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il paradiso delle signore

caffè di Montmartre dove si sonava e cantava, e si portavano dietro i compagni, acclamando a gran furia la signorina Laura, una robusta cantante che era l’ultima conquista dell’Hutin, con tanto picchiare di mazze e con grida tali, che la polizia aveva già dovuto intervenire due volte. L’inverno passò cosí. Dionisia ebbe alla fine trecento franchi di stipendio fisso. Era tempo; gli scarponi non ne potevano piú. L’ultimo mese aveva cercato perfino d’andar fuori il meno possibile, per non perderli sulla strada.

— Ma Dio santo! signorina, fate un rumore con quelle vostre scarpe! — ripeteva spesso la signora Aurelia con aria acerba. — Non se ne può piú... Ma che ci avete ai piedi?

Quando Dionisia scese nella sezione con gli stivaletti di stoffa che aveva pagati cinque franchi, Margherita e Clara ne fecero a mezza voce le meraviglie, in modo però da essere sentite.

— To’! la scarruffata non ha piú le ciabattacce! — disse l’una.

— Chi sa — rispose l’altra quanto ha dovuto piangere!... Erano un ricordo di famiglia, le scarpe della mamma.

Allora, si riattizzarono da tutte le parti le ire contro Dionisia. La sezione s’era finalmente accorta della sua amicizia con Paolina, e ci vedeva una sfida in quell’affezione per una ragazza della sezione nemica. Non la finivano piú, parlavano di tradimento, l’accusavano di far la spia d’ogni minima parola. La battaglia tra la «biancheria » e le «< confezioni»> ne prese nuova violenza; non era mai stata cosí accanita. Furono scambiate parole che parevano proiettili, e una sera, dietro le scatole delle camicie, si sentí perfino uno schiaffo. Forse l’antica lite dipendeva


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