Iride/Paolina
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Paolina
Avevo compiuto dodici anni il giorno prima quando il babbo mi disse:
— Vèstiti, dobbiamo fare una visita.
Io non potevo immaginarmi che visita fosse perchè non conoscevo nessuno. Corsi difilata da Betta e le domandai se sapeva dove il babbo mi avrebbe condotta.
Betta non sapeva nulla: essa argomentò che il babbo si fosse deciso a farmi fare la conoscenza dei nostri vicini, i quali lo avevano pregato tante volte di lasciarmi giocare colle loro bimbe.
— No, Betta, le dissi: sono persuasa che non si tratta dei nostri vicini; per loro il babbo non mi avrebbe detto di vestirmi.
Betta confessò di non poter trovare altro e si fece a calmare la mia curiosità osservando che presto lo avrei saputo positivamente.
Indossai così il mio abitino color pesca e stavo raddrizzando un bottone di rosa sul mio cappello di paglia, quando il babbo comparve sull’uscio della camera.
— Sei pronta Paolina?
— Eccomi.
Egli mi guardò minutamente con un’aria poco soddisfatta, a dir vero.
— Non si poteva vestirla meglio? domandò alla mia governante.
— Non saprei... rispose Betta confusa: è il suo abitino delle feste: vossignoria lo conosce.
Mio padre si masticò i baffi in silenzio: mi prese per mano e scendendo le scale disse che le mie mani erano ruvide.
— Non hai guanti?
— Sai bene che non ne porto mai.
— Ne compreremo un paio strada facendo; queste mani non sono presentabili.
Ma Dio buono, dove si andava?
La faccenda dei guanti presentò qualche difficoltà; non si poteva calzarmeli per nessun verso; non ci ero avvezza: una volta infilati alla meglio non potei piegare le dita, nè riunirle, per modo che le mie mani ciondolavano appese alle braccia come due ventole spiegate.
— La è pur goffa! borbottò mio padre a denti stretti. La sua intenzione non era di farsi udire da me; ma io udii e mi prese una gran voglia di piangere.
Adoravo mio padre, anch’egli era sempre stato buono e amorevole, e per la prima volta mi accorgevo di spiacergli. Un velo di tristezza mi offuscò tutta; mi parve che il babbo si trasformasse, che non fosse più lui.
— Suvvia sta allegra; smetti quel muso. Che diranno di te nella casa dove andiamo? Rasserenati; vedrai una signora buona e bella, che ti vorrà tanto bene.
Perchè questa promessa non mi ridonò la mia allegria? Non so. Avrei voluto tornare indietro, nella nostra casa, gettar via quegli odiosi guanti, consegnare a Betta il mio vestito color pesca e riprendere i miei giochi nell’orto colle mie bambole, i miei fiori, i miei libri.
Il babbo si fermò davanti a una bella porta, alzò gli occhi e sorrise; io guardai subito a chi aveva sorriso, ma non vidi alcuno — la persona era già fuggita.
Mi raccomandò ancora di essere gentile, di salutare con garbo; mi allacciò un bottone di quegli infelicissimi guanti, e ripetendo: da brava! suonò il campanello.
Un servitore in livrea, senza nemmeno chiedergli il suo nome, alzò una portiera di velluto. Mio padre mi trascinò dietro a lui; allora la voce più soave ch’io avessi mai udito pronunciò queste parole:
— Finalmente, Giorgio, vi siete deciso a condurci la bambina!
Chi diceva a mio padre Giorgio! semplicemente? Per la prima volta in vita mia lo sentivo chiamare così, e ne provai una impressione dolorosa come se qualcuno mi contendesse il suo cuore inalberando diritti che io sola credevo di avere.
Guardai quella persona.
Era una splendida creatura, di una bellezza così fulgida che non la potrei paragonare ad altro che ad un raggio di sole. Altissima, snella, di forme morbide e delicate, sembrava muoversi come una canna a ondate flessuose — oh! lei non era goffa. L’abito elegante non aggiungeva nè toglieva una linea alla grazia del suo corpo; aveva le braccia un po’ nude, cinte da molteplici cerchietti d’oro che luccicavano e tintinnivano ad ogni gesto. La mobilità raggiante della sua fisionomia era incredibile; tutto aveva vita in quel volto; gli opulenti capelli neri, gli occhi espressivi, il sorriso incantevole, la carnagione pallida e bruna che si coloriva parlando e mutava ad ogni istante. Io la contemplava attonita.
— Vieni, Paolina! esclamò lei, circondandomi colle sue braccia graziose; noi dobbiamo diventare amiche.
Sapeva anche il mio nome!
— Non le ho detto nulla, sussurrò mio padre a voce bassa; vi chiedo scusa per lei se è un po’ imbarazzata.
— Non preoccupatevi di questo, Giorgio; la conoscenza la faremo a poco a poco: non è vero, piccina?
Corrisposi male, devo dirlo, alle sue gentilezze; vedevo la fronte di mio padre corrugata quasi muto rimprovero, eppure non trovavo in me un solo impeto d’affetto, una sola parola buona.
— Andiamo, Aurora: disse una vecchia signora che faceva calze di seta sdraiata in una poltrona, lasciala in pace; si vede che è scontrosa e ci vorrà del tempo ad avvezzarla.
— Aurora, io ne sono desolato!...
Queste ultime parole le pronunciò mio padre volgendosi alla bella creatura, la quale non parve per nulla turbata e mi rovesciò in grembo una manciata di chicche, sorridendo sempre.
La vecchia signora incominciò a farmi delle interrogazioni su’ miei studi, su’ miei passatempi: ed io le rispondevo in modo laconico, senza tralasciare mai di guardare mio padre e l’altra signora — Aurora! — sì, nessun nome poteva esserle più adatto; chiunque vedendola avrebbe indovinato che si chiamava così.
Si erano affacciati al balcone e parlavano piano guardandosi dentro gli occhi; mio padre le sorrideva in un modo che mi faceva orribilmente soffrire — non lo avevo mai visto lo quel sorriso!...
— Senti, mi diceva intanto la vecchia signora; non sta bene essere imbronciati: la mia Aurora, quand’era piccina, si faceva voler bene da tutti per il suo carattere allegro e gentile; la bontà e la grazia sono le più care doti di una fanciulla. E poi si diventa brutte, sai, a fare la cattiva!
Oh per questo non avevo bisogno di diventarlo. Non me ne ero mai preoccupata, ma allora capivo proprio di essere brutta e — curioso — nello stesso tempo mi accorgevo che il babbo era giovine e bello, e ne provavo un dispiacere così vivo come di una ingiustizia.
Silenziose lagrime colavano sulle chicche che avevo in grembo; la vecchia signora, disperando di potermi ammansare, si era rimessa a far la calza.
Nel tornare a casa il babbo non mi rivolse mai la parola — prova che egli era malcontento di me.
Io cercai subito la Betta e mi gettai nelle sue braccia raccontandole ogni cosa.
Per qualche giorno tutto camminò liscio come prima; il babbo sembrava bensì provare un momento di malessere quando arrestava gli occhi su di me, ma poi si rischiarava e baciandomi su ambedue le guance finiva sempre col dirmi:
— Sii buona, Paolina, allora tutti ti vorranno bene.
Tutti chi? Lui e Betta non erano le sole persone che dovevano amarmi? E non mi amavano già così, ad onta de’ miei difetti? Non avevo conosciuta mia madre, la vita mi era passata intera fra quei due esseri che segnavano i confini del mio mondo; non mi era mai venuto il pensiero che tale stato di cose potesse cambiare e non invidiavo le bambine dei nostri vicini circondate di fratelli, di sorelle e di parenti. Io ero felice di avere il babbo solo tutto per me e la Betta mia anch’essa. Amavo in secondo luogo la nostra casetta e il piccolo giardino incolto dove m’era lecita qualunque scorreria e dove regnavo da padrona assoluta su mezza dozzina di brulli rosai. A cagione della mia gracile salute non andavo a scuola; un maestro veniva a darmi le lezioni primarie e il babbo mi faceva da ripetitore; non avevo dunque nessuna amica e cresciuta sempre sola non mi piaceva neppure la compagnia degli altri fanciulli. Ero una piccola selvaggia malinconica e capricciosa.
Una domenica dopo pranzo il babbo era uscito; Betta aveva ricevuto senza dubbio delle istruzioni, perchè la trovai in giardino grave, compunta, col suo libro di preghiere in mano.
— Paolina, ella disse mettendomi due dita sulla spalla: tu sei oramai una donnetta e certe cose le puoi comprendere.
— Sicuro, risposi sfogliando senza scopo e senza pietà i poveri fiori dei rosai.
— Sta tranquilla dunque; è tempo di mettere giudizio; sai che devono accadere grandi cose?
Diedi un balzo, come i puledri quando accennano ad imbizzarrire; ero retrograda fino al midollo delle ossa. Tutti i cambiamenti mi sgomentavano.
— Anzitutto, continuò Betta, lascierai questa casa per un’altra più grande e bella.
— Ecco che il principio non mi piace. Perchè non restiamo qui? Questa casa è sempre bastata per noi; l’abitiamo da dieci anni. Forse che non siamo le medesime persone?
— Tu ragioni sempre, piccina.
— E se un momento fa dicevi che sono una donnetta?
— Pace, via, non c’intenderemo più, se non hai un po’ di pazienza. Il signor Giorgio...
— Meno male, tu continui a chiamarlo il signor Giorgio; non sei come quella signora dell’altro giorno che gli diceva Giorgio!
— Ah! ma quella signora, esclamò Betta afferrando la palla al balzo, quella signora, vedi, ha ben diritto di chiamare tuo padre col suo nome di battesimo.
— Diritto! esclamai rizzandomi come una vipera a cui si calpesti la coda.
— Eh! buon Dio, come ti alteri. Non si può parlare con te.
— Dimmi perchè quella signora ha diritto di dire Giorgio al babbo — e di mettersegli a fianco così, vicino vicino, guardandolo fisso negli occhi?... Ma dimmelo dunque.
Alcune goccioline di sudore imperlavano i capelli grigi della Betta; ella avrebbe rinunciato volontieri alla sua missione, ma io le ripetei con crescente impazienza:
— Dimmelo!
E allora ella si fece coraggio puntellandosi colle due mani sul suo libro di preghiere, come fosse un’àncora di salvezza:
— Perchè, Paolina, il signor Giorgio deve sposare quella signora.
Non dissi nulla. Continaia di lucciole mi danzarono improvvisamente davanti agli occhi, il giardino girava, girava, girava. Mi sentivo un gran gelo nel cuore e un fuoco tremendo nel cervello.
La Betta ebbe paura.
— Misericordia! esclamò facendomi sedere a forza sul banco vicino a lei.
Ma io diedi in uno scroscio di risa:
— Sposarla!... Lo credi?
— Non è quistione di credere; me lo ha detto lui.
— Lui!... Ebbene, io non voglio.
Mi alzai furibonda. Avrei schiantato ogni cosa intorno a me; avrei picchiato la Betta, me stessa, che so io? Mi sarei uccisa. Certo diventavo pazza; se non che le forze mi mancarono e a quell’eccesso di collera subentrò un leggero svenimento. La Betta mi portò sul mio letto.
Molte ore dopo, era notte fatta, io avevo ripreso completamente i sensi, ma non aprivo bocca; la mia governante, seduta presso una lucerna velata leggeva ad alta voce:
«Dio è misericordioso ma è giusto; egli premia i buoni e castiga i cattivi. Egli dice pure: amatevi gli uni cogli altri siccome fratelli.»
La porta di casa si aperse e si rinchiuse con strepito. Era mio padre; il suo passo risonava sulla scala; veniva come il solito a darmi il bacio della sera.
La Betta si alzò vivamente uscendo fuori nel corridoio; essa gli impedì di entrare, dicendogli:
— Dorme. La lasci riposare tranquilla.
Io udii ogni cosa e tacqui.
Non ho mai potuto sapere precisamente se la Betta abbia raccontato al babbo la mia scena del giardino. Sotto certi rapporti mi parrebbe di sì, sotto certi altri rapporti mi parrebbe di no; comunque, alcuni giorni dopo il babbo mi parlò lui stesso del suo matrimonio e di quella Aurora così gentile che doveva essere la mia seconda mamma. Disse tante cose tenere e commoventi tenendomi stretta fra le sue braccia, che mi vergognai un poco del mio cattivo carattere e gli promisi di essere più docile per l’avvenire.
Però alla sera domandai a Betta:
— Che bisogno avea mio padre di prendere moglie! Io ero felice con lui: e lui perchè non se ne è accontentato?
— La cosa è ben diversa, rispose Betta.
Ma per quanto io la stringessi, non riuscì mai a spiegarmi questa diversità: così non restai persuasa che a mezzo; e mi parve proprio che l’amore del babbo a mio riguardo non fosse così intenso ed esclusivo come il mio. Mi ricordo che soggiunsi:
— Io però non avrei voglia di prender marito!
— Eh! è presto: fu la risposta di Betta: e chi sa cosa faresti anche te se invece di dodici avessi vent’anni. Oh! sì, io lo so cosa faresti anche te se invece di dodici avessi vent’anni. Oh! sì io so cosa faresti al primo uccellino che picchiasse nei vetri cantandoti: vieni? tu spiegheresti il volo senza guardare nè il babbo, nè me. Cose vecchie, cose vecchie!
Andai a letto sorridendo delle parole di Betta, e quando ebbi spento il lume, mi parve di sentire sui vetri della mia finestra — tic tic, tic tic: vieni?
Che faccia avrebbe quell’uccellino? Tanto, nessuna faccia d’uomo mi piaceva fuorchè quella di mio padre. Egli era veramente bello; aveva un paio di baffi lunghi e sottili, due occhi tanto dolci — non passava certo i trentaquattro anni.
Un giorno venne a casa con un bottone di cardenia all’occhiello.
— Dammi quel fiore!
— No, rispose ponendovi sopra la mano in atto di difesa: non posso dartelo.
— Perchè?
— È un dono.
— Dammelo egualmente.
— No, tornò a dire mio padre con fermezza.
Che dispiacere mi fece quel no!
Aurora mi mandò a casa una bella bambola vestita di seta rosa, colle perle al collo, nelle orecchie e nei capelli.
— Che amore! fece la Betta.
Io posi la bambola a sedere su un panchino e minacciandola col dito:
— Veh! — le dissi — se non sei buona!
Nè la guardai più, occupando tutto il mio tempo in giardino a svellere i rosai. Io volevo lasciare il deserto dietro a me; poichè si abbandonava quella casetta dove erano trascorsi i miei più belli anni, non aveva a restarvi traccia delle mie gioie passate, de’ miei divertimenti rustici e solitari. Atterrai una capannuccia di vimini che mi ero fabbricata dove mi ritiravo nelle ore del sole a leggere Teofilo o il piccolo eremita.
Anche Betta era molto malinconica. Ella non voleva seguirci nella casa nuova; mio padre la consolava assicurandola che avrebbe potuto venire a trovarci quando che fosse, e che noi non l’avremmo dimenticata.
Oh! no, mai.
Il giorno del matrimonio mio padre era raggiante. A me avevano fatto un vestito appositamente, ma anche inutilmente, perchè non volli andare a vedere. Quando suonarono le campane della chiesa turai le orecchie.
— Non sta bene, — ripeteva la Betta: — una ragazzina deve essere docile; i dispetti e la musoneria sono proprio una brutta cosa.
— Ma quando la ragazzina è malcontenta? — domandai piagnucolando.
— Le ragazzine non sarebbero malcontente se ubbidissero di buona voglia, come comanda Iddio. Vieni qui, inginocchiati e preghiamo insieme.
Andai, m’inginocchiai, ma non dissi nulla, accontentandomi di sospirare nel grembiale di Betta.
Dopo la cerimonia gli sposi dovevano partire per un viaggio e io fui condotta a salutarli alla stazione. Il babbo mi abbracciò con effusione baciandomi due o tre volte, Aurora mi diede le vertigini curvandosi verso di me col suo bel viso, co’ suoi capelli che esalavano un profumo di giovinezza. Mi domandò a bassa voce che cosa doveva portarmi da Napoli, mi accarezzò, mi sorrise, disse che presto saremmo state sempre insieme e ci saremmo amate molto. Lo credeva?... ad ogni modo la frase era gentile.
— Sei un angelo! le mormorò mio padre all’orecchio mentre l’aiutava a salire in carrozza.
Ella sorrise ancora, e non ne fu che più bella.
Per un mese intero restai sola con Betta; la buona donna mi viziava in tutti modi, mi lasciava fare ogni cosa a mio capriccio, predicandomi tuttavia e recitandomi degli squarci di Vangelo.
In quel mese mangiai cinque volte la crema al cioccolatte, che era la mia passione; Betta me la preparava in segreto, dicendo poi: Ma ricordati di cambiar vita.
Terminai di mettere a soqquadro il giardino, e la Berta mi incoraggiava:
— Sfogati, poverina. Quando sarai nell’altra casa che ha un giardino all’inglese colla serra, colle aiuole, coi viali di sabbia fina, non potrai fare altrettanto; non te lo permetteranno.
Poco alla volta, senza affrettarci, raccogliemmo tutte e due i nostri fardelli, e per quanto Betta pretendesse di fare la forte, la sorpresi parecchie volte cogli occhi rossi.
Ogni tanto ricevevo una lettera del babbo che aveva in calce due righe di una scritturina aerea tutta piena di gentilezza per me. Io rispondevo con gravità seguendo strettamente le regole e avendo cura di mettere le virgole al loro posto.
Finalmente venne il giorno fatale. La Betta voleva struggersi raccomandandomi al Signore e raccomandando sè stessa al mio affetto. Dopo avere ben pianto:
— Là, Betta, io le dissi risolutamente: poichè siamo in guerra, combattiamo. Addio e coraggio.
Ci separammo così.
Casa nuova, vita nuova.
Aurora abbracciò con ardore i suoi doveri di madre; mi teneva sempre con lei, mi pettinava, mi vestiva, mi insegnava a lavorare. Era buona, era indulgente, eppure il filo arcano che lega due cuori non si svolgeva dai nostri. Lo sguardo solo della mia matrigna posandosi su di me, si velava spesso di una leggera tinta di noia! Più volte la sua manina bianca sollevandosi all’altezza della bocca reprimeva uno sbadiglio.
Bisogna convenire che la mia compagnia non era molto divertente; e poi non avevo nessuna delle doti graziose e leggere che attirano la simpatia. Mia madre mi avrebbe amata egualmente... ma lei che obbligo ci aveva?
Fra tutte e due segnavano i due poli estremi; in mezzo correva tutto un mondo. Lei era bella, gaia, felice, espansiva; io, brutta, malinconica, di carattere chiuso e riservato. Talvolta mi guardava con meraviglia, mordendosi in silenzio le labbra e pensando forse: Che razza d’una creatura è questa?
Del resto mai un rimprovero, mai una parola dura.
Aveva tentato sulle prime con un certo zelo di innalzarmi fino a lei, di insegnarmi il segreto delle sue eleganze, di foggiarmi sul suo modello cara e gentile — ma si stancò presto perchè nulla la sosteneva nell’ardua impresa, nè un forte amore, nè la docilità mia. Io ero, è duopo lo confessi un rozzo macigno immobile al suo posto; ma pure il cuore batteva dentro il mio petto meschino — sentivo anch’io il bisogno prepotente d’amare, sopratutto di essere amata, ma mi mancava una via di comunicazione fra i sentimenti e le parole. Ebbi la peggiore di tutte le disgrazie, quella di rimanere presto senza mamma, e in dodici anni di libere scorrerie come pianta selvaggia cro cresciuta irta di rovi e di asprezze. Se c’era qualche cosa di buono in me stava sepolto tanto in fondo e lo circondava sì dura scorza che al di fuori non ne traspariva nulla.
Il confronto giornaliero con Aurora mi nuoceva anche presso il babbo. Senza perdermi l’affetto, egli non poteva a meno di restare malamente impressionato dal mio poco garbo.
— Dora, disse un giorno a sua moglie, perchè non insegni a Paolina il tuo portamento, il tuo modo di camminare e di muoverti?
Lei alzò le spalle con un attuccio pieno di adorabile civetteria e prendendomi le mani esclamò:
— Andiamo dunque, signorina, imparate. Uno, due, tre — un bell’inchino.
Ma invece di approfittare delle sue gaie lezioni io mi facevo più triste e divoravo solitaria la gelosia che mi rodeva.
Tutte le sere, nei bei dopopranzo di maggio, Aurora appoggiata al braccio di suo marito percorreva i viali del giardino. Le loro figure leggiadre, strette insieme in un colloquio appassionato, si perdevano sotto i boschetti; la veste bianca di Aurora fluttuava tra i salici e le magnolie e si udivano gli scoppi argentini della sua voce come trilli d’allodoletta in amore.
Mi dimenticavano allora.
E quando tornavano indietro, vedendomi ancora seria e taciturna sulla soglia di casa:
— Che fai, mi dicevano: perchè non giuochi?
Non avevo voglia di giuocare. Io volevo essere felice come loro e non potevo.
Durante i caldi mesi dell’estate, Aurora passava quasi tutto il giorno sdraiata in una poltrona; si sentiva poco bene, era pallida, sofferente. Il babbo le stava vicino per delle ore, contemplandola; egli le prendeva le belle braccia nude e si divertiva a numerare i cerchi d’oro de’ suoi braccialetti; quando aveva finito ricominciava. Poi dicevano delle parole a bassa voce, lui sorrideva lei scuoteva il capo. Quando si accorgevano della mia presenza, si mettevano in contegno. Aurora non mancava allora di rivolgermi qualche parola affettuosa, ma i suoi grandi occhi guardandomi non avevano lo splendore di scintille che vi avevo scorto prima, e la voce di mio padre dicendo: cara Paolina; non era così tremante e carezzevole come a dire: cara Dora.
La Betta veniva tratto tratto a trovarmi; piangeva quasi tutte le volte, e mi domandava, piena di mistero, se la mia matrigna mi faceva patire la fame — ella aveva sempre udito dire che le matrigne fanno patire la fame.
La rassicuravo pienamente su questo capitolo; aggiungevo per la pura verità che la mia era una matrigna molto buona.
Verso l’inverno, Aurora che non abbandonava quasi più la poltrona, ammonticchiava colla sua foga solita dentro un bel paniere nuovo tanti camiciolini guernite di trine, tante cuffiette ricamate coperte di nastri: il tutto così grazioso, così piccino che le domandai a che cosa dovevano servire.
— Ti preparo un bel fratellino, mi rispose festante; tu lo amerai?
— Ma egli mi amerà?
— Sì certo; tutti ti ameranno, purchè tu sii buona.
Pensai un pezzo e seriamente a quel futuro fratellino: il mio carattere naturalmente invidioso me lo presentava talvolta come un rivale, ma poteva anche essere un compagno, un alleato. Divisai di stare sempre con lui e di lasciare soli il babbo colla sua Dora.
Nel mio concetto dell’amore c’era infallibilmente l’idea egoistica del possesso unico; la persona che dovevo amare la volevo tutta per me, senza divisioni, nè concessioni. Il babbo, l’idolo della mia infanzia, m’era stato infedele — io gli avrei dato un successore.
Con queste disposizioni, udii in una fredda sera d’inverno le grida di un bambino e la vecchia signora madre d’Aurora, che già da qualche giorno si era stabilita in casa nostra, venne a portare in sala sotto il lume della lucerna un cosino tutto rosso, letteralmente sepolto tra i merletti, che si disse essere mio fratello.
Allungai subito le braccia per portarlo via, gli avevo già trovato nella mia camera un posticino a modo; ma, con mia grande sorpresa e dolore, la vecchia signora spaventata lo sollevò in alto, quasi a sottrarlo dai miei poco delicati amplessi, e mi ammonì di stare zitta, di avvicinarmi con riguardo, solamente per guardarlo.
Che delusione!
Il piccino dormì in camera del babbo e di Aurora, una donna fu posta esclusivamente al suo servizio, ed a me proibito in modo assoluto di prenderlo in braccio.
Dopo qualche mese tutti impazzivano per quel bambino, il più leggiadro, il più vezzoso, il più intelligente dei bambini.
Aurora lo mostrava, orgogliosa, a mala pena coperto da un camiciolino di battista che lasciava scorgere i gigli e le rose del corpicino — ne faceva osservare gli occhietti brillanti, la piccola bocca, i capelli fini e ricciuti. Tutto il giorno sentivo a ripetere: Com’è bello! Com’è carino! Il babbo se lo mangiava di baci.
— Ma è tuo figlio al pari di me? gli domandai una volta con alterigia.
Egli scappò fuori a ridere e non mi rispose nemmeno, tanto la domanda gli parve stravagante.
Certo — egli era suo figlio al pari di me e per Aurora lo era a mille doppi più di me.
Il fratellino non si fermò lì. Venne dopo una sorellina e poi un fratellino ancora; in cinque anni Aurora popolò la casa di tre vispi demonietti — o angioletti, come si vuole.
Intanto, è facile capire, io non ero più una ragazzina; avevo finito l’epoca dei giuochi e delle carezze, contavo diciassette anni. Il babbo mi guardava pensieroso nei brevi istanti che i piccini lo lasciavono libero: Aurora aveva assunto a mio riguardo un’indulgenza molle, un po’ indifferente, mista di superiorità e di dolcezza. I nostri rapporti erano tranquilli, corretti e freddi.
Davanti alle persone mi dava volentieri il titolo di figlia; sapeva bene che questo non l’invecchiava punto — era sempre nello splendore massimo della bellezza, con tutte le grazie della fanciulla unite alle seduzioni profonde della donna e della madre. La ci aveva un garbo tutto suo a trascinarsi dietro, ella così giovane e vezzosa, una bighellona di figlia tanto lunga. Mi presentava seriamente, e poichè nessuno voleva crederle, affermava incalorandosi:
— Sì, sì, è proprio mia figlia.
Espansiva, amava i suoi figli fino al delirio, ma si frenava in mia presenza. La udii più volte, dietro l’uscio, scoccare i baci più lietamente amorosi sulle guancie paffute del suo ultimo nato, e appena io comparivo farsi languida e indifferente. Gli slanci che non mi poteva dare cercava bilanciarli con una giustizia rigorosa e con tutte le apparenze dell’eguaglianza.
La passione che il babbo aveva per lei si era accresciuta di tutto il rispetto, di tutta l’ammirazione che destava la sua bontà inalterata. Aurora regnava su un trono di luce, e d’amore — i suoi bimbi, belli come lei, le crescevano intorno sorridenti — io sola stuonavo nella tinta generale del quadro; io sempre taciturna e malcontenta!
I miei fratelli mi amavano un poco; non troppo. Preferivano ruzzarsi e scherzare tra loro e mi chiamavano Paolina scura.
Lavoravo accanto ad Aurora, ma molte volte la mia presenza le riusciva di imbarazzo — imbarazzo che si traduceva in una lieve inquietudine nervosa o in un lento sbadiglio. Io capivo e senza darmi a conoscere la lasciavo sola co’ suoi figli.
Erano allora degli scoppi di gioia vivace, un chiasso festivo, un’espansione di amore che nulla tratteneva, nulla vincolava. Le loro grida e i loro baci venivano a ferirmi nella solitudine della mia camera.
Avevo subito anch’io, come tutti, il fascino d’Aurora e l’amavo mio malgrado di un amore pieno di amarezza. Oh! che cosa non avrei dato per sorprendere ne suoi occhi una scintilla sola di quelle che prodigava ai suoi figli. Avevo le sue dolci parole, le sue carezze, anche i suoi baci, ma quegli sguardi non potei averli mai!
La spiavo nei menomi atti, nei cambiamenti rapidissimi della sua nobile fisionomia; vedevo quando, confrontandomi mentalmente coi suoi figli, un sorriso soddisfatto le irradiava le labbra. Una volta sgridò severamente il primogenito che mi aveva fatto non so quale dispetto, ma in quei rimproveri c’era maggiore tenerezza nascosta che in tutti gli elogi palesi tributati a me.
E chi potrebbe accusarla? C’è un dovere al mondo che obblighi una madre ad amare i figli degli altri come i suoi propri?
Aurora era generosa nella pietosa menzogna che si imponeva di mostrarsi egualmente amante e il suo cuore doveva soffrire quasi come il mio di quella continua finzione. Ella non poteva come le altre madri espandersi in tutte le forme di adorazione e di estasi che ispira quell’unico fra gli amori — l’occhio geloso della figliastra le numerava gli amplessi.
E però una volta colsi a volo queste parole ch’ella diceva a sua madre e che senza alcun dubbio si riferivano a me:
— Sì, è una noia: in certi momenti sopratutto la sua faccia straniera che non dice nulla al mio cuore mi pesa e mi opprime, ma che farci? È la mia piccola croce, conviene sopportarla con pazienza. Pensa poi che non ne ho altre.
Buona, sempre buona, anche confessando che io ero la sua croce!...
M’avviavo sui diciotto anni e quel tal uccellino di cui Betta aveva parlato una volta non veniva ancora a picchiare nei vetri della mia cameretta.
Ci fu tuttavia una novità preparata dalla vecchia signora e messa avanti sotto le forme nè belle nè brutte di un vedovino con una bimba.
Mi fecero vedere anche la fanciulla; aveva quattro anni, era pallida. Mi guardò fissa con due occhioni malinconici e in quegli occhioni credetti scorgere una lagrima.
Ricordai tutta la mia vita dell’infanzia fino a quel giorno; ripassai per tutte le torture dell’invidia e della gelosia; feci col pensiero una tela di quello che sarebbe il mio avvenire con quella bimba — freddezza ancora, freddezza sempre, in luogo dell’ardente amore che io sognavo.
No, no. Ne avevo abbastanza di essere figliastra, non volevo diventare matrigna. Sapevo che quella bimba non mi avrebbe amata e sapevo pure che io non l’amerei.
Il mio rifiuto contrariò assai la vecchia signora. Aurora e il babbo non dissero nulla, ma lei battè il chiodo per un pezzo:
— Sperate di maritarla facilmente questa ragazza? Per le sue doti personali... non credo; e se Giorgio non le tiene nascosto qualche tesoro, non avrà neppure quanto basta per farle il corredo. Avesse almeno pensato a darle una professione, a renderla indipendente col mezzo del lavoro! quando si è poveri!...
Tali riflessioni me ne fecero fare molte altre. Incominciai a preoccuparmi del futuro. Mio padre occupava una brillante posizione dovuta al suo ingegno, ma ricchezze non ne aveva. I miei fratelli, sarebbero stati agiati per parte della loro madre — io no.
Una posizione indipendente! Come si fa dunque ad acquistare una posizione indipendente? Col lavoro; ma che lavoro potevo fare? Davvero non ci avevo mai pensato; eppure l’idea mi lusingava.
Ne parlai a Betta.
— Betta, che lavori può fare una donna?
Presa così all’impensata la mia vecchia governante rispose:
— Calze, orlo, ricamo.
— Quanto si guadagna?
— Secondo. Venti, trenta, ottanta centesimi al giorno; forse una lira; ma perchè me lo chiedi?
Le spiegai la cosa francamente, e allora sì che la vidi rovesciare lagrime a secchi.
— O la mia bambina! esclamò. Siamo dunque ridotti a questo? Ti mandano via? Ti obbligano a lavorare per vivere?
Dovetti calmarla, farle intendere con pazienza che nessuno mi scacciava, ma che io stessa desideravo di farmi una posizione per non dover nulla a chicchessia.
I miei studi trascurati fin dal principio e rimasti poi incompleti non mi avrebbero mai procacciata la patente di maestra; avevo però un’attitudine speciale per le lingue, ed applicandomi di proposito non disperai di perfezionarmi nel francese e nell’inglese, tanto da poter dare delle lezioni.
Eccomi dunque all’opera con tutto il fervore.
Subito subito non dissi il perchè di quella smania improvvisa, ma dovetti palesarmi alla fine, e sì il babbo che Aurora se ne mostrarono afflitti. Sembrava loro che tale risoluzione dovesse involgerli in una tacita accusa.
Aurora fu più tenera, il babbo prese ad occuparsi di me con maggior cura; per poco l’illusione biancheggiava ancora sull’orizzonte e mi cullai in essa — ma per poco.
Tante piccole inezie, un’occhiata, un sospiro, un moto d’impazienza, una parola sfuggita a caso; a serietà del babbo, la dolcezza rassegnata d’Aurora, l’indifferenza balda e giuliva dei ragazzi, tutto concorreva a raffermarmi nell’idea prima. Io ero d’imbarazzo in famiglia, o per lo meno la mia mancanza sarebbe stata così poca avvertita che non valeva la pena di rimanere.
Sulla fine d’ottobre annunciai in forma ufficiale il mio proposito irremovibile di accettare un posto di maestra per le lingue in un Istituto della città.
Erano tutti riuniti nel salotto, anche i miei fratelli e la mia piccola incantevole sorellina, che a tre anni era già un modello di grazia, a proposito della quale nessuno si faceva riguardo d’esclamare.
«Quanto è vezzosa!... non somiglia a Paolina.»
Una commozione improvvisa (ma chi può scer nere nell’arcana composizione di una lagrima se più prevalga il dolore o la gioia?...) inumidì gli occhi d’Aurora; mio padre scosse il capo in silenzio. La piccola Maria venne a gettarsi fra i miei ginocchi gridando colla sua vocetta acuta:
— Starai via molto tempo, Paolina? oh! prendi allora con te l’abitino della mia bambola, che ci farai la gala nuova.
— Lasciamola sbizzarrire, disse mio padre, questo capriccio dell’emancipazione non le durerà molto; la nostra casa le è sempre aperta, e i nostri cuori pure, non è vero, Dora?
Chi non cercò punto di dissimulare la propria contentezza fu la madre d’Aurora. Ella mi fece dei complimenti sinceri sulla mia risoluzione; disse che una ragazza povera, se non trova marito — e i mariti sono rari — va incontro a una esistenza travagliata, piena di sconforti e di umiliazioni. Soggiunse che il lavoro nobilita, che offrendoci uno scopo alla vita ci riconcilia con noi stessi, dissipa i malumori, ci rende più buoni e più giusti.
Mi meravigliai un poco che, in mezzo a tante virtù enumerate dalla vecchia signora, ella non mi dicesse anche che il lavoro cambia la faccia e sostituisce a una fisionomia poco amabile tutte le seduzioni della bellezza.
Negli ultimi giorni Aurora era sempre con me; mi colmava di dolcezze; si sarebbe detto che nel suo animo così giusto ella cercava i più piccoli torti del passato per compensarli e farmeli dimenticare.
Il mattino della partenza feci colazione sola col babbo e con Aurora; i ragazzi giocavano in giardino sotto i grandi alberi che l’autunno sfrondava lentamente. Eravamo muti tutti e tre, pieni di una tenerezza nervosa che aspettava il menomo pretesto per sciogliersi in lagrime.
Quando si udirono nel viale le ruote della carrozza che veniva a prendermi mio padre si alzò di scatto, turbatissimo. La Dora mi allacciò con materna sollecitudine i nastri del cappello — tremava un poco.
— Ci rivedremo presto; la domenica la passi con noi; è cosa intesa, nevvero?
— Sì, sì.
— E non ci dimenticherai?
— Ah, no.
— E... pensa che ti vogliamo bene.
Mi gettai nelle loro braccia. Fu un momento di commozione indimenticabile.
Mio padre scese il primo per osservare se avevano portato i bagagli in carrozza. I bambini accorsero tutti giulivi, cogli occhi animati dal gioco, sorridenti.
— Addio, Paolina! Addio Paolina!
La piccola Maria mi fece scivolare in tasca la sua bamboletta raccomandandomi di rimetterla a nuovo per benino.
Sedetti fino in fondo alla carrozza; il babbo mi si pose allato. Aurora coi bimbi formavano gruppo sulla gradinata di marmo e mi inviavano clamorosamente i loro saluti.
Sull’edera rossiccia che pendeva dal muro la figura ammirabile della mia matrigna si disegnava più bella che mai; la sua fronte un po’ pensierosa non riusciva ad ombreggiare il lampo degli occhi, splendidi. Vista così, in alto, coi tre fanciulli che le si aggruppavano alle vesti, col busto gettato all’indietro e il braccio teso verso la carrozza che partiva era degna del pennello di un artista.
Fino all’ultimo, come nel primo giorno che la vidi, la sua meravigliosa bellezza mi soggiogava con un fascino strano, misto di simpatia e di acre invidia. Continuavo a guardarla, gustando un piacere pungente nel tenerla tutta occupata di me, immaginando che in quell’istante nessuno avrebbe potuto togliermi la sua attenzione.
Ma la piccola Maria, saltellando, cadde per terra, ed Aurora si precipitò verso di lei.
La carrozza intanto voltava l’angolo... Aurora non pensava più a me.