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il paradiso delle signore

vino; dalle finestre aperte, quando il rumore della gente a tavola faceva per un istante tregua, veniva una voce lontana, lunga, la voce del fiume e dei grandi pioppi che si addormentavano nella quiete notturna.

Il Baugé aveva chiesto il conto, vedendo che Dionisia continuava a sentirsi male, bianca come un cencio lavato, col mento convulso per le lacrime che tratteneva. Ma il cameriere non tornava piú, e bisognò tollerare ancora il vocío dell’Hutin. Ora badava a dire che lui valeva piú del Liénard, perché il Liénard s’infischiava di tutto e non faceva che mangiarsi i quattrini di suo padre, e lui invece si mangiava i quattrini che guadagnava col suo lavoro, il frutto della sua intelligenza. Quando Dio volle, il Baugé pagò, e le due donne gli tennero dietro.

— Quella lí è di sicuro del Louvre — mormorò Paolina nella prima stanza, guardando una ragazza sottile, che si metteva addosso il mantello.

— Ma se non la conosci, che ne sai tu? — rispose il Baugé.

— Già, è la maniera com’è vestita!... Sezione della levatrice, caro mio. E se ha capito, meglio per lei!

Erano all’aperto. Dionisia si sentí riavere. Aveva creduto di morire in quel caldo soffocante, in mezzo a quei gridi; e seguitava a dar la colpa alla mancanza d’aria. Ora almeno si respirava: dal cielo stellato pioveva una freschezza ravvivatrice. Mentre stavano per uscire dal giardino della trattoria, una voce timida sussurrò nel buio:

— Buona sera, signorina.

Era il Deloche. Non l’avevano visto, in fon-


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