisti sui sindacati francesi di Marsiglia altro non è che una minaccia per la sicurezza del territorio nazionale; forse, se le circostanze vi si prestassero, per la sua integrità: in ogni caso l’abbassamento politico e militare della Francia, preparato mediante la distruzione delle sue forze economiche!»

La questione di concorrenza economica ayeva suscitate contro l’operaio d’oltr’alpe le animosità del proletariato; l’ossessione del pericolo nazionale doveva scatenargli contro le invettive furenti dell’intiero paese.

Di fronte a questi frutti incoraggianti del metodo suggerito, pochi, ne son certo, tra gli stessi proponenti d’allora, ardirebbero associarsi oggi alle conclusioni del Congresso d’Udine del 1903, cui si deve in buona parte l’incitamento ad una siffatta linea di azione.

Il vero è che, ove si voglia seriamente parlare di organizzazione efficace del lavoro italiano all’estero, questa non può essere che rigorosamente autonoma, collegata forse sebbene non subordinata, agli organismi di solidarietà esi[p. 19 modifica]stenti nella Madre Patria, ma dotata d’altronde di fisionomia e caratteri spiccatamente propri, che, presentando nel loro complesso, per l’atteggiamento alieno da ogni spirito di parte, un non equivoco aspetto di serietà, di deferenza alla legge, imponga la considerazione ed il rispetto non meno alla autorità che alle masse operaie organizzate dei paesi di destinazione.

La instabilità e le continue variazioni numeriche delle masse costituenti il nostro esodo operaio rendon certo difficilissima l’attuazione di tale disegno, dal quale soltanto potrebbe ottenersi quella più cosciente distribuzione e dirigibilità delle correnti migratorie mercè le quali si eviterebbero a lor favore le enormi iatture delle vane ricerche di impiego, degli affollamenti disastrosi, cui seguono le accuse e le imprecazioni dei proletariati locali.


L’iniziativa della benemerita Opera, alla quale presiede l’alta mente ed il gran cuore di Mons. Bonomelli, si è genialmente affermata anche in questo campo, colla creazione in Basilea di un Segretariato Centrale, che ha per missione di raccogliere quotidianamente le notizie sulle richieste di lavoro dalla sua rete di Uffici dipendenti della Svizzera e della Germania, comunicandole poi, di mano in mano, a Chiasso, ed agli altri punti del Confine, alle comitive di operai espatrianti.

Ma il patronato benefico di un ente filantropico, per quanto operosissimo, è ben lungi da poter supplire da solo alla completa assenza di direzione, di tutela, di guida che abbandona alla balìa del caso, e lascia in preda ai peggiori sfruttamenti economici e politici i nostri emigranti.

Il sottrarre allo stato disorganico ed amorfo l’esercito imponente del lavoro italiano in terra straniera è tale impresa cui appena basterebbero le forze concordi dell’intiera nazione: e tra esse in prima linea quelle dei nuclei di regnicoli che, permanentemente stabiliti in vari paesi, han saputo serbare, nel contatto cogli ambienti ospitali, coscienza e spirito schiettamente italiani.

Un confortevole risveglio in tal senso viene manifestandosi da alcuni anni — è d’uopo segnalarlo — nel seno delle nostre migliori colonie. A New-York, a Boston, a San Francisco, a Montreal, a Santos e S. Paolo, a Buenos Ayres, Cordoba e Paranà son sorte di recente, fra l’elemento di stabile dimora, Società di Patronato assai benemerite, che, [p. 20 modifica]emancipandosi dai metodi e dagli scopi esclusivamente elemosinieri delle vecchie Società di Beneficienza, facilitano col collocamento personale, colla pubblicità di notizie relative al lavoro, con accurate inchieste sui luoghi, l’avviamento degli emigranti ad opere proficue, mentre ne promuovono con ogni mezzo le tendenze associative a tutela dei comuni interessi.

Il Commissariato di Roma ha incoraggiati con qualche larghezza di sussidio questi enti di spontanea iniziativa.

Ma perchè il provvido movimento si estenda e getti salde radici in tutti i centri di maggior affluenza operaia, e d’uopo che nelle colonie nostre si rinsaldi e si generalizzi alle masse quel sentimento operoso di italianità da cui muove, oggi ancora ad opera di pochi, l’impulso alla disinteressata assistenza fraterna.

Molto si è scritto, da alcuni anni, sulle idealità patriottiche che perdurano tenaci tra gli italiani all’estero. Pasquale Villari, in un’ora di ottimismo, è giunto a proclamare che noi, abitanti della penisola, potremmo andare fuori del Regno, per imparare dagli emigrati come si ami la terra natìa. E certo, quando si leggono gli episodi commoventi di cui riboccan in proposito le relazioni dei R. Consoli: quando si pensa ai 100 sodalizî di beneficenza, alle 1500 società di M. S., ai 15 Ospedali che nel nome d’Italia son sorti, a raccogliere e sviluppare le iniziative di cooperazione, di coltura, di civile solidarietà maturanti nelle plaghe più remote; quando si ricordano le manifestazioni grandiose di memore affetto filiale con cui le colonie (dalle maggiori alle più minuscole) si associarono ad ogni evento, fausto o luttuoso, venuto a commuover le fibre della madre patria, non si può negare che l’attaccamento alle sue tradizioni, il rispetto delle sue memorie, il culto delle sue idealità viva tenace tra i figli dispersi della gran madre Comune.

Ma quanto doloroso pure, per un altro verso, il rovescio della medaglia!

Unanime purtroppo suona la testimonianza dei migliori funzionari. Mentre la prima generazione di emigrati conserva, almeno in parte, con cura gelosa il patrimonio di affetti che la legano al luogo di origine, i sintomi di una completa snazionalizzazione non mancan mai di prodursi nei loro discendenti immediati, figli il più delle volte di madri stra[p. 21 modifica]niere, e plasmati, in ogni caso, in foggia radicalmente propria dagli ambienti sociali in cui crescono.

Anche nelle colonie più cospicue, e che sono alimentate di continuo da una incessante corrente di arrivi, a Buenos Ayres, a New York, a Marsiglia, nei porti levantini, il triste fenomeno si rivela costante. Indice troppo significativo di totale distacco: — la lingua nostra, spesso imbarbarita in gergo incomprensibile anche sulla bocca dei primi emigrati, non suona se non in eccezioni rarissime sul labbro dei loro figli, i quali, vergognoso a dirsi, occorre spesso di udir reagire come per insulto contro chi li accusi di origine italiana.

A questo trapasso angoscioso, che riduce a nulla per noi tanta parte dei vantaggi che altri popoli sanno trarre da un’emigrazione gelosamente custode della tradizione nazionale, sono troppo inadeguato rimedio le poche scuole che l’iniziativa ufficiale ha create, a salvaguardia di italianità.

È noto purtroppo come limitato sia il beneficio delle nostre scuole governative all’estero. Aperte, per spirito di routine, nei soli scali della nostra più antica colonizzazione, di organizzazione burocratica e costosissima, riguardate talora con preconcetti dai migliori elementi delle colonie, esse, mentre appaiono insufficienti ai crescenti bisogni nei centri di spontanea espansione italiana (Tunisi) si riducono ad accogliere altrove (Beirut, Aleppo, Smirne), assai più indigeni che italiani, conducendosi al bel risultato di spendere 900 mila franchi all’anno per insegnar la nostra lingua ai greci, ai tedeschi d’Oriente, agli arabi, ai turchi, mentre inondiamo il mondo di eserciti d’analfabeti.

Effetti più pratici dànno, a dir vero, in molte colonie le scuole semplicemente sussidiate, che alle società operaie o di beneficenza debbono la loro modesta e provvida vita.

Ma a persuaderci quanto inadeguate siano anch’esse al còmpito smisurato che si propongono, basterà ricordare che la loro popolazione scolastica non supera, nelle statistiche ufficiali, i 60000 alunni, di cui forse un terzo può considerarsi effettivamente frequentante. Nell’Argentina e nel Brasile di 200.000 circa nazionali, appena 14000 sono iscritti alle scuole: molto meno agli Stati Uniti, dove mancano quasi dovunque solidi istituti di affratellamento, capaci di assor[p. 22 modifica]gere ad efficaci organi di educazione. E vi sono centri immani di emigrazione, come Marsiglia, che ai 100.000 regnicoli non offrono che un’unica piccola scuola, insidiata ogni giorno dalle minaccie di soppressione che ne rendono precaria la vita.

Di fronte a tanta enormità di bisogni, contro cui lottano disperatamente i migliori elementi delle nostre colonie, oggi soltanto incomincia a scuotersi, per quanto a malincuore, l’opinione pubblica in Italia.

Due Società principalmente rappresentano con indirizzo e in campi d’azione diversi, l’interesse del paese per la preservazione e l’espansione dell’italianità.

L’Associazione Nazionale pei Missionari, vincendo una somma enorme di pregiudizi e di preconcetti, è riuscita a dirigere a fini schiettamente patriottici le forze preziose di quegli ordini religiosi che uomini politici di ogni parte, dal Mancini e dal Cairoli, al Bonghi, al Brunialti, al Luzzatti, giudicaron presidî valorosi d’italianità, e se ne vale efficacemente a preservare, negli scali del Levante e dell’ Estremo Oriente, il nostro declinante prestigio. In raggio ancor più vasto la Società Dante Alighieri rivolge la propria attività a difendere la lingua e la coltura nazionale, dovunque, da minaccie di ambienti o di civiltà ostili, ne sia compromessa la libera efflorescenza.

Attraverso a difficoltà ognor rinascenti questa società ha saputo, da umili origini, sorgere a considerevole sviluppo di forze, fondando, nel Regno e fuori, 142 Comitati, con 19000 soci, aiutando efficacemente la lotta linguistica degli italiani oltre il confine, promuovendo scuole, educatori, patronati, biblioteche circolanti nei centri di emigrazione dal Sempione alle Americhe.

Ma ben altri mezzi occorrono all’immane compito. Troppo esigua ancora è la falange dei collaboratori alla grandiosa opera, che dovrebbe riunire in fascio concorde quanti italiani sentono l’idealità della patria; poichè la bandiera della Società è davvero tale da raccogliere, al disopra delle parti e delle fedi, tutti gli uomini di buona volontà.

La dignità che un popolo serba in mezzo alle nazioni deriva dalla potenza intellettuale ch’esso rappresenta e dispiega. Diffonderne la lingua significa accrescerne la vitalità organica, svilupparne le energie assimilative ed espansive, affermarne nobilmente il prestigio civile. [p. 23 modifica]

Un ultimo sguardo a due grandi regioni, dove la lotta per l’italianità si combatte, fra mille insidie, più gagliarda, potrà mostrarci, prima di concludere quale sia, anche in campi pratici più speciali, l’importanza della missione al compimento della quale la Dante Alighieri ha convocati quanti, usciti da qualsiasi classe e devoti a qualunque fede, ricordano e sanno di esser anzitutto e sopratutto italiani.


Di fronte alla Sicilia, in una insenatura profonda di quel litorale africano le cui mobili sabbie non han potuto anco svellere intieramente i segni della gloria e della conquista romana, si spiega dinnanzi al mare una bianca città, che la nuova Italia ha per molt’anni sognato di possedere un giorno, quasi per diritto di accessione spontanea, mercè l’iniziativa intraprendente dei suoi figli trasmigrati. Oggi ancora, dopo venticinque anni dacchè l’abilità della nostra diplomazia ha fatto di Tunisi una provincia algerina, non si può passeggiare per le vie della città, né, più ancora, addentrarci nelle fertili campagne che la circondano, senza ricever l’impressione dell’importanza capitale che l’elemento italiano rappresenta nella florida messa in valore del paese. La verità è che, mentre il piccolo nucleo dei nuovi dominatori — 20000 funzionari, soldati o commercianti in tutto — ha impresso, una fisionomia propria all’amministrazione ed ai costumi cittadini, nulla finora è riuscito ad annientare la resistenza formidabile, per quanto passiva, che ha opposto all’assorbimento la massa ognor rinnovata dei 100 mila italiani.

Potrà parer nota discordante nel concerto di unanime compiacimento che saluta la riconciliazione latina: ma noi dobbiam pure alla verità di ricordare che poche ostilità, poche persecuzioni furon così implacabili come quelle che ebbero a subire nella Reggenza i primi occupanti italiani per parte dei nuovi padroni, ansiosi di annientare fin l’ultime vestigia del diritto storico di precedenza, da essi, in oltraggio all’altrui buona fede, così tranquillamente manomesso.

È storia il dolore, che non si ricorda laggiù senza lagrime da vecchi italiani; ma che troppi ignorano o preferiscono dimenticare tra noi.

Non era ancora insediata l’amministrazione francese [p. 24 modifica]quando ai funzionari italiani — occupanti prima quasi tutte le cariche della Reggenza — capitò l’intimazione di abiurare, pena lo sfratto, la loro nazionalità. Risposero essi nella grandissima maggioranza, abbandonando dignitosamente l’umile ufficio o adattandosi a rimaner stazionari in attesa della eliminazione, ben presto sommariamente compiuta. Venne poi la volta degli imprenditori, assai prospei e numerosi, subitamente privati di qualunque appalto pubblico, proibiti di associarsi a francesi nell’assumere opere governative, osteggiati con ogni angheria burocratica nell’esercizio della loro attività privata, e rinuncianti anch’essi, in molti casi, nobilmente, agli enormi vantaggi che la naturalizzazione loro avrebbe procurati, nella prodigalità pazza del capitale affluente. E venne il riscatto della ferrovia della Goletta, schiacciata dalla concorrenza insostenibile del canale scavato a colpi di milioni; venne la guerra doganale al commercio italiano; vennero le famigerate convenzioni, precludenti la via all’ulteriore sviluppo delle scuole; venne l’ordinanza vietante l’esercizio di al cune professioni liberali ai giovani non diplomati in Francia: — tutta una serie di sopraffazioni da cui la colonia, cresciuta nel frattempo di enormi falangi proletarie, non poteva non uscire dissanguata di ricchezze e di forze, sfiduciata di speranze, incerta del peggio maturante nell’incognita del domani.

In tali condizioni assume aspetto di miracolo lo sforzo concorde che seppe dar vita alle iniziative in cui dura la tradizione e si affermano gli intendimenti di un alto e ben compreso spirito nazionale.

Chi percorra le corsie dell’Ospedale; chi assista ad una delle Società di Beneficenza; od alle sedute dell’Ufficio di collocamento della Associazione Operaia; chi visiti l’Orfanotrofio Regina Margherita; chi entri nei locali, ferventi di traffico, della Cooperativa Italiana, non potrà a meno di provare un impeto di ammirazione profonda di fronte ai risultati mirabili che l’organizzazione, la concordia, i sacrifici di una eletta di cittadini hanno saputo raggiungere, nel nome d’Italia, in rami così varî di attività filantropica.

Ma non è senza un intimo senso di commozione intensa che ci è dato penetrare nelle scuole d’ogni forma e d’ogni grado; questi modelli di istituti, cui le limitazioni [p. 25 modifica]di sviluppo imposte dai trattati non vietano l’attuazione dei progressi pedagogici più moderni; questi famigliari asili, dove ai figli degli operai più poveri si assicura il beneficio delle suppellettili e della refezione scolastica: questi santuari di italianità, i quali, assai più che dagli insufficientissimi stanziamenti governativi, traggono vita e prosperità dalla virtù paziente, ignorata, silenziosa di un corpo di insegnanti che l’ufficio educativo trasforma in apostolato di patriottismo, in una milizia quotidiana di disinteresse, di carità, di pieno ed incondizionato sacrificio di sè.

A troppi italiani, pei quali la prevalenza egoistica, individuale o collettiva, della famosa questione di stomaco è divenuta dogma di Vangelo, tornerà probabilmente incomprensibile l’esistenza in natura di una classe di fossili antidiluviani che, per amore di un cencio tricolore sventolante sulla porta d’un modesto edificio scolastico, consentono a vivere mal retribuiti, di rado ricordati, lontani dalle famiglie e dalla patria, dedicando tutte le facoltà dell’ingegno, tutte le facoltà dello spirito e le tenerezze del cuore ad un’opera oscura, spesso disconosciuta, di educazione, di difesa nazionale.

Ma a questi umili soldati della coltura nazionale; alla piccola, pugnace schiera di volonterosi che con incredibili sacrifici pecuniari e personali mantengon alti nella colonia i segni insidiati dell’italianità, è gran tempo giunga dalla penisola quell’invocato appoggio, senza il quale la esiguità dei mezzi e le lusinghe dell’ambiente finiranno per aver ragione anche del più invitto vigor di propositi.

È illusione, lo ripeto, sperare che i migliorati rapporti colla Francia possano aver cambiato l’indirizzo della sua politica di fronte a quegli italiani. La letteratura che fiorisce sempre più rigogliosa di là dall’Alpi sul pericolo siciliano dovrebbe ampiamente edificarci al riguardo. Leggevo ieri ancora un lavoro recentissimo nel quale un dotto professore al Liceo francese di Tunisi espone con molta competenza i dati del problema. Le sue conclusioni sono semplici e sincere: «La maggior minaccia per l’avvenire francese della Tunisia sta nella persistente italianità del ristrettissimo gruppo della colonia stabile. Senza i suoi sforzi, senza quelle benedette scuole sopratutto, ci sarebbe facilissimo assimilare, mediante l’istruzione obbligatoria e il servizio militare, la massa analfabeta dei contadini siciliani; mêta [p. 26 modifica]verso la quale, poichè non possiam far a meno di tali ausiliari, deve tendere tutta la politica della Repubblica».

Ebbene, Signori, dal canto nostro non dobbiamo dimenticare che alla scadenza delle Convenzioni, la cui denunzia, ora soltanto sospesa, può caderci addosso da un momento all’altro, la sorte di quegli Istituti, delle scuole come delle società e degli Enti benefici, cadrà in piena discrezione dei dominatori, e quei 100.000 italiani si troveranno in condizioni tragiche.

Oh! meglio che prorompere allora in una di quelle forme ridicole di protesta chiassosa che dànno al mondo la misura dell’impotenza e della leggerezza nostra, pensiamoci seriamente fin d’ora, suscitando intorno al problema un cosciente moto di opinione, tale da ricordare ai governanti che, oltre il mare di Sicilia, in una terra per metà conquistata dall’operosità di nostra gente, matura ed ingrossa una questione alquanto più importante che non sian molte geniali combinazioni di cucina parlamentare; questione di vita o di morte per tutto un popolo non immemore nè indegno dell’amore della patria!

Non mai la Dante Alighieri avrà compiuta opera benemerita come facendo proprio di fronte alla nazione il caloroso appello e il nobile compito.


La parte più alta e più nota della missione grandiosa che il patriottico sodalizio s’è assunto nel cospetto del paese, io non ricorderò se non per brevissimi cenni. Altri di me più degno già ha ricordato or non son molti mesi, in questa Università Popolare, quale indistruttibile conserto di interessi materiali e morali ci leghi a due regioni politicamente non nostre, da cui echeggia sì spesso un grido di dolore che è invocazione ansiosa di aiuto fraterno.

Ma, chiamato a parlare di italiani all’estero, mi parrebbe di venir meno ad un dovere se tralasciassi di ricordare che, oltre il confine orientale del Regno, 700.000 italiani vivono, nell’animo dei quali la legale cittadinanza straniera non ha fatto che intensificare e render più operoso, e geloso e intransigente il culto delle memorie ideali di nostra gente; 700.000 italiani, che dalla parzialità governativa, dalla soverchieria del numero, quando non basti, dalla brutalità del bastone, si vedon preclusa la via a parlare e sentire italianamente, a italianamente educare i loro [p. 27 modifica]figli; e che pur durano, sereni e tenaci, nella lotta disuguale, araldi fiduciosi di una civiltà che deve pur esser superbamente vitale, se il suo amore ancor suscita simili difensori e persuade tali sacrifici.

Se fosser noti a noi, nella loro interezza, l’energia di propositi, il fervore di fede, la concordia d’animi, la serietà d’opere con cui si prosegue da quel popolo nell’implacabile conflitto, forse sentiremmo tutto il disgusto e la vergogna delle gazzarre piazzaiuole con cui soltanto sappiamo incoraggiare di lontano queste avanguardie d’italianità, lasciate solitarie a contender la via alla penetrazione lenta e formidabile di civiltà tradizionalmente rivali.

Uno scrittore tedesco, famigeratissimo per le sue spiritose trovate riguardo al Trentino, ha scoperto tra altro e va raccontando alla credulità dei suoi concittadini che, da questa parte dell’Alpi, esistono parecchie centinaia di società, ciascuna con molte migliaia di soci, allo scopo di soccorrere contro il germanismo gli italiani soggetti all’Austria.

Troppo lontana purtroppo da questo ideale è tuttora la Dante Alighieri; ma potrà forse avviarvisi, quando si diffonda tra noi la persuasione che il portarle aiuto sia il mezzo più sicuro per inviare ai fratelli combattenti qualcosa di meglio che degli ordini del giorno da comizî; quando sopratutto ci si persuada sul serio che, ove pure le eventualità della storia dovesser condurci un giorno, volenti o nolenti, all’estrema ratio di un diretto intervento, la sola speranza di successo risiederebbe per noi in una preparazione condotta di lunga mano con perseveranza silenziosa, lentamente formata come la scienza di un dovere austero, che matura nel raccoglimento dei cuori e, come una necessità, fatale inesorabilmente si compie.

Alieno da ogni ostentazione di velleità bellicosa, l’apostolato della Dante Alighieri può contribuire, istruendo ed educando, alla creazione di quella energia morale che, se non supplisce, come da insani si favoleggia, al difetto di un solido apparecchio militare, lo vivifica però del complesso di imponderabili attributi in cui risiede, nell’ora decisiva, il segreto della vittoria.


Signori!


Nella nostra corsa rapidissima attraverso il campo sconfinato che porge allo studio I’ espansione italiana nel mondo, [p. 28 modifica]noi abbiamo dovuto tenerci paghi ad accennare di sfuggita i multiformi problemi che dal fenomeno grandioso traggono origine, presentandosi in forma di speranze confortevoli, od ergendosi come incognite minacciose sull’orizzonte avvenire della patria nostra.

E se le seconde più spesso delle prime parvero occuparci, e un certo pessimismo presiedere alla sommaria rassegna, fu perchè io penso che il laborioso problema non potrà avviarsi a principio di soluzione fino a quando le illusioni dell’empirismo unilaterale e superficiale non abbiano ceduto il campo alla visione obiettiva del fenomeno, lontana tanto dalla retorica di parte che dai lenimenti soporiferi del quietismo ottimistico.

Ma allo stesso criterio positivo che fu mia legge nella frettolosa esposizione mentirei ora, se tacessi concludendo il senso di conforto che, malgrado ogni tristezza di episodî, nasce entro di noi dallo spettacolo vario, incessante, smisurato di questi milioni di energie italiane che in ogni latitudine e sotto ogni cielo, lottano, e vincono talora, nella battaglia quotidiana e rude dell’esistenza, nell’ascesa faticosa verso la ricchezza.

Se l’emigrazione italiana fu definita, per le sue origini e le sue forme, un fenomeno di dolorosa sofferenza umana, non può negarsi che un’affermazione di vitalità organica vigorosa e promettente si riveli, attraverso i dolori individuali, dal quadro di questa imponente, spontanea manifestazione collettiva: che una promessa suoni pur nel coro confuso di tutte quelle umili voci di miserabili, di sfruttati, di reietti, associate in un poderoso asserto del loro superiore diritto all’espansione, al lavoro, alla vita dignitosa e feconda.

S’io abbia saputo mostrare fino a qual punto possa da noi dipendere che tanta somma di operosità, di audacie, di sacrifici italiani non vada totalmente dispersa per la patria in mezzo al conflitto accanito di influenze rivali, che si perpetueranno, sia pure in forme alquanto diverse che nel passato, nella civiltà di domani, non so, ne dubito purtroppo assai.

Questo io so soltanto: che l’ora è ormai venuta in cui alla visione gretta d’un popolo chiuso dall’inerzia entro i proprî confini, senilmente consunto nelle loquaci gare di piccole ambizioni locali, non curante o pauroso di raccogliere [p. 29 modifica]le invocazioni di aiuto che gli giungono dai milioni de’ suoi figli disseminati nel globo, è tempo si sostituisca un concetto più reale e più alto della nostra missione nazionale, una fiducia men scettica e l’aspirazione più decisa verso un avvenire, che dipenderà dalla fede e dalla concordia con cui oggi sapremo agire e volere.

L’Italia all’estero, questa più grande Italia, che vigore di popolo ha creata e che a noi si lega per tanti vincoli di interessi e di affetti, attraversa in questi anni un periodo decisivo del suo sviluppo.

«A quella guisa che, sdraiandosi sulla nuda terra tra il Marzo e l’Aprile, quasi pare al naturalista di sorprendere con I’ orecchio intento il fremito misterioso e latente delle innumerevoli e invisibili radici che si preparano a prorompere nei germogli di una nuova primavera, così, ascoltando l’eco delle cose e delle voci indistinte che ci vengono da ogni parte dell’universo ove sono italiani, sembra allo studioso di vedere talvolta, come in un miraggio, che questa Italia, disseminata come l’arena del mare in tutte le parti del mondo, debba un dì o I’ altro farci rampollare intorno da ogni lato nuove, inesauribili sorgenti di progresso morale, intellettuale ed economico, che diano come una rinnovata giovinezza al nostro paese».

Forse non è che sogno la suggestiva visione. Ma nei sogni è pur sempre una base positiva di realtà concreta.

E di buon augurio all’avvento di tale realtà posson esser anche le modeste riunioni simili a quella di questa sera, la cui eco, per quanto debole, dice ai nostri fratelli lontani, a quelli che combattono ed a quelli che soffrono, agli sfruttati nella schiavitù economica come agli oppressi dalla prepotenza straniera, che qui nella vecchia patria, in seno alla grande famiglia nazionale ch’essi rimpiangono o sospirano, palpita e vive nella nostra anima una parte dell’anima loro!