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La passione che il babbo aveva per lei si era accresciuta di tutto il rispetto, di tutta l’ammirazione che destava la sua bontà inalterata. Aurora regnava su un trono di luce, e d’amore — i suoi bimbi, belli come lei, le crescevano intorno sorridenti — io sola stuonavo nella tinta generale del quadro; io sempre taciturna e malcontenta!

I miei fratelli mi amavano un poco; non troppo. Preferivano ruzzarsi e scherzare tra loro e mi chiamavano Paolina scura.

Lavoravo accanto ad Aurora, ma molte volte la mia presenza le riusciva di imbarazzo — imbarazzo che si traduceva in una lieve inquietudine nervosa o in un lento sbadiglio. Io capivo e senza darmi a conoscere la lasciavo sola co’ suoi figli.

Erano allora degli scoppi di gioia vivace, un chiasso festivo, un’espansione di amore che nulla tratteneva, nulla vincolava. Le loro grida e i loro baci venivano a ferirmi nella solitudine della mia camera.

Avevo subito anch’io, come tutti, il fascino d’Aurora e l’amavo mio malgrado di un amore pieno di amarezza. Oh! che cosa non avrei dato per sorprendere ne suoi occhi una scintilla sola di quelle che prodigava ai suoi figli. Avevo le sue dolci parole, le sue carezze, anche i suoi baci, ma quegli sguardi non potei averli mai!