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il paradiso delle signore

vano le braccia a segno che durò un mese e mezzo a gemere la notte contorcendosi, piegata in due e con le spalle indolenzite. Ma soffrí anche piú per le scarpe; certi scarponi portati da Valognes e che non poteva, non avendo i quattrini, sostituire con un paio di stivaletti leggieri. Sempre ritta, camminando dalla mattina alla sera, sgridata se la vedevano appoggiarsi un momento, aveva i piedi gonfi, piedini da bimba che parevano stritolati dentro a macchine di tortura: i calcagni le ardevano di febbre, la pianta s’era coperta di vesciche delle quali la pelle strappata restava attaccata alle calze. Il corpo intero era tutto un dolore per quella stanchezza delle gambe: e gli sconcerti che il sesso pativa, si palesavano di tanto in tanto nel pallore delle carni. E cosí delicata, cosí rifinita, pur resisté, mentre molte ragazze intorno a lei dovevano andarsene per malattie cagionate da quella vita. Il suo coraggio a soffrire, l’ostinatezza a volerla spuntare, la tenevan su, e la facevano ancora sorridere quando stava per svenire, spossata da un lavoro cui non tutti gli uomini avrebbero potuto resistere.

La tormentava inoltre la persecuzione delle compagne che si aggiungeva al martirio del corpo. Dopo due mesi di pazienza e di dolcezza, non le aveva disarmate ancora. Erano ogni giorno parole mordaci, crudeli invenzioni, un abbandono che, bisognosa com’era d’affetto, la feriva nel cuore. Durarono un pezzo a canzonarla per la sua prima vendita; la chiamavano «rapa» e «ciabattona»; quand’una non riesciva a contentare una cliente la mandavano «a Valognes»; passava, insomma, per la bestia della sezione. Poi, quando si mostrò bravissima a vendere,


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