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rora, l’indifferenza balda e giuliva dei ragazzi, tutto concorreva a raffermarmi nell’idea prima. Io ero d’imbarazzo in famiglia, o per lo meno la mia mancanza sarebbe stata così poca avvertita che non valeva la pena di rimanere.

Sulla fine d’ottobre annunciai in forma ufficiale il mio proposito irremovibile di accettare un posto di maestra per le lingue in un Istituto della città.

Erano tutti riuniti nel salotto, anche i miei fratelli e la mia piccola incantevole sorellina, che a tre anni era già un modello di grazia, a proposito della quale nessuno si faceva riguardo d’esclamare.

«Quanto è vezzosa!... non somiglia a Paolina.»

Una commozione improvvisa (ma chi può scer nere nell’arcana composizione di una lagrima se più prevalga il dolore o la gioia?...) inumidì gli occhi d’Aurora; mio padre scosse il capo in silenzio. La piccola Maria venne a gettarsi fra i miei ginocchi gridando colla sua vocetta acuta:

— Starai via molto tempo, Paolina? oh! prendi allora con te l’abitino della mia bambola, che ci farai la gala nuova.

— Lasciamola sbizzarrire, disse mio padre, questo capriccio dell’emancipazione non le durerà molto;