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a mattina dopo, Dionisia era scesa nella sezione da circa mezz’ora, quando la signora Aurelia le disse con la sua voce secca:

— Signorina, vi vogliono in direzione.

La ragazza trovò il Mouret solo, seduto nel suo studio tappezzato di verde. S’era rammentato a un tratto della «sciattona» come la chiamava il Bourdoncle; e, pur ripugnandogli anche quella volta di far la parte del tiranno, aveva pensato di chiamarla per ismoverla un po’, se era sempre rinfagottata da provinciale. Il giorno innanzi, sebbene avesse scherzato anche lui, dinanzi alla Desforges, aveva sentito un po’ di dispetto, per amor proprio: porre in dubbio l’eleganza d’una delle sue ragazze! Ora gli si agitava nell’animo un sentimento confuso, misto di simpatia e di stizza.

— Signorina, — cominciò a dire — vi abbiamo presa per riguardo a vostro zio, e non bisogna che ci mettiate nella triste necessità...

Ma si fermò subito. In faccia a lui, dall’altra parte del tavolino, Dionisia stava dritta, seria e pallida. Il vestito di seta non le era piú troppo largo; tornava invece a pennello intorno alle curve della vita, e mostrava nella loro purezza le sue spalle di vergine; i capelli annodati in [p. 173 modifica]grosse trecce erano sempre un po’ ribelli, ma almeno cercavano di contenersi. Dopo essersi addormentata vestita, la giovinetta, svegliatasi verso le quattro, s’era vergognata della sua commozione, s’era messa subito a restringersi il vestito, e aveva passato un’ora a pettinarsi senza riescire a ridurre i capelli come avrebbe voluto.

— Sia ringraziato Dio! — mormorò il Mouret — stamani state un po’ meglio... Ma quei benedetti capelli, ancora...

S’era alzato, e andò a correggere la pettinatura di Dionisia con quel gesto stesso col quale la signora Aurelia ci si era provata il giorno innanzi.

— Ecco qui! tirateli un po’ dietro l’orecchio... Il chignon è troppo alto.

Lei non apriva bocca, e lasciava fare. Per quanto si fosse proposta di esser forte, era giunta nello studio col freddo nelle vene, quasi certa che la chiamavano per licenziarla. E la patente benevolenza del Mouret non bastava a rassicurala, ché anzi continuava ad aver paura di lui e a sentire accanto a lui quel malessere ch’ella reputava turbamento naturale davanti all’uomo onnipotente dal quale ormai dipendeva la sua vita. Quando egli la vide cosí tremante sotto le sue mani che le sfioravano il capo, rimpianse quel primo moto di cortesia, perché gli stava a cuore, prima d’ogni altra cosa, non perdere la propria autorità.

— Insomma, signorina, — riprese andando a sedersi di nuovo al tavolino — cercate di stare sempre attenta al vestito. Non siete piú a Valognes, studiate le nostre parigine... Se il nome dello zio è bastato per farvi accogliere, son certo che voi manterrete quello che il vostro aspet[p. 174 modifica]to mi parve promettere. La disgrazia è che non tutti qui sono del mio parere... Siete avvisata, non è vero? Non mi fate dunque bugiardo.

La trattava da bambina, con piú compassione che bontà; sentiva, per cosí dire, in quella ragazza, povera e inesperta, crescere la donna che può far girar la testa; e la sua curiosità di uomo galante si svegliava. Ma lei, essendole, mentre il Mouret le parlava, caduti gli occhi sul ritratto della Hédouin, di cui il bel volto regolare sorrideva gravemente dalla cornice dorata, si sentí ripresa da un brivido, sebbene le parole di lui fossero benevole. Era quella la signora morta, che il quartiere accusava lui di avere uccisa, per fondare la casa sul sangue delle sue vene.

Il Mouret seguitava a parlare.

— Andate! — disse finalmente, mettendosi a scrivere e riprendendo la penna.

Se n’andò, e nel corridoio dette un sospirone, come se le levassero un gran peso di dosso.

Da quel giorno Dionisia mostrò che gran cuore avesse. Sotto i rari sfoghi del sentimento v’era in lei la ragione sempre sveglia e presente, v’era il coraggio d’una creatura debole e sola, che gaiamente si ostina nel dovere imposto a se stessa. Faceva poco rumore, ma andava diritta innanzi, al suo scopo, con una invincibile dolcezza, sorpassando tutti gli ostacoli: e ciò faceva semplicemente, naturalmente, perché quella era l’indole sua; il viso di bambina quieta passava e trionfava in mezzo alle ire, le gracili mani acquistavano a poco a poco la forza dell’acciaio.

Da principio ebbe a superare le terribili fatiche della sezione. I mucchi dei vestiti le spezza[p. 175 modifica]vano le braccia a segno che durò un mese e mezzo a gemere la notte contorcendosi, piegata in due e con le spalle indolenzite. Ma soffrí anche piú per le scarpe; certi scarponi portati da Valognes e che non poteva, non avendo i quattrini, sostituire con un paio di stivaletti leggieri. Sempre ritta, camminando dalla mattina alla sera, sgridata se la vedevano appoggiarsi un momento, aveva i piedi gonfi, piedini da bimba che parevano stritolati dentro a macchine di tortura: i calcagni le ardevano di febbre, la pianta s’era coperta di vesciche delle quali la pelle strappata restava attaccata alle calze. Il corpo intero era tutto un dolore per quella stanchezza delle gambe: e gli sconcerti che il sesso pativa, si palesavano di tanto in tanto nel pallore delle carni. E cosí delicata, cosí rifinita, pur resisté, mentre molte ragazze intorno a lei dovevano andarsene per malattie cagionate da quella vita. Il suo coraggio a soffrire, l’ostinatezza a volerla spuntare, la tenevan su, e la facevano ancora sorridere quando stava per svenire, spossata da un lavoro cui non tutti gli uomini avrebbero potuto resistere.

La tormentava inoltre la persecuzione delle compagne che si aggiungeva al martirio del corpo. Dopo due mesi di pazienza e di dolcezza, non le aveva disarmate ancora. Erano ogni giorno parole mordaci, crudeli invenzioni, un abbandono che, bisognosa com’era d’affetto, la feriva nel cuore. Durarono un pezzo a canzonarla per la sua prima vendita; la chiamavano «rapa» e «ciabattona»; quand’una non riesciva a contentare una cliente la mandavano «a Valognes»; passava, insomma, per la bestia della sezione. Poi, quando si mostrò bravissima a vendere, [p. 176 modifica]una volta entrata nei segreti del mestiere, ebbero tutte quasi uno stupore pieno di sdegno e s’intesero tra loro in modo da non lasciarle mai una cliente a garbo. Margherita e Clara la perseguitavano con un odio istintivo, stringendo le file per non essere messe sotto da quella nuova venuta che, nonostante i loro sdegni ostentati, temevano. La signora Aurelia, poi, non perdonava alla giovinetta di starsene cosí rimessa, di non pavoneggiarsi, di non guardarsi ogni momento, come le altre, di dietro e davanti; e l’abbandonava ai rancori delle proprie favorite, l’abbandonava a quelli della propria corte ch’era sempre inginocchiata innanzi a lei, intenta a gonfiarla d’una adulazione continua di cui, per vivere bene, l’indole sua tirannica aveva bisogno. Per un po’ parve che la vicedirettrice, la Frédéric, non entrasse nella congiura; ma doveva essere sbadataggine, perché ella si mostrò non meno dura delle altre non appena si fu accorta che quella sua benevolenza le poteva essere a carico. Allora l’abbandono fu universale; tutte dettero addosso alla «sciattona», e Dionisia dové durare in un combattimento che si rinnovava d’ora in ora, non riuscendo con tutto il suo coraggio che a farsi sí e no tollerare nella sezione.

Tale la sua vita. Bisognava che sorridesse, facesse la brava o la graziosa in un vestito di seta che non era suo; e moriva di fatica, mal nutrita, trattata male, sotto la continua minaccia d’essere licenziata. La sua cameretta era l’unico rifugio, il solo posto dove ella concedesse qualche volta uno sfogo alle lacrime, dopo che nella giornata aveva sofferto troppo. Ma dallo zinco del tetto coperto dalla neve di dicembre scende[p. 177 modifica]va un freddo terribile: lei doveva rannicchiarsi nel lettuccio di ferro, buttarvi sopra tutti i suoi vestiti, piangere sotto le coperte, perché il gelo non le screpolasse il viso. Il Mouret non le rivolgeva piú una parola. Quando lo sguardo severo del Bourdoncle cadeva su lei, era presa da un tremito perché indovinava in lui un nemico che non le perdonerebbe la minima colpa. E in mezzo a quella inimicizia di tutti, la strana benevolenza dell’ispettore Jouve la meravigliava: se la trovava sola, le sorrideva e cercava una parolina cortese; due volte le aveva risparmiato delle partacce, senza ch’ella gliene mostrasse gratitudine alcuna, piú turbata che commossa da quella protezione.

Una sera, dopo desinare, mentre le ragazze mettevano in ordine gli armadi, Giuseppe venne ad avvertire Dionisia che un giovanetto l’aspettava al pianterreno. Ella scese inquietissima.

— To’! — disse Clara — la sciattona ha un amante, dunque!

— Quando uno ha fame! — rispose Margherita.

Sulla porta Dionisia trovò suo fratello Gianni. Gli aveva proibito espressamente di presentarsi cosí al magazzino, perché era questa una delle cose che davano piú nell’occhio, e piú dispiacevano ai superiori. Ma non osò sgridarlo, tanto pareva fuor di sé, senza il cappello, ansante per essere venuto di corsa dal Borgo del Tempio.

— Ce li hai dieci franchi? — balbettò. — Dammi dieci franchi o sono un uomo rovinato.

Quel ragazzo coi capelli biondi al vento era tanto buffo col suo bel volto di fanciulla, mentre buttava là quella frase da melodramma, che [p. 178 modifica]Dionisia avrebbe sorriso se la domanda non l’avesse gettata in un’angoscia indicibile.

— Come, dieci franchi? — mormorò. — Che è accaduto?

Gianni si fece rosso e cominciò aveva trovata la sorella d’un suo compagno...

Ma Dionisia lo fece subito chetare, impacciata piú di lui, e non avendo davvero bisogno di sapere il resto. Già due altre volte era venuto di corsa a pregarla di simili prestiti; ma la prima volta si trattava soltanto d’un franco e venticin que, la seconda volta d’un franco e mezzo. Era inutile: ricascava sempre negli stessi imbrogli.

— Ma io dieci franchi non te li posso dare! — riprese Dionisia. — Ci ho ancora da pagare la mesata di Beppino, e ho i quattrini proprio per l’appunto. Mi rimarrà appena tanto da comprarmi gli stivaletti, e non ne posso fare a meno. Tu non ci pensi mica a queste cose, Gianni: e fai male, malissimo.

— Allora sono un uomo rovinato — ripeté Gianni con un gesto tragico. Sta’ a sentire, sorellina mia. È un bel pezzo di ragazza bruna; siamo andati al caffè col fratello, io credevo che pagassero loro...

Dové interromperlo un’altra volta; ma negli occhi gli apparivano lacrime in pelle in pelle, a quel suo caro scervellato, e le toccò tirar fuori il portamonete e cavarne una moneta da dieci franchi che gli fece scivolare in mano. Allora Gianni si mise a ridere:

— Lo sapevo io!... Ma ti do la parola d’onore che questa è l’ultima volta! Bisognerebbe essere troppo birbante!

E se n’andò di corsa, dopo averle appiccicati [p. 179 modifica]due baci sulle gote come un pazzo. Dal negozio alcuni commessi guardavano meravigliati.

Quella notte Dionisia non chiuse occhio. Fin da quando era entrata nel Paradiso delle signore, il danaro era stato il suo pensiero crudele d’ogni momento. Era sempre stato «alla pari», vale a dire senza stipendio fisso; e siccome le compagne le impedivano di vendere, le riusciva a gran stento pagare la pensione di Beppino, servendo quelle clienti da poco, ch’esse si degnavano lasciarle. La sua era la miseria nera, la miseria vestita di seta. Spesso doveva passare la notte intera a raccomodarsi quel misero vestito, a rammendarsi la biancheria, a ripigliare i fili delle camicie come se fossero trine; senza contare che si era rattoppate da sé le scarpe in modo che un calzolaio non se ne serebbe vergognato. Faceva nella catinella i suoi piccoli bucati. Ma il vecchio vestituccio di lana le dava sopra ogni altra cosa da fare; non aveva che quello, e doveva rimetterselo ogni sera quando si levava l’«uniforme» cosí lo consumava a vista d’occhio; una macchia le faceva terrore; il piú piccolo strappo diventava una rovina. E non un soldo per sé, non un soldo mai per quei piccoli oggetti di cui han bisogno le donne: a ricomprarsi il filo ed aghi avea dovuto aspettare quindici giorni. Quando Gianni con le sue avventure amorose le piombava addosso e le portava via ciò ch’ella aveva messo da parte, era addirittura una disgrazia.

Un franco, dato a lui, scavava un vuoto ch’ella non sapeva piú come colmare. A trovare dieci franchi il giorno dopo, non ci era nemmeno da pensarci un minuto. Tutta la notte non fece che rivoltarsi nel letto fantasticando: vedeva Beppino buttato sulla strada e le pareva di ri[p. 180 modifica]voltare con le dita livide le pietre del lastrico per vedere se mai ci trovasse sotto denari.

Il giorno dopo dové invece sorridere e far la sua parte di ragazza ben vestita. Vennero nella sezione delle clienti conosciute, e la signora Aurelia la chiamò piú volte per gittarle sulle spalle i mantelli perché ne facesse risaltare la foggia nuova ed elegante. E mentre doveva star dritta con le grazie imposte dal figurino della moda, pensava ai quaranta franchi della pensione di Beppino che aveva promesso di pagare in serata. Per un altro mese avrebbe fatto a meno degli stivaletti; ma anche aggiungendo ai trenta franchi, che le erano rimasti, quei quattro messi da parte a soldo a soldo, dove avrebbe mai trovato gli altri sei, dei quali aveva bisogno? In quell’angoscia le veniva meno il cuore.

— Guardino, — diceva la signora Aurelia — le spalle sono libere. È elegantissimo e comodissimo. La signorina può perfino incrociare le braccia.

— Sicuro — ripeteva Dionisia, che aveva sulle labbra il sorriso d’obbligo. — Non si sente nemmeno addosso... Signora, lo prenda e se ne troverà bene.

E intanto si rimproverava d’essere andata la domenica innanzi a prendere Beppino dalla signora Gras per portarlo alla passeggiata dei Campi Elisi. Quel povero bambino usciva tanto di rado con lei! Ma gli aveva dovuto comprare le chicche ed una vanghina, e poi menarlo a vedere pulcinella: e cosí aveva speso un franco e quarantacinque. Gianni non ci pensava dunque punto, al fratellino, quando ne faceva delle sue? E tutto ricascava sulle spalle di lei.

— Se non piace alla signora... — ripigliava [p. 181 modifica]a dire la direttrice. — Su! signorina, mettetevi la mantellina perché la signora possa vedere da sé.

E Dionisia camminava un po’ su e giú, con la mantellina sulle spalle dicendo:

— È calda, calda... Quest’anno sono di moda.

Fino a sera, sempre fingendo come il mestiere imponeva, continuò a tormentarsi per sapere dove avrebbe mai trovato il denaro di cui aveva bisogno. Le ragazze, Dio sa come e perché, le lasciarono fare una vendita importante; ma quel giorno era un martedí, e fino al sabato non si riscoteva il tanto per cento. Dopo desinare, pensò di non andare per quella sera dalla signora Gras: il giorno dopo si sarebbe scusata col dire che l’avevano trattenuta; forse quei sei franchi le sarebbero piovuti in un modo o nell’altro..

Per evitare anche le spese piú piccole, Dionisia la sera andava a letto prestissimo. Che mai poteva fare sui marciapiedi senza nemmeno un soldo in tasca, non conoscendo nessuno, e turbata sempre dalla grandezza della città di cui sapeva soltanto le strade vicine al magazzino? S’arrischiava fino al Palais-Royal, tanto per prendere una boccata d’aria, e poi lesta lesta se ne tornava a casa, si chiudeva in camera, e stava lí a cucire o a lavare. Non aveva nemmeno un’amica. Di tutte quelle ragazze, una sola, Paolina Cugnot, dimostrava volerle un po’ di bene; ma le sezioni della biancheria e delle «confezioni », ch’erano accanto, si facevano apertamente la guerra, e la simpatia delle due giovinette s’era dovuta fin lí contentare di poche parole alla sfuggita. Paolina stava, è vero, in una delle camere accanto a quella di Dionisia, a sinistra; [p. 182 modifica]ma subito dopo tavola se n’andava e non tornava che alle undici. Dionisia la sentiva andare incontrarla mai fuori che nelle a letto, senza ore del lavoro.

Quella notte Dionisia s’era rassegnata a fare un’altra volta da calzolaio. Aveva in mano le scarpe e le guardava e riguardava, per vedere se le riuscisse di portarle per un altro mese. Finalmente aveva risolto di ricucire con un ago grosso la suola che stava per staccarsi dalla tomaia. Un colletto e un paio di polsini stavano in quel mentre tuffati nella catinella piena di saponata.

Le undici erano suonate da dieci minuti, quando un rumore di passi le fece alzar la testa. Un’altra ragazza che tornava tardi! E riconobbe Paolina sentendola aprire l’uscio accanto. Ma non seppe che pensare: Paolina tornava indietro pian pianino, e picchiava alla sua porta:

— Lesta! son io!

Era proibito alle ragazze andare nelle camere l’una dell’altra. Dionisia aprí subito perché la sua vicina non fosse sorpresa dalla Cabin la quale vegliava a che il regolamento fosse rigorosamente rispettato.

— C’era?... — domandò nel richiudere..

— Chi? la Cabin! — disse Paolina. — Oh! di lei non ho proprio paura... Con cinque franchi...

Ed aggiunse:

— Ho visto il lume, ed è tanto che volevo discorrere con voi! Laggiú non si può mai... E poi stasera a tavola eravate tanto seria!

Dionisia la ringraziò e la pregò di mettersi a sedere; quell’aria di buona le faceva bene. Ma nel turbamento in cui la visita inaspettata la gittava, non aveva lasciata andare la scarpa che [p. 183 modifica]stava per ricucire, e gli occhi di Paolina caddero appunto sulla scarpa. Crollò la testa, guardò intorno, e vide anche i polsini e il colletto nella catinella.

— Povera figliuola! me l’immaginavo io! Eh, lo so purtroppo per esperienza. Nei primi temero arrivata da poco da Chartres, e pi, quando il babbo non mi mandava un soldo, n’ho lavate anche io delle camicie! Già, proprio le camicie, perfino le camicie! Ne avevo due, e, come si suol dire, una addosso e l’altra al fosso.

S’era messa a sedere, ansante ancora dell’aver corso. Il suo faccione, con certi occhietti vivaci, con la bocca grande di buona, non era sgradevole per quanto fosse grosso e grasso. E lí per lí si mise a raccontare la sua storia; come aveva passata la gioventú al mulino, come il babbo fosse stato rovinato da un processo, e l’avesse mandata a Parigi a far fortuna, con venti franchi in tasca; e poi come avesse cominciato il mestiere, prima in un negozio in Via Batignolles, poi nel Paradiso delle signore; brutti principi, con tutte le ferite, tutte le privazioni immaginabili; per ultimo, raccontò la sua vita d’ora, come guadagnava duecento franchi al mese, come si divertiva, e non si dava pensiero di nulla. Sul suo vestito di bel panno azzurro luccicavano dei gioielli, uno spillone, una catena da orologio; e sorrideva sotto la sua toque di velluto con una grande penna bigia.

Dionisia s’era fatta rossa rossa, con quella scarpa in mano; e, balbettando, cercava le parole per spiegare la faccenda.

— Ma se m’è toccato anche a me! — ripeté Paolina. — Via, via! ho piú anni di voi; ne [p. 184 modifica]ho ventisei e mezzo, per quanto non mi si diano... Raccontatemi un po’ i vostri affarucci.

Allora Dionisia cedé a quella amicizia che cosí apertamente le si offriva. Si mise a sedere in sottana, con un vecchio scialle annodato sulle spalle, accanto a Paolina tutta in ghingheri, e cominciarono subito le chiacchiere. Non c’era un gran caldo in quella stanza; il freddo pareva che venisse giú dai muri della soffitta, nudi come quelli di una prigione; ma erano tanto assorte nelle loro confidenze da non sentire nemmeno che le mani si aggranchivano dal gelo. A poco a poco Dionisia disse tutto, parlò di Gianni e di Beppino, raccontò com’era tormentata dal pensiero continuo del denaro. E cosí il di scorso cadde sulle ragazze delle «confezioni». Paolina cominciò a sfogarsi:

— Che canaglie! Capisco, capisco come fanno! Se fossero buone compagne, potreste guadagnarvi piú di cento franchi.

— Ce l’hanno tutti con me, a me non riesce capire perché — diceva Dionisia non ne potendo piú, e sentendosi venire i lucciconi. — Il Bourdoncle è lí sempre a spiarmi per vedere se gli riesce di mandarmi via, come se gli dessi noia!... Il Jouve soltanto...

L’altra interruppe:

— Scimmiotto d’un ispettore! Ah, piccina mia, non vi fidate... Gli uomini con un nasone a quel modo... Lui mette in mostra la decorazione, ma corre una certa storiella d’un fatto che gli sarebbe accaduto nella sezione della biancheria... Oh, come si fa a pigliarsela cosí? Che disgrazia essere sensibile a codesto modo! Dio santo! quel che avviene a voi, avviene a tutte: vi fanno pagare il noviziato. [p. 185 modifica]

Le prese le mani e le dette un bacio, spinta dal buon cuore. Quel che piú importava era l’affare del danaro. Una povera ragazzina non poteva mantenere i suoi due fratelli, pagare la pensione del piccino e fare i regali alle sgualdrine di quello grande, a forza di raccattare i soldi che le altre lasciavano cascare per misericordia; perché c’era purtroppo il caso che fino a marzo, fino cioè al ricominciare delle vendite importanti, non le dessero paga fissa.

— Sentite, è impossibile che la duriate a lungo cosí. Io, se fossi in voi...

Ma un rumore, che venne dal corridoio, la fece chetare. Forse era Margherita: l’accusavano di passeggiare di notte, in camicia, per spiare il sonno delle altre. Paolina, che seguitava a stringere le mani dell’amica, la guardò per un po’ zitta zitta, con l’orecchio teso. Poi, riprese a voce bassa bassa, con aspetto pieno di tenera persuasione:

— Io, se fossi in voi, mi piglierei qualcuno.

— Come, qualcuno? — mormorò Dionisia, che li per lí non intese.

Quand’ebbe capito, trasse indietro le mani e rimase senza saper che dire. Quel consiglio le dava noia come un’idea che non le era mai venuta, e non vedeva che utile le porterebbe.

— Oh, no! — rispose semplicemente.

— E allora — continuò Paolina — vuol dire che non ne caverete mai le gambe: ve lo dico io! Le cifre eccole qui: quaranta franchi pel piccino, cinque franchi di tanto in tanto a quello grande; e poi voi non potete mica andare sempre vestita come una stracciona, con queste scarpe che vi fanno canzonare dalle ragazze: già, son proprio le scarpe che vi fanno canzonare... Pi[p. 186 modifica]gliate qualcuno, starete meglio, molto meglio: ve lo dico io.

No — ripeté Dionisia.

— Avete torto... Prima di tutto non si può fare altrimenti, cara mia, e poi che c’è di male? S’è fatto tutte cosí. Io, per esempio, ero «alla pari»>, come voi. Nemmeno un centesimo. Vi danno, è vero, da mangiare e dormire, ma un po’ di «< toilette» ci vuole, e poi non si può mica stare sempre senza un soldo, tappata in camera a guardare le mosche che volano! E allora come si fa? Bisogna, Dio mio!, lasciarsi andare...

E parlò del suo primo amante, un giovane di studio che aveva conosciuto in una scampagnata, a Meudon. Dopo di lui, s’era messa con un impiegato alle poste. Dall’autunno in poi, per ultimo, se la intendeva con un commesso del Buon Mercato col quale passava tutte le ore di libertà. Ma non mai piú d’uno alla volta, veh!

Era onesta, lei, e si scandalizzava quando sentiva discorrere di quelle ragazze che si vendono al primo venuto.

— Io non vi dico mica di comportarvi male! — riprese con vivacità. — E non vorrei, per esempio, farmi veder per le strade con la vostra Clara, per paura che credessero che anch’io corra la cavallina come lei. Ma quando si sta per benino con uno solo, e non si ha niente da rimproverarsi... Vi pare male?

— No, rispose Dionisia: — ma a me non mi piace!

Ci fu un’altra pausa. Tutt’e due nella stanzetta gelida si sorridevano, commosse da quella conversazione a voce bassa.

— E poi bisognerebbe, per prima cosa, voler [p. 187 modifica]bene a qualcuno — riprese Dionisia con le gote rosse rosse.

Paolina non si poté piú contenere: diè in una risata e l’abbracciò di nuovo, dicendo:

— Ma, cara mia, da che ci si trova e ci si piace! Siete curiosa, sapete? Nessuno vi costringerà... Via! volete che domenica il Baugé ci porti a fare una scampagnata? Condurrà con sé un amico...

— No, no! — rispose Dionisia con la sua dolce cocciutaggine.

Allora Paolina non insisté piú. Ognuna era padrona di fare a modo suo. Se lei aveva detto qualcosa era stato solo per bontà di cuore, perché le dispiaceva di vedere una compagna in quello stato. E siccome stava per sonare mezzanotte, si alzò accomiatandosi. Ma prima costrinse Dionisia a prendere i sei franchi che le mancavano, e la supplicava di non darsene pensiero: glieli avrebbe resi quando avesse guadagnato di piú.

— Ed ora — aggiunse — spegnete il lume, cosí non si accorgono che uscio è quello che s’apre... Lo riaccenderete dopo.

Spento il lume, si strinsero la mano, e Paolina se n’andò piano piano e rientrò in camera sua senza altra traccia che il vago rumore dei suoi passi perdentisi nella profonda tenebra.

Avanti d’entrare a letto, Dionisia volle finire di rattoppare la scarpa e lavare quella sua roba.

Il freddo si faceva intenso, a mano a mano che la notte inoltrava. Ma lei non lo sentiva, tanto quella conversazione le faceva correre piú presto il sangue. Non che si fosse avuta per male delle parole della compagna; ciascuno, le pareva, finché fosse solo e libero sulla terra, era [p. 188 modifica]padrone di vivere a modo suo. Ma lei non ci aveva mai pensato su; la sua ragione dritta salda e l’indole sana la mantenevano naturalmente nell’onestà. Verso il tocco andò finalmente a letto. No, no; lei non voleva bene a nessuno. E allora perché doveva buttare all’aria tutta la sua vita e sciupare quel bene da mammina che voleva ai due fratelli? Ma addormentarsi non le riusciva; dei brividi tiepidi le salivano al capo, l’insonnia le faceva passare, dinanzi alle palpebre chiuse, forme indistinte che si dileguavano per la notte.

Da quel momento, Dionisia fu curiosamente attratta ad ascoltare, ad osservare, le storie d’amore della sua sezione. Là, tranne nelle ore di gran faccende, si viveva nel pensiero continuo dell’uomo. Chiacchiere, racconti, tenevano allegre le ragazze per una settimana. Clara era uno scandalo: aveva tre che la mantenevano, a quel che si diceva, senza contare tutti gli amanti avventizi che si trascinava dietro: e se lei non piantava il magazzino dove lavorava il meno che fosse possibile, sprezzando un danaro che fuori si procacciava con tanto piú gusto, era per coprirsi agli occhi della sua famiglia, perché aveva una grande e continua paura del babbo che minacciava piombarle addosso e spezzarle braccia e gambe a zoccolate. Margherita invece si comportava benissimo; non si sapeva che avesse amanti: e ciò non era senza meraviglia delle altre, che tornavano su quel parto ch’ella era venuta a nascondere a Parigi.

Come aveva fatto ad aver quel figliuolo, se era tanto rigida di costumi? E alcune andavano dicendo ch’era stato un caso, e che ora lei si serbava per il suo cugino di Grenoble. Né era [p. 189 modifica]risparmiata dalle ragazze la Frédéric, cui affibbiavano amicizie con alti personaggi. La verità era, che di quel che lei facesse non ne sapevano nulla: la sera se n’andava tutta d’un pezzo nella sua alterezza vedovile, e tutta affaccendata, senza che nessuno potesse dire dove correva cosí lesta. Circa alle passioni della signora Aurelia, le scorse delle quali si andava bucinando che avrebbe fatto con giovinetti obbedienti, eran false di certo; si divertivano ad inventarle da ragazze scontente della vendita, tanto per ridere un po’; forse una volta aveva dimostrato un po’ troppo affetto materno a un amico del suo figliuolo, ma oggi aveva nel commercio lo stato e la nomea di donna seria che non ci si divertiva piú a quelle ragazzate. Poi veniva la mandria, la scorribanda serale, di quelle nove su dieci ch’erano aspettate dagli amanti all’uscita: in Piazza Gaillon, lungo la Via della Michodière e la Via Nuova di Sant’Agostino, una fila di uomini stavano lí fermi quasi in sentinella, sbirciando verso l’uscita con la coda dell’occhio; e quando le ragazze comparivano, ciascuno porgeva il braccio, pigliava la sua, e se n’andavano chiacchierando in santa pace da marito e moglie.

Ma, piú che dal resto, Dionisia fu turbata quando capí il segreto del Colomban. Era lí sempre a tutte le ore sull’uscio del Vecchio Elbeuf, dall’altra parte della strada, con gli occhi alzati e senza mai levarli da dosso alle ragazze delle «confezioni».

Se s’accorgeva d’esser guardato da lei, arrossiva e voltava la testa dall’altra parte, quasi impaurito che la giovinetta ridicesse tutto alla sua cugina Genoveffa, sebbene il Baudu e la nipote [p. 190 modifica]non si vedessero piú, da quando questa era entrata nel Paradiso delle signore. Sulle prime l’aveva creduto innamorato di Margherita, per quei suoi atteggiamenti da innamorato infelice; difatti Margherita, da brava ragazza, dormiva nel magazzino e stava sulle sue. Ma poco dopo, Dio sa come rimase quando si accorse che le occhiate ardenti erano proprio per Clara! Eran dei mesi che se n’era innamorato a quel modo, da una parte all’altra della strada, senza trovar mai il coraggio di dirglielo: e questo per una poco di buono che stava in Via Luigi il Grande, e ch’egli avrebbe potuto fermare tutte le sere prima che ella se n’andasse sempre a braccetto d’uno nuovo. La stessa Clara non pareva che si fosse accorta della sua conquista. Quando Dionisia ebbe scoperto la verità, restò dolorosamente commossa. Ma dunque l’amore era una cosa brutta a quel modo? Che stupidaggine! Un giovinotto aveva la felicità accanto e si guastava la vita adorando una ragazzaccia di quella sorta, come il santissimo sacramento? Da quel giorno tutte le volte che, dietro i vetri verdastri del Vecchio Elbeuf, vide il profilo pallido e malaticcio di Genoveffa, si sentí stringere il cuore.

Ogni sera Dionisia era assorta in questi pensieri, mentre vedeva le ragazze andarsene con gli amanti. Quelle che non dormivano nel Paradiso delle signore scomparivano fino alla mattina dopo, quando riportavano nel loro reparto l’odore di fuori come compenetrato con le sottane; incognito, indistinto, perturbatore. E la giovinetta doveva spesso rispondere con un sorriso al saluto amichevole che le rivolgeva, d’un moto del capo, Paolina, quando il Baugé l’aspettava, come faceva tutte le sere fin dalle otto e mezzo, [p. 191 modifica]ritto da una parte della Fontana Gaillon. Poi, dopo essere uscita l’ultima e aver fatto sola sola, e quasi di nascosto, quattro passi, era sempre la prima a tornare, lavorava o andava a letto, con la testa piena di fantasticherie, presa dalla curiosità di quella vita parigina che non conosceva. Non mica che invidiasse le altre; era anzi contenta della sua solitudine, di quel vivere selvaggio, in cui la sua timidità si chiudeva quasi in fondo a un rifugio; ma l’immaginazione le pigliava la mano: cercava d’indovinare, evocando i piaceri di cui sentiva discorrere continuamente, i caffè, le trattorie, i teatri, le domeniche passate in barca o in campagna. E ne restava presa da un desiderio misto di stanchezza; le pareva d’essere già sazia di quei divertimenti che non aveva provati mai.

Per fortuna in quella sua vita tutta lavoro non restava che poco tempo alle pericolose fantasticherie. Nel magazzino, con le tredici ore di lavoro, schiacciati dalla fatica, i commessi e le ragazze non pensavano davvero a fare all’amore tra loro. Se la battaglia continua per il danaro non avesse fatto sí che la diversità del sesso non fosse piú avvertita, sarebbe bastato a uccidere il desiderio quel continuo giocare agli spintoni che teneva occupata la testa e rompeva le membra. Si poteva appena rammentare qualche raro caso d’amore, tra quelle ostilità, quell’esser compagni nel lavoro, e il sentirsi nei fianchi i gomiti altrui. Non erano piú che ruote ingranate mosse dalla macchina, senza una personalità propria, costretti a non esser altro che una forza aggiunta alle forze in quell’ambiente volgare e possente da falanstero. Soltanto fuori tornavano [p. 192 modifica]a vivere della vita individuale con la improvvisa fiammata delle passioni che si ridestavano.

Dionisia vide, nonostante ciò, Alberto Lhomme, il figlio della direttrice, fare scivolare un bigliettino in mano ad una ragazza della biancheria, dopo esser passato su e giú piú volte con aria indifferente. S’era allora al tempo freddo, nella stagione morta che va da dicembre a febbraio; e Dionisia aveva finalmente un po’ di riposo; passava delle ore ritta con gli occhi perduti nella profondità del magazzino, ad aspettare le clienti.

Le ragazze delle «confezioni» se la intendevano un po’ di piú con i commessi delle trine, senza che la forzata intimità andasse piú oltre di certi scherzi scambiati a voce bassa. Alle trine c’era un «aiuto» che faceva sempre il chiasso e perseguitava Clara con dichiarazioni e confidenze abominevoli, soltanto per ridere un po’, senza che mai cercasse nemmeno di vederla fuori: e cosí da un banco all’altro i giovinotti e le ragazze si scambiavano occhiatine e parole che eran soli a capire; qualche volta chiacchieravano con l’aria sopra pensiero e volgendosi un po’ le spalle per non farsi scoprire dal terribile Bourdoncle. Circa al Deloche, egli per un pezzo si contentò di sorridere guardando Dionisia; poi si fece piú coraggio e ogni volta che s’imbatteva in lei le mormorava qualche parola da amico. Il giorno ch’ella si accorse che il figliuolo della signora Aurelia passava il bigliettino alla ragazza, il Deloche stava appunto domandandole se le aveva fatto buon pro la colazione, tanto per domandarle qualche cosa, e non riuscendo a trovare nulla di piú cortese. Anche lui vide quel fogliettino bianco: guardò Dionisia, e tutt’e due [p. 193 modifica]arrossirono di quel rigiro, cominciato sotto i loro occhi.

Ma la giovinetta, sotto quel soffio caldo che a poco a poco svegliava in lei la donna, non aveva ancora perduta la sua pace di bambina. Soltanto l’Hutin, quando le capitava innanzi, le faceva batter piú lesto il cuore. Ma agli occhi suoi quello non era che un senso di riconoscenza; credeva d’esser commossa soltanto dalla cortesia di lui. Egli non poteva condurre una cliente alla sezione, senza che Dionisia restasse confusa. Parecchie volte, tornando da una cassa, le accadeva, senza accorgersene, di fare un giro piú lungo per traversare la sezione delle sete, col respiro grosso.

Un pomeriggio vi trovò il Mouret, che parve la seguisse con occhio sorridente. Non ci badava punto a lei, e non le rivolgeva di tanto in tanto una parola che per darle un consiglio sul vestito e scherzare un po’ su quella selvaggia che aveva del ragazzo e ch’egli non sarebbe mai riuscito, per quanto se n’intendesse di donne!, a trasformare in una donnina a garbo. Arrivava perfino a ridere e a piccheggiarla, senza volere confessare a se stesso che quella ragazzuccia con quei capelli cosí curiosi gli piaceva. A quel sorriso muto Dionisia tremò come se avesse fatto qualcosa di male. Forse lui lo sapeva perché ella traversasse la sezione delle sete, quand’ella stessa non avrebbe potuto spiegare che cosa la spingesse a quel giro?

L’Hutin, per altro, non sembrava punto che si accorgesse delle occhiate piene di riconoscenza della fanciulla. Le ragazze del magazzino non erano il genere che gli andava; e ostentava di averle in dispregio, vantandosi piú che mai di [p. 194 modifica]amori straordinari con le signore. Una baronessa capitata al suo banco era rimasta come fulminata; la moglie di un architetto gli era cascata tra le braccia un giorno ch’era andato in casa di lei per uno sbaglio accaduto nel misurare la stoffa. Con queste bombe alla normanna nascon deva le donnacce che raccattava in fondo alle birrerie e ai caffè. Come tutti i commessi aveva la mania dello spendere: tutta la settimana stava al banco con l’avidità d’un avaro, col solo desiderio di buttar via a manciate l’intero guadagno la domenica, sui prati delle corse, alla trattoria, ai balli pubblici: non mai un’economia, non mai un soldo messo da parte, il danaro preso da una mano e gittato dall’altra, senza un pensiero mai al giorno dopo.

Il Favier non faceva quella vita. L’Hutin e lui, tanto amici nel magazzino, arrivati all’uscio si salutavano e non si parlavano piú: molti dei commessi, sempre insieme dentro, usciti di lí non si curavano di ciò che gli altri facessero, del come vivessero. Ma l’Hutin aveva per amico intimo il Liénard. Tutt’e due stavano nello stesso albergo, nell’albergo di Smirne, in Via Sant’Anna, una casaccia nera ch’era sempre piena di garzoni di negozio e di commessi viaggiatori. La mattina arrivavano insieme; poi, la sera, il primo che era libero, quando la sua sezione si chiudeva, andava ad aspettare l’altro nel caffè San Rocco, in Via San Rocco, un caffeuccio dove si trovavano di solito i commessi del Paradiso delle signore a bociare e sbevazzare, giocando alle carte tra il fumo delle pipe. Spesso rimanevano lí fin verso il tocco, quando il padrone, stanco, li cacciava fuori. Ma da un mese, tre volte la settimana, passavano la serata in un 194 [p. 195 modifica]caffè di Montmartre dove si sonava e cantava, e si portavano dietro i compagni, acclamando a gran furia la signorina Laura, una robusta cantante che era l’ultima conquista dell’Hutin, con tanto picchiare di mazze e con grida tali, che la polizia aveva già dovuto intervenire due volte. L’inverno passò cosí. Dionisia ebbe alla fine trecento franchi di stipendio fisso. Era tempo; gli scarponi non ne potevano piú. L’ultimo mese aveva cercato perfino d’andar fuori il meno possibile, per non perderli sulla strada.

— Ma Dio santo! signorina, fate un rumore con quelle vostre scarpe! — ripeteva spesso la signora Aurelia con aria acerba. — Non se ne può piú... Ma che ci avete ai piedi?

Quando Dionisia scese nella sezione con gli stivaletti di stoffa che aveva pagati cinque franchi, Margherita e Clara ne fecero a mezza voce le meraviglie, in modo però da essere sentite.

— To’! la scarruffata non ha piú le ciabattacce! — disse l’una.

— Chi sa — rispose l’altra quanto ha dovuto piangere!... Erano un ricordo di famiglia, le scarpe della mamma.

Allora, si riattizzarono da tutte le parti le ire contro Dionisia. La sezione s’era finalmente accorta della sua amicizia con Paolina, e ci vedeva una sfida in quell’affezione per una ragazza della sezione nemica. Non la finivano piú, parlavano di tradimento, l’accusavano di far la spia d’ogni minima parola. La battaglia tra la «biancheria » e le «< confezioni»> ne prese nuova violenza; non era mai stata cosí accanita. Furono scambiate parole che parevano proiettili, e una sera, dietro le scatole delle camicie, si sentí perfino uno schiaffo. Forse l’antica lite dipendeva [p. 196 modifica]da questo, che le ragazze della «biancheria» erano vestite di lana, quelle delle «confezioni» erano vestite di seta; ma le prime parlavano delle vicine con certe smorfie da ragazze per bene che si scandalizzano, e i fatti davano loro un po’ di ragione, perché era stato notato che la seta esercitava maligni influssi sui costumi delle ragazze addette alle «confezioni». Clara era di continuo vilipesa per il branco dei suoi amanti; a Margherita rinfacciavano il famoso bambino; alla signora Frédéric le passioncelle nascoste. É tutto questo per colpa di Dionisia!

— Signorine, non tante parolacce! si frenino un po’! — diceva la signora Aurelia con la sua aria da imperatrice, in mezzo alle ire scatenate dal suo piccolo popolo. — Facciano vedere che sono ben educate!

In fondo, preferiva non occuparsene. Le ragazze, confessava lei un giorno al Mouret che glielo domandava, non valgono piú l’una che l’altra. Ma a un tratto si accese anche lei, quando il Bourdoncle le disse di aver trovato nel sotterraneo il suo figliuolo mentre stava per abbracciare una della «biancheria», quella ragazza cui il giovane passava i biglietti. Un vero orrore! E lei accusò apertamente la «biancheria » d’aver teso un tranello per farvi cascare Alberto. Sicuro, la trama l’avevano ideata contro lei; cercavano disonorare lei, rovinando un ragazzo senza esperienza, perché s’erano accorte che sulla sua sezione non c’era nulla da ridire. Ma tutto quello scalpore lo faceva per imbrogliare le cose; non s’illudeva sul conto del figliuolo, sapendolo capace di quello e d’altro.

Ci fu un momento che l’affare si temé divenisse grave, trovandovisi immischiato il Mignot, [p. 197 modifica]dei guanti; era l’amico di Alberto, e correva voce che facesse dei ribassi alle amanti inviategli da costui, delle ragazze senza cappello che stavano ore e ore a frugare nelle scatole; e poi c’era la storia di certi guanti di Svezia dati alla ragazza della «biancheria» di cui nessuno riuscí a capir nulla. Lo scandalo fu soffocato per riguardo alla direttrice delle «confezioni» che il Mouret stesso trattava con deferenza. Il Bourdoncle, otto giorni dopo, si contentò di mandar via con un pretesto qualsiasi la ragazza colpevole d’essersi lasciata abbracciare. Chiudevano gli occhi sul terribile sozzume di fuori, ma quei signori non tolleravano dentro il magazzino nemmeno una ragazzata.

Fu Dionisia che ne toccò. Per quanto sapesse come la cosa era andata, la signora Aurelia le serbò rancore: l’aveva vista una sera ridere con Paolina: ciò le era parso una sfida, credendo chiacchierassero sugli amori del suo figliuolo. Nella sezione tenne anche piú da parte la giovinetta. Era un pezzo che pensava di andare una domenica con tutte le ragazze in campagna vicino a Rambouillet, a Rigolles, dove aveva comprato un po’ di terra coi suoi primi centomila franchi messi da parte, e risolvette, a un tratto, di castigare Dionisia. Fu la sola ch’ella non invitasse. Fin da quindici giorni innanzi, la sezione non fece che discorrere della scampagnata; guardavano il tiepido cielo di maggio, spartivano già le ore della giornata, si promettevano tutti i piaceri, il latte, gli asini, il pane nero. E poi tra donne soltanto? questo si che era divertente! La signora Aurelia passava cosí quasi tutti i suoi giorni di vacanza andando a far passeggiate con delle altre donne; tanto poco [p. 198 modifica]era avvezza a stare in famiglia, che le poche sere che avrebbe potuto desinare col marito e il figliuolo, preferiva, sentendosi un pesce fuor d’acqua, piantar lí tutto e andarsene alla trattoria. Il Lhomme scappava via dal canto suo, tutto contento di tornarsene alla vita di giovinotto, e Alberto, con un gran peso di meno sullo stomaco, correva dalle sue belle: in questo modo, non piú abituati alla vita di famiglia, dandosi impaccio l’un l’altro e annoiandosi insieme, la domenica non facevano che attraversare il loro quartiere come un albergo qualsiasi dove si va a dormire la notte.

Per la scampagnata a Rambouillet, la signora Aurelia bastò che affermasse che le convenienze impedivano ad Alberto di andarvi anche lui, e che il babbo avrebbe anch’egli fatto bene a rifiutare: tutt’e due ne furono arcicontenti. Le ragazze, a mano a mano che quel giorno di felicità si avvicinava, non la facevano piú finita, e raccontavano i loro preparativi come se avessero dovuto fare un viaggio di sei mesi. Dionisia, pallida e silenziosa nel suo abbandono, doveva star lí a sentirle.

— Vi fanno arrabbiare, non è vero? le chiese una mattina Paolina. Io, al vostro posto, gliela darei io! Si divertono? e mi divertirei anch’io!... Venite con noi domenica: il Baugé mi conduce a Joinville.

— No, grazie — rispose la giovinetta con la sua tranquilla ostinazione.

— Ma perché?... Avete paura che vi piglino per forza?

E Paolina rideva con la sua aria bonacciona; Dionisia sorrise anche lei. Lo sapeva come andavano le cose; tutte le ragazze avevan cono[p. 199 modifica]sciuto il primo amante in una di quelle passeggiate; sempre un amico capitato come per caso. E lei non ne voleva sapere.

— Via via! riprese Paolina — vi do parola che il Baugé non menerà nessuno. Saremo in tre soli. Non volete? Eh! nessuno vi darà marito!

Dionisia stava ancora in forse, ma la voglia di andare le faceva salire un’ondata di sangue alle gote. Da quando le compagne parlavano a quel modo di piaceri campestri, si sentiva soffocare, presa dal bisogno del cielo aperto, fantasticando erbe cosí alte ch’ella vi si tuffasse fino alle spalle, alberi giganti dei quali l’ombra le scendesse addosso come un’acqua fresca. La sua infanzia, passata nelle grasse e verdi praterie del Cotentin, si svegliava col rimpianto del sole.

— Ebbene, sia! disse alla fine.

Fissarono tutto. Il Baugé sarebbe venuto alle otto a pigliarle in Piazza Gaillon; di li andrebbero in legno alla Stazione per Vincennes. Dionisia che coi suoi venticinque franchi di stipendio al mese poteva appena pensare ai ragazzi, s’era contentata di rinfrescare il vestituccio di lana nera, guarnendolo con una stralicciatura di lanetta a quadrettini, e s’era fatta da sé un cappello con una forma a cappottina, coperta di seta, ravvivata da un nastro azzurro. Semplice a quel modo, aveva l’aspetto giovanissimo, un’aria di ragazzina cresciuta troppo alla lesta, d’una povertà pulita, un po’ vergognosa e imbarazzata dalla lussureggiante abbondanza dei suoi capelli che mettevano anche piú in mostra la semplicità del cappello.

Paolina, invece, si pavoneggiava nel suo vestito di seta da primavera a righine violette e bian[p. 200 modifica]che: s’era messo un cappellino vistoso, tutto penne; aveva gioielli al collo e alle mani; uno splendore da mercantessa infagottata. La domenica pigliava la rivincita di tutta la settimana ch’era costretta nella sezione a vestirsi di lana; mentre Dionisia, che trascinava la sua uniforme di seta dal lunedí al sabato, tornava la domenica alla povera lana della sua miseria.

— Ecco il Baugé — disse Paolina additando un pezzo di giovinotto accanto alla Fontana. Presentò il suo amante, e Dionisia si sentí subito senza soggezione, tanto le parve un buon uomo. Il Baugé, grande e grosso, forzuto come un bove che lentamente ara, aveva una facciona fiamminga in cui due occhi, che non dicevano nulla, ridevano con una puerilità da bambino. Nato a Dunkerque, figlio minore di un droghiere, era venuto a Parigi, quasi cacciato di casa dal babbo e dal fratello che lo credevano troppo stupido. Eppure nel suo magazzino egli si guadagnava tremilacinquecento franchi. Uno stupidone, sí, ma intelligentissimo in materia di tele. Alle donne pareva un bell’uomo.

— E il legno? — domandò Paolina.

Bisognò che andassero fino al boulevard. Il sole faceva già caldo; la bella mattinata di maggio splendeva sul lastrico delle vie. E nemmeno una nuvola in cielo: per l’aria azzurra e cristallina trasvolava un’allegria. Le labbra di Dionisia involontariamente si schiusero a un sorriso; respirava a pieni polmoni e le pareva che il petto si rifacesse d’un soffocamento di sei mesi. Finalmente non si sentiva piú addosso quell’aria pesante e le gravi pietre del Paradiso delle signore! Una giornata le stava dinanzi, da passarsi tutta in libera campagna! Ed era come una [p. 201 modifica]nuova sanità, una gioia smisurata dove entravano pur anche sensazioni nuove di birichina. Ma nel legno si voltò da un’altra parte, imbarazzata, quando Paolina si chinò per porre un bel bacio sulle labbra dell’amante.

— To’! — disse con la testa sempre alla portiera — guardate là il signor Lhomme... come cammina lesto!

— Ha con sé il suo corno, — soggiunse Paolina che s’era affacciata. — Lui sí, ch’è buffo; o non si direbbe che corre a un appuntamento?

Era proprio il Lhomme, che con l’astuccio dell’istrumento sotto al braccio se n’andava lesto lesto lungo il Teatro del Ginnasio, con la testa alta, ridendo fra sé al pensiero della contentezza che si riprometteva. Doveva certamente andare a passare la giornata da un suo amico, flauto d’un teatrino, dove, la domenica, alcuni dilettanti sonavano e sonavano musica da camera, dal caffè e latte alla cena.

— Alle otto! Quella è una mania! — ripigliò Paolina. — E sapete; la signora Aurelia e la sua cricca son dovute partire stamattina alle sei e venticinque col treno di Rambouillet... Marito e moglie oggi non s’incontrano di sicuro. Che famiglia!...

Tutt’e due si rimisero allora a discorrere della scampagnata a Rambouillet. La pioggia non la potevano augurare alle altre, perché c’era il caso d’essere inzuppate anche loro: ma se una nuvola avesse potuto rompersi laggiú, senza che gli schizzi arrivassero a Joinville, sarebbe stata proprio una cosa bella. Poi vennero a dire di Clara, che non sapeva come fare a buttar via tutti i quattrini dei suoi amanti: non s’era comprate tre paia di stivaletti, tanto per gittarli da [p. 202 modifica]parte subito il giorno dopo, tagliuzzati con le forbici per via dei suoi piedi tutti patate? Le ragazze, del resto, non avevano piú giudizio dei commessi: anch’esse finivano tutto, fino all’ultimo soldo: due o trecento franchi se n’andavano in un mese, chicche su chicche e cenci su cenci.

— Ma se non ha che un braccio! — disse a un tratto il Baugé. — O come fa a suonare il corno?

Non aveva levati gli occhi d’addosso al Lhomme. Allora Paolina, che qualche volta si divertiva alle spalle della sua ingenuità, gli dette a intendere che il cassiere appoggiava lo strumento contro il muro; ed egli ci credé, e disse ch’era proprio una cosa ingegnosa. Quando poi, presa da rimorso, lei gli spiegò come il Lhomme si adattava al moncherino certe pinzette di cui si serviva come d’una mano, il Baugé crollò il capo pien di sospetto, e dichiarò che certe cose a lui non gliele davano a bere!

— Ma sai che sei un po’ troppo sciocco? — disse Paolina, alla fine, ridendo. — Non significa nulla, ti voglio bene lo stesso!

Il legno continuava ad andare; e arrivarono alla Stazione per Vincennes, proprio a tempo per un treno. Pagava il Baugé, ma Dionisia aveva fatto il patto che voleva contribuire lei per la sua parte; la sera si sarebbero fatti i conti. Salirono in seconda classe; dai vagoni usciva un allegro mormorio. A Nogent un corteo di nozze scese dal treno in mezzo a grandi risate. Finalmente arrivarono a Joinville, e andarono subito nell’isolotto a ordinare la colazione; poi rimasero lungo la riva sotto gli alti pioppi che costeggiano la Marna. L’ombra era fresca, un venticello spirava vividamente nel sole, e faceva [p. 203 modifica]piú limpida sull’altra riva la veduta d’una pianura, che ben coltivata si stendeva loro dinanzi.

Dionisia andava dietro a Paolina e al suo che camminavano con le braccia attorno alla vita l’uno dell’altra; aveva colto una manciata di pratoline, e guardava l’acqua che scorreva, sentendosi felice, ma col cuore un po’ commosso, chinando la testa quando il Baugé si curbaciare l’amica sua. Delle lacrime le salirono agli occhi; e pure non soffriva. Ma che dunque, perché si sentisse mancare il respiro a quel modo, e perché mai quell’aperta campagna, dove aveva creduto trovare pace e serenità, la empiva invece d’un vago rimpianto, di cui non avrebbe potuto dir la ragione?

A colazione poi, le risate rumorose di Paolina la stordirono mezza. Paolina, che era appassionata per i dintorni della città come un’attrice costretta a vivere, al lume della ribalta, nell’aria rinchiusa e guasta dalla folla, aveva voluto mangiare sotto un pergolato, sebbene il vento fosse un po’ fresco. Si divertiva alle ventate che facevano svolazzare la tovaglia, e le piaceva vedere il pergolato ancor tutto nudo, coi fili di ferro rinverniciati, che mettevano l’ombra loro geometrica sulla tavola. Del resto, piú che ad altro, badava a mangiare e bere, con una golosità affamata da ragazza mal nutrita nel magazzino, che fuori si piglia un’indigestione dei piatti che le piacciono; il suo vizio era quello: quanti quattrini aveva se li spendeva in pasticcini, in frutta acerbe, in ghiottonerie ingozzate alla lesta nelle ore di libertà. Ma vedendo che Dionisia n’aveva abbastanza delle uova, del fritto, del pollo, si rattenne e non osò di ordinare le fragole, pri[p. 204 modifica]mizia ancor rara, per paura di far salire troppo in su il conto.

— E ora che si fa? — domandò il Baugé quando fu portato il caffè.

Le altre volte lui e Paolina tornavano a Pacontentando Dionisia, risolsero di rimanere a rigi per desinare e finir la giornata al teatro. Ma, Joinville; sarebbe stata una cosa nuova; si sarebbero ingolfati nella campagna fino agli occhi. Infatti non fecero che passeggiare su e giú pei campi. Fu messa innanzi la proposta d’andare in barca, ma il Baugé remava tanto male, che la misero da parte subito. Passeggiarono dunque, e la loro passeggiata li riconduceva sempre sulle rive della Marna: la vita del fiume li divertiva con tutte quelle barche e canotti che vi s’incrociavano. Il sole s’avvicinava al tramonto; ed essi tornavano a Joinville, quando due barchette, venendo giú con la corrente e gareggiando di velocità, si lanciarono scariche d’insolenze, fra le quali si udiva ripetuto il grido di merciai e di sgobboni.

— To’! — disse Paolina. — È il signor Hutin.

— Già, — rispose il Baugé parandosi il sole con la mano. — Riconosco la lancia gialla... In quell’altra ci devono essere degli studenti.

E si mise a spiegare l’odio antico che faceva spesso azzuffare gli studenti con i commessi. Dionisia, a sentire il nome dell’Hutin, s’era di colpo fermata; e seguiva la fragile lancia, che volava come una freccia, cogli occhi fissi cercandovi tra i rematori il giovane: ma non distingueva piú che il bianco di due donne, una delle quali con un cappello rosso stava al timone. Le voci si dispersero nel gran frastuono del fiume. [p. 205 modifica]

— Abbasso gli sgobboni!

— Abbasso i merciai! abbasso!

La sera tornarono alla trattoria dell’isolotto. Ma l’aria s’era fatta pungente, e bisognò che mangiassero in una delle due sale chiuse, dove l’umidità dell’inverno dava alle tovaglie una freschezza di bucato. Fin dalle sei le tavole non bastavano piú, perché tutti si affrettavano a cercare un po’ di posto: i camerieri non facevano che portar seggiole e panche, e raccostare le posate, ammucchiando quanta piú gente potessero. Cosí c’era da soffocare; e fecero aprire le finestre. Fuori il giorno cadeva: un crepuscolo verdastro scendeva dai pioppi cosí alla lesta, che il padrone, mal preparato ad avere tanta gente al coperto, in mancanza di lumi, dové far mettere una candela su ogni tavola. Il rumore assordiva; risate, chiamate, acciottolío di piatti: le candele sotto il vento che veniva dalle finestre tremolavano e si struggevano, e le farfalle notturne aleggiavano nell’aria riscaldata dall’odore dei cibi, ogni tanto attraversata da soffi gelati.

— Come si divertono, eh! — diceva Paolina tutt’assorta su certo pesce marinato ch’ella asseriva squisito.

Si chinò per aggiungere:

— L’avete visto voi, il signor Alberto, laggiú?

Era davvero il Lhomme in mezzo a tre donne: una vecchia col cappello giallo che aveva tutta l’aria di una mezzana, e due giovanissime, bambinucce di tredici o quattordici anni, senza fianchi, d’una sfacciataggine da sbalordire. Lui, di già ubriaco fradicio, dava del bicchiere sulla tavola e diceva di voler pigliare a scappellotti il [p. 206 modifica]cameriere se non portava dei liquori, subito, subitissimo.

— Questa sí ch’è una famiglia a modo! — riprese Paolina. — La mamma a Rambouillet, il babbo a Parigi, il figliuolo a Joinville! Cosí sono sicuri di non pestarsi i calli!

Dionisia, che odiava il frastuono, pur sorrideva, contenta di fuggire tra quel chiasso ai propri pensieri. Ma a un tratto nella stanza accanto ci fu un vocío che coprí ogni altro rumore. Urli, e poi schiaffi; si sentirono spintoni, seggiole andate per terra, una vera battaglia con le grida di dianzi:

— Abbasso i merciai!

— Abbasso gli sgobboni! abbasso!

E quando il vocione dell’oste ebbe calmata la zuffa, l’Hutin apparve. In camiciotto rosso, col berretto buttato all’indietro, teneva a braccetto la ragazza vestita di bianco, la timoniera, che portare i colori della lancia s’era ficcato un mazzo di papaveri sopra l’orecchio. Grida e applausi li accolsero; e lui era raggiante, e metteva il petto in fuori, dondolandosi al modo dei marinai, tutto contento d’un livido nero che un bel pugno gli aveva fatto sulla gota, perché cosí lo guardavano tutti. Veniva dietro a loro l’equipaggio. Una tavola fu presa d’assalto, il chiasso diventò terribile.

— Pare, — spiegò il Baugé, dopo aver ascoltati i discorsi che si facevano intorno a loro — pare che gli studenti abbiano riconosciuta quella donna ch’è con l’Hutin, una vecchia conoscenza del quartiere latino, che ora canta la sera in un caffè di Montmartre. E allora si son presi a pugni per lei... Gli studenti, si sa, non le pagano mai le donne! [p. 207 modifica]

— Sia quel che si vuole, disse Paolina un po’ agrodolce — è bruttina davvero con quei capelli color carota... Dove l’Hutin le vada a pescare, Dio lo sa: son tutte piú schifose una dell’altra.

Dionisia s’era fatta pallida. Si sentiva addosso un gelo, come se a goccia a goccia il sangue se ne fosse andato dal cuore. Di già, sulla riva, dinanzi alla lancia che passava, aveva rabbrividito; e ora non ne poteva dubitare, quella ragazza era l’amante dell’Hutin. Ma dunque ella amava quel giovinotto, se soffriva cosí? Nel turbamento doloroso delle sensazioni, ella non si rispondeva nemmeno: con la gola serrata, le mani tremanti, non mangiava piú.

— Ma che hai? — le domandò l’amica.

— Nulla... balbettò lei — mi fa male il caldo.

La tavola dell’Hutin era vicina, e non appena questi ebbe veduto il Baugé, che conosceva da un pezzo, cominciò a discorrergli ad alta voce per seguitare a tirarsi addosso l’attenzione della gente.

— Dite un po’, — gli gridò — al Buon Mercato, fate sempre i virtuosi?

— Non tanto! — rispose l’altro, rosso come il fuoco.

— Via, via, si sa, non si accettano che vergini, e c’è un confessionale sempre pronto perché i commessi, dopo averle guardate, si vadano a confessare... Un negozio dove si conchiudono dei matrimoni! tante grazie!

Scoppiaron risate. Il Liénard, ch’era anche lui della comitiva, aggiunse:

Al Louvre poi... C’è una levatrice addetta [p. 208 modifica]alla sezione delle «confezioni»; in parola d’onore!

Le risa raddoppiarono. Paolina essa pure non ne poteva piú dal ridere, tanto quell’idea della levatrice le pareva buffa. Ma il Baugé si offendeva degli scherzi sull’innocenza del suo negozio. E a un tratto non si contenne piú:

Avete un bel dire, voialtri del Paradiso... Vi scaraventano via per una mezza parola! E poi quel padrone che pare tiri con gli uncini le clienti...!

L’Hutin non gli dava piú retta, e faceva dei grandi elogi del magazzino sulla Piazza Clichy. Lui ci conosceva una ragazza tanto per bene, che le signore non avevano il coraggio di rivolgersi a lei, per paura di umiliarla. Accostò quindi la seggiola e le posate, e raccontò come quella settimana aveva messo insieme centoquindici franchi: che settimana ch’era stata! Il Favier era rimasto sui cinquantadue franchi; l’ordine segnato nella lavagna era andato tutto a gambe all’aria. E si vedeva, non è vero? Era zeppo di quattrini, l’Hutin: prima di andare a letto li voleva aver finiti sino a un centesimo. Sempre piú ubriaco, si mise allora a dire del Robineau, quel bel tipo dell’aiuto che voleva star sempre sulle sue e per la strada non si degnava di camminare accanto a uno dei suoi commessi. Tiriamo via per il capo, per il Bouthemont, per esempio; un capo doveva serbare intera la sua autorità. Ma il Robineau! Lui! L’educazione c’eran tanti che gliela potevano insegnare!

— Zitto, zitto! — disse il Liénard. — Chiacchieri un po’ troppo, caro mio!

Il caldo cresceva sempre, le candele si struggevano e colavano sulle tovaglie macchiate di [p. 209 modifica]vino; dalle finestre aperte, quando il rumore della gente a tavola faceva per un istante tregua, veniva una voce lontana, lunga, la voce del fiume e dei grandi pioppi che si addormentavano nella quiete notturna.

Il Baugé aveva chiesto il conto, vedendo che Dionisia continuava a sentirsi male, bianca come un cencio lavato, col mento convulso per le lacrime che tratteneva. Ma il cameriere non tornava piú, e bisognò tollerare ancora il vocío dell’Hutin. Ora badava a dire che lui valeva piú del Liénard, perché il Liénard s’infischiava di tutto e non faceva che mangiarsi i quattrini di suo padre, e lui invece si mangiava i quattrini che guadagnava col suo lavoro, il frutto della sua intelligenza. Quando Dio volle, il Baugé pagò, e le due donne gli tennero dietro.

— Quella lí è di sicuro del Louvre — mormorò Paolina nella prima stanza, guardando una ragazza sottile, che si metteva addosso il mantello.

— Ma se non la conosci, che ne sai tu? — rispose il Baugé.

— Già, è la maniera com’è vestita!... Sezione della levatrice, caro mio. E se ha capito, meglio per lei!

Erano all’aperto. Dionisia si sentí riavere. Aveva creduto di morire in quel caldo soffocante, in mezzo a quei gridi; e seguitava a dar la colpa alla mancanza d’aria. Ora almeno si respirava: dal cielo stellato pioveva una freschezza ravvivatrice. Mentre stavano per uscire dal giardino della trattoria, una voce timida sussurrò nel buio:

— Buona sera, signorina.

Era il Deloche. Non l’avevano visto, in fon[p. 210 modifica]do alla prima stanza, dove desinava solo solo dopo esser venuto da Parigi a piedi, tanto per svagarsi un po’. Nel riconoscere quella voce amica, Dionisia, che si sentiva mancare, cedé, senza pensarci, al bisogno d’un appoggio.

— Signor Deloche, tornate a Parigi con noi! — gli disse. — Datemi un po’ il braccio.

Paolina e il Baugé, che camminavano innanzi, stupirono. Non l’avrebbero creduto mai che la cosa sarebbe andata a finire a quel modo, e con quel torsolo lí! C’era un’ora alla partenza del treno, e andaron sino in fondo all’isolotto, lungo la riva, sotto i grandi alberi, e ogni poco si voltavano indietro e mormoravano:

— Dove sono? Ah! eccoli!... E curiosa, proprio curiosa!

Dionisia e il Deloche per un po’ erano stati zitti. Il frastuono della trattoria s’andava smorzando, e nel fondo della notte prendeva una dolcezza di musica; ed essi s’addentravano sempre piú nel freddo degli alberi per cacciarsi da dosso la febbre di quella fornace, della quale i lumi ad uno ad uno si spegnevano dietro le foglie. Avanti a loro s’alzava quasi un muro di tenebre, una massa d’ombra in cui i tronchi, i rami, si confondevano, tanto fitti che non lasciavano scorgere nemmeno piú la traccia del sentiero. Eppure le coppie seguitavano adagio adagio, senza paura. Poi i loro occhi si avvezzarono a quel buio, e videro a destra i tronchi dei pioppi simili a scure colonne che sopportavano le cupole dei loro rami tra i quali luccicavano le stelle, e a sinistra il fiume che di tanto in tanto splendeva nel buio come uno specchio di stagno. Il vento s’era calmato: non si sentiva piú che il fruscio dell’acqua. [p. 211 modifica]

— Quanto son contento di avervi trovata! — balbettò alla fine il Deloche, che si risolse a parlare per il primo. — Se sapeste che piacere mi avete fatto a permettermi di passeggiare con voi!

E, con l’aiuto delle tenebre, dopo assai parole imbrogliate, osò confessarle che l’amava. Era un bel pezzo che glielo voleva scrivere; ma forse lei non l’avrebbe saputo mai, se non fosse stata quella bella serata ad aiutarlo, quell’acqua che cantava e quegli alberi che li coprivano col mantello delle foglie.

Dionisia non rispondeva; seguitava a camminare al suo braccio, come se si sentisse male.

Il Deloche cercava di guardarla in viso, quando udí un leggiero singhiozzo:

— Dio mio! voi piangete, signorina, voi piangete!... Sono stato forse io?

— No, no... — mormorò lei.

Cercava di trattenere le lacrime, ma non ci riusciva. Anche a tavola aveva creduto che le si spezzasse il cuore; ed ora in quell’ombra si lasciò andare; i singhiozzi la soffocavano al pensiero che, se l’Hutin si fosse trovato lí, invece del Deloche, e le avesse dette quelle parole, non avrebbe saputo resistergli. La confessione che finalmente ella faceva a se stessa, la turbava stranamente. Ardeva di vergogna come se sotto quegli alberi ella fosse caduta nelle braccia a quel bellimbusto, che godeva del pavoneggiarsi tra quelle baldracche.

— Ma io non vi volevo mica offendere! — ripeté il Deloche che aveva le lagrime agli occhi anche lui.

— No, sentite — disse lei con voce ancora tremante; — non è che io sia arrabbiata con voi. [p. 212 modifica]Ma, ve ne prego, non mi parlate piú in quel modo. Ciò che volete voi, è impossibile. Oh! voi siete un giovane a modo, ed io voglio essere vostra amica, ma nulla di piú... Avete capito? Vostra amica!

Il Deloche tremava tutto. Fece qualche passo senza aprir bocca, poi balbettò:

— Ma, dunque, non mi volete bene, voi?

E accorgendosi ch’essa non gli rispondeva per risparmiargli il dolore d’un no brutale, riprese con voce dolce e piena di pianto:

— Me lo dovevo aspettare; me l’aspettavo... Non ne ho mai azzeccata una, io; lo so che non sarò mai felice. In casa mia mi picchiavano; a Parigi me n’hanno sempre fatte di tutte. Vedete: quando uno non è capace di rubare le amanti agli altri, ed è tanto bestia da non riescire a guadagnare quanto loro, dovrebbe andare subito in un cantuccio a crepare lí solo solo... Non abbiate paura, non vi tormenterò piú. Ma quanto poi a volervi bene, non me lo potete impedire. Vi amerò tacendo, come un cane... Eccola qui la mia sorte: per me in questo mondo non c’è mai nulla!

E anche lui diè in uno scoppio di pianto. Dionisia prese a confortarlo; e nella loro commozione seppero ch’erano delle stesse parti; lei di Valognes, lui di Briquebec, dieci chilometri piú in là. Anche quella fu una ragione d’essere amici. Il babbo di lui, che faceva l’usciere, povero in canna e roso dalla gelosia, lo picchiava dandogli del bastardo, arrabbiato per quella sua persona lunga e pallida e per quei capelli di canapa, che, diceva, non erano roba di casa. Di discorso in discorso, giunsero a parlare dei grandi prati con attorno siepi vive, dei sentieri che [p. 213 modifica]si perdono sotto gli olmi, coperti dai rami, delle strade folte d’erba come i viali d’un parco. Intorno a loro la notte si faceva anche men folta: distinguevano i giunchi della riva, il contorno delle ombre che spiccava nero sul luccichio delle stelle, e nella pace che scendeva negli animi loro dimenticavano i dispiaceri, stretti insieme dalla comune sfortuna in un’amicizia da buoni compagni.

— Dunque? — domandò vivamente Paolina a Dionisia, tirandola da parte quando furono dinanzi alla stazione.

La giovinetta, al sorriso e al tono d’affettuosa curiosità, capí. Diventò rossa rossa:

— Ma no! Se vi ho detto che non volevo!... È del mio paese, si discorreva di Valognes.

Paolina e il Baugé restarono senza saper che pensarne, sentendo false le loro supposizioni. Il Deloche se n’andò, giunti che furono in piazza della Bastiglia: anche lui, come tutti i giovinotti «alla pari», dormiva nel magazzino, e vi doveva essere alle undici. Per non tornare con lui, Dionisia, che s’era fatta dare un permesso pel teatro, consentí ad accompagnare Paolina dal Baugé, il quale, per esser piú vicino alla sua bella, era venuto a star di casa in Via San Rocco. Presero un legno, e Dionisia stupí quando per la strada seppe che l’amica sua avrebbe passata la notte col giovinotto. Era una cosa da nulla: bastava dare cinque franchi alla Cabin; tutte le ragazze se n’approfittavano. Il Baugé fece gli onori della sua stanza ammobiliata con certa roba vecchia di stile Impero, che gli aveva mandata suo padre. Quando Dionisia volle fare i conti, andò sulle furie; poi finí coll’accettare i quindici franchi e sessanta, ch’ella aveva posati [p. 214 modifica]sul cassettone. Ma volle allora offrirle un po’ di tè, si diede da fare intorno al fornello a spirito, e dove andar fuori a comprare lo zucchero; sonava la mezzanotte quando lo mescé nelle tazze.

— Bisogna che me ne vada — ripeteva Dionisia.

E Paolina rispondeva:

— Ora... I teatri non si chiudono tanto presto!

Dionisia in quella stanza da scapolo si sentiva imbarazzata. Aveva veduta l’amica mettersi in sottana e sottovita, e stava guardandola mentre l’altra preparava il letto, tirava giú la coperta, picchiava sui guanciali con le braccia nude. E quell’apparecchiamento d’una notte d’amore, fatto sotto i suoi occhi, la faceva vergognare, risvegliandole nel cuore ferito il ricordo dell’Hutin. Anche in quel punto, si sarebbe sentita mancare la forza. Tali giornate non eran davvero fatte per la salute. Finalmente, a mezzanotte e un quarto, se n’andò. Ma andò via confusa, perché al suo innocente buona notte, Paolina rispose storditamente:

— Grazie! la nottata sarà buona di certo!

L’uscio particolare che conduceva all’appartamento del Mouret e alle camere degl’impiegati, era in Via Nuova Sant’Agostino. La Cabin tirava il cordone e poi dava un’occhiata per segnare quelle che tornavano. Una lampada era accesa al pianterreno. Dionisia in quella luce incerta si sentí inquieta, perché nello svoltare dall’angolo della strada aveva veduta la porta che si richiudeva dietro l’ombra di un uomo. Doveva essere il padrone che tornava da una serata; e l’idea ch’egli fosse là al buio, forse anche ad aspettarla, le metteva addosso una paura strana, [p. 215 modifica]che la rimescolava tutta, senza una ragione al mondo. Qualcuno si mosse al primo piano; delle scarpe scricchiolarono; allora perdé la testa, e un uscio che dava sul magazzino e che laspinse sciavano aperto per le ronde di sorveglianza. Si trovò nella sezione delle tele dipinte.

— Dio mio! Che fare? — mormorò lei ad alta voce, commossa com’era.

Pensò che all’ultimo piano c’era un altro uscio che dava sulle stanze: ma bisognava traversare tutto il magazzino. Per quanto ci fosse dappertutto un gran buio, preferí far quella strada. Il gas era spento; non c’erano che dei lumi a olio qua e là attaccati ai bracci delle lumiere; e quelle luci sparse, simili a macchie gialle, e senza raggi, in tanta profondità delle tenebre, parevanoi lanternini che stanno nelle miniere. Grandi ombre fluttuavano; i mucchi delle mercanzie prendevano mal distinti aspetti da far paura, colonne rovinate, bestie accovacciate, ladri in agguato. Il silenzio pesante e rotto da lontani respiri, faceva apparire anche piú grandi le tenebre. Nondimeno riuscí ad orientarsi: la biancheria, a sinistra, somigliava nel suo candore a una fila di case sotto il cielo estivo; ed ella pensò allora di traversare subito la gran sala; ma inciampò in certi mucchi d’indiana, e le parve piú sicuro seguitare per i berretti e le lane. Quando fu là, sentí russare ed ebbe paura; era Giuseppe, il garzone che dormiva dietro la roba da lutto. Fu lesta a buttarsi nella sala che la vetriata rischiarava d’una luce crepuscolare: era piú grande, e piena del notturno terrore delle chiese, con quella immobilità degli scaffali e il profilo dei grandi metri che sembravano croci rovesciate. Cominciò addirittura a scappare. Al[p. 216 modifica]le mercerie, ai guanti, dové scavalcare un altro garzone, e si credé in salvo soltanto quando alla fine trovò la scala. Ma quando fu in cima, davanti alla sua sezione, fu assalita da un tremito nel vedere una lanterna che camminava oscillando: era una ronda; due pompieri, a mano a mano che andavano innanzi, segnavano il loro passaggio sui quadranti degli indicatori. Rimase un istante senza capirci nulla; e li vide tirar di lungo dagli scialli alla mobilia e poi alla biancheria fine: spaventata da quel loro giro, dallo stridere della chiave, e dagli sportelli metallici che facevano un rumore sinistro. Quando furono vicini, si rifugiò in fondo alla sala delle trine; ma un chi va là improvviso la fece subito scappare, e correre fino all’uscio di comunicazione. Aveva riconosciuta la voce del Deloche che stava la notte nella sua sezione in una branda che si preparava da sé tutte le sere. Egli ancora non dormiva, rivivendo ad occhi aperti le dolci ore della serata.

— Come! siete voi, signorina? — disse il Mouret che Dionisia si trovò davanti, sulla scala, con un lumicino da tasca in mano.

Balbettò qualche parola, volle spiegare che era andata nella sezione a cercarvi della roba. Ma il Mouret non era arrabbiato, e la guardava con un aspetto paterno insieme e curioso.

— Avete avuto un permesso per il teatro?

— Sí, signore.

— Vi siete divertita?... A che teatro siete stata?

— Sono andata in campagna.

L’altro non poté a meno di sorridere. Poi ridimandò calcando sulla parola:

— Sola? [p. 217 modifica]

— No, con un’amica — rispose, e aveva le gote rosse come il fuoco, vergognandosi di ciò che egli doveva supporre.

Allora il Mouret non disse altro. Ma seguitò a guardarla, nel suo vestituccio nero, con quel cappellino guarnito d’un nastro azzurro soltanto. Che proprio quella selvaggia avesse a finire col diventare bellina? Dionisia aveva ancora addosso il profumo raccolto nella scampagnata all’aria aperta, ed era graziosa con i suoi bei capelli che le carezzavano capricciosi la fronte. E lui, che da sei mesi la trattava da bambina, e che qualche volta le dava dei consigli cedendo alla propria esperienza e al maligno desiderio di vedere come una donna cresce e si perde a Parigi, non rideva ora piú, provando uno strano sentimento di sorpresa e di timore, con un po’ di tenerezza. Doveva essere un amante che la faceva diventare cosí carina! E pensando ciò, gli parve che un certo uccellino, già suo grato passatempo, lo beccasse forte, da fargli uscire il sangue.

— Buona notte! — mormorò Dionisia, continuando a salire, senza aspettare piú oltre.

Egli non rispose, e la stette a guardare finché sparí. Allora, andò in camera sua.