Il paradiso delle signore/4
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Traduzione dal francese di Ferdinando Martini, Guido Mazzoni (1936)
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IV
Per questo, Il Paradiso delle signore fin dalle otto splendeva ai raggi di quel bel sole nella gloria della sua grande vendita delle «novità da inverno». Le bandiere sulla porta e le pezze di lana in mostra si agitavano all’aria fresca del mattino, animando la Piazza Gaillon d’un tramestio da fiera, mentre sulle due strade le vetrine ostentavano la varietà delle merci, che dietro i cristalli lucidissimi parevano ancor piú vivaci e belle. Era quasi un’orgia di colori, un’ebrezza che irrompeva nella via, un monte di roba ammucchiato perché tutti ne godessero, se non altro, con gli occhi.
Ma a quell’ora entrava poca gente: qualche affaccendata cliente di tanto in tanto, qualche massaia del vicinato, qualche signora che non osava avventurarsi nel pigia pigia delle ore pomeridiane. Dietro le stoffe che lo imbandieravano, s’indovinava il magazzino spopolato ma pronto a ricevere gli avventori, col pavimento ben lustro, gli scaffali riboccanti di mercanzie. La gente mattiniera, tutta in faccende, dava pena un’occhiata alle vetrine e passava senza nemmeno rallentare il passo. In Via Nuova di Sant’Agostino e in Piazza Gaillon, dove le carrozze dovevano mettersi in fila, non c’erano alle nove che due legni. Quei del quartiere soltanto, specie i negozianti sbalorditi da una tal di pennacchi e di bandiere, si radunavano a gruppi sotto le porte, sulle cantonate, col naso all’aria, sfogandosi in acri commenti. Li sdegnava principalmente un carrozzino fermo davanti all’ufficio delle spedizioni in Via della Michodière; uno dei quattro che il Mouret aveva cominciato a mandare in giro per Parigi: carrozzini tinti di verde con risalti gialli e rossi, che, inverniciati ben bene, mandavano, sotto i raggi del sole, lampi d’oro e di porpora. Quello ch’era lí, nuovo di zecca, col nome del negozio su tutte le parti, e con sopra un cartellone che annunziava la grande apertura della vendita, se n’andò tirato al trotto da un bel cavallo, subito ch’ebbero finito di caricarlo degli involti avanzati dal giorno prima. E il Baudu che sull’uscio del Vecchio Elbeuf stava a guardare livido livido, vide andar via a passeggiare splendidamente per tutta la città quel nome abborrito del Paradiso delle signore.
Cominciavano intanto ad arrivare dei legni, e si mettevano in fila. Ogni volta che una signora entrava, c’era un movimento tra i garzoni del magazzino, allineati nell’androne, con la livrea d’un verde chiaro nella giacchetta e nei calzoni e col panciotto a righe gialle e rosse. E l’ispettore Jouve, vecchio capitano pensionato, se ne stava là dritto in soprabito e cravatta bianca, con la sua medaglia, come una mostra di vecchia onestà, e accoglieva le signore con aria gravemente cortese, chinandosi verso loro per indicare le sezioni. Le signore sparivano nel vestibolo mutato in salotto all’orientale.
Fin dalla soglia, colpiva una meraviglia improvvisa, un’estasi, un rapimento. Era stata un’idea del Mouret. Pochi giorni innanzi aveva comprato in Oriente, a bonissimo patto, una collezione di tappeti antichi e nobili, di quei tappeti rari che fin allora si trovavano soltanto dai negozianti di curiosità e si pagavano un occhio: lui, invece, stava per inondarne il mercato, dandoli via quasi a prezzo di costo, contento di cavarne uno splendido addobbo che gli avrebbe attratto da sé solo nel magazzino l’alta clientela della gente di buon gusto.
Quel salotto orientale si vedeva fin dal mezzo della Piazza Gaillon: era tutto tappeti e portiere, disposti dai garzoni secondo ch’egli aveva ordinato. Nel soffitto, tesi, dei tappeti di Smirne, col fondo rosso, a disegni intricatissimi:
poi dalle pareti pendevano le portiere; quelle di Karamania e di Siria, a zig-zag verdi, gialli e rossi; quelle di Diarbekir piú comuni, rozze al tatto come una saia da pastore; e poi tappeti che potevano fare anche da portiere e da tende, i lunghi tappeti di Hispahan, di Teheran, di Kermancia, quelli piú larghi di Sciumaka e di Madras, strana fioritura di peonie e di palme fantasia trascorrente a briglia sciolta nel giardino dei sogni. Per terra, ricominciavano i tappeti della Mecca coi loro riflessi di velluto, i tappeti da preghiera del Daghestan con i loro simboli, i tappeti del Kurdistan chiazzati, per cosí dire, di fiori sbocciati; finalmente, in un canto, un mucchio di tappeti di Gheurdes, di Cula e di Kircheer, dati quasi per nulla, dai quindici franchi in su. Pareva una tenda da pascià; ed era ammobiliata di poltrone e divani fatti con sacche da cammello, alcuni variopinti a losanghe, altri con rose, disegnate e colorite con piacevole ingenuità. La Turchia, l’Arabia, la Persia, l’India, s’eran date convegno; dovevano avere votato palazzi, devastato moschee e bazar. Nei tappeti antichi sbiaditi predominava il colore dell’oro rosso; ma pur nelle loro tinte impallidite conservavano un calore cupo, quasi di fornace spenta, e un bel colore da ceramica di antico maestro. E visioni orientali ondeggiavano sul lusso di quell’arte barbara, tra gli odori acri che le vecchie lane avean portati seco dalla terra degl’insetti e del sole.
Quando Dionisia, alle otto, traversò la sala orientale per cominciare la sua prima giornata, dallo stupore non riconobbe piú l’ingresso del magazzino, e tra quell’addobbo da harem, proprio lí sulla porta, finí col perdere la testa. Un garzone la condusse nelle soffitte, e la consegnò alla signora Cabin, addetta alla pulizia e alla sorveglianza delle camere: fu messa al numero 7, dove già avevan mandata la sua valigetta.
Era una stanzuccia che dava sul tetto per una finestra a botola, con un letticciuolo, un armadio, una toeletta e due seggiole. Altre diciannove camere simili a quella stavano, come nei conventi, in fila sul corridoio tinto di giallo: là dormivano le venti ragazze del magazzino che non avevano famiglia a Parigi; le altre quindici dimoravano fuori, da una zia o da una cugina, supposte...
Dionisia si levò subito il vestito di lana consunto a forza di spazzolarlo e rammendato nelle maniche, l’unico che avesse portato via da Valognes. Poi si mise l’uniforme della sua sezione, un vestito di seta nera che le avevano adattato alla meglio e che l’aspettava steso sul letto. Le era ancora un po’ grande e troppo largo di spalle: ma, commossa com’era, fece tanto presto, che non badò nemmeno a quelle piccolezze. Non aveva mai avuto un vestito di seta; e quando scese, tutta in gala, non sapendo che dire e che fare, nel vedere il lucido della sottana e sentirne il fruscio, quasi se ne vergognava.
Quando fu per entrare nella sezione, udí un battibecco. Clara diceva con la sua voce stridula:
— Sono arrivata prima io!
Non è vero, — rispondeva Margherita — m’ha dato uno spintone sull’uscio; ma il piede l’avevo di già nella sala.
Leticavano per l’ordine della vendita. Le ragazze, a mano a mano che arrivavano, scrivevano il nome sopra una lavagna; e via via che una aveva servito una cliente, riscriveva il suo nome dietro a quello delle altre. La signora Aurelia diede ragione a Margherita.
— Sempre queste angherie! — borbottò piena di rabbia Clara.
Ma l’arrivo di Dionisia riconciliò le ragazze; la guardarono e sorrisero. Come aveva fatto a rinfagottarsi in quel modo?
La giovinetta andò goffamente a iscriversi sulla lavagna, e fu l’ultima. La signora Aurelia la guardava intanto inquieta: né poté trattenersi dal dirle:
— Ma, figliuola mia, in codesto vestito ce n’entrerebbero due! Bisognerà che lo restringiate... E poi non vi sapete vestire. Venite qui, che vi accomodi un po’ io.
E se la condusse davanti a uno dei grandi specchi che si alternavano con gli sportelli degli armadi dove stavan chiusi i vestiti bell’e fatti. Quella stanzona, tutta a specchi e a mobili di quercia scolpita, parata di stoffa rossa a grandi fiorami, rassomigliava alla sala d’un albergo in cui non smetta mai l’andirivieni dei forestieri. E la somiglianza era fatta maggiore dalle ragazze vestite, secondo il regolamento, di seta, e costrette ad andare sempre su e giú con una grazia che non era meno d’obbligo della seta, senza mai potersi mettere a sedere sulle dodici seggiole riservate soltanto alle clienti. Avevan tutte, tra un bottone e l’altro del giacchettino, come infisso nel petto, un gran lapis che metteva fuori la punta; e si vedeva mezzo fuori d’una tasca il bianco d’un libretto per le fatture. Alcune erano adorne di gioielli, anelli, spilloni, catene; ma la civetteria piú grande, il lusso che nella uniformità dei vestiti dava loro un modo di gareggiare, erano i capelli; accresciuti, quando non bastavano, da trecce false e chignons, sempre pettinati, lisciati, messi in mostra.
— Tiratevi un po’ giú la cintola! — ripeteva la signora Aurelia. — Non vedete che almeno ora la gobba nelle spalle non ce l’avete piú?... Ei capelli come si fa ad assassinarli in questo modo? Se li curaste, sarebbero bellissimi.
Erano veramente la sola bellezza di Dionisia; biondi d’un biondo cinereo, le cadevano fino quasi al collo del piede; e quando si metteva qualche cosa in testa le davano tanta noia, che si accontentava di ravvolgerseli e rattenerli arrocchiati con i forti denti d’un pettine di corno. Clara, cui quei capelli indispettivano assai, affettava di ridere, tanto erano male annodati nella loro grazia selvaggia. Con un gesto aveva chiamata una ragazza della sezione della biancheria, volgare ma non spiacevole. Le due sezioni, che erano accanto, non finivano mai di farsi la guerra; salvo che, qualche volta, le ragazze si mettevan d’accordo per canzonare la gente.
— Signora Paolina, guardi un po’ che criniera! — ripeteva Clara, cui Margherita dava del gomito incitandola, e fingendo anch’essa di non poterne più dal ridere.
Ma Paolina non aveva voglia di scherzare; s’era messa a guardare Dionisia e si rammentava di quanto avea sofferto anche lei, i primi mesi, nella propria sezione.
— Che c’è? — diss’ella. — Non l’hanno mica tutte quella criniera lì!
E voltò le spalle alle altre due, che ci rimasero male. Dionisia aveva sentito e le tenne dietro con un’occhiata di ringraziamento, mentre la signora Aurelia le dava un libretto per le fatture, col suo nome, dicendole:
— Domani vi accomoderete un po’ meglio... Ed ora cercate di pigliare gli usi della casa; aspettate che tocchi a voi. Oggi sarà una giornata di molto lavoro, e si vedrà che cosa sapete fare.
Ma la sezione era ancora deserta; a quell’ora eran poche le clienti che salivano al «vestiario». E le ragazze, dritte e lente, badavano a non stancarsi, per esser fresche alle fatiche del pomeriggio.
Allora Dionisia, intimorita dal pensiero che tutte aspettavano impazienti di vedere com’ella avrebbe incominciato, temperò il lapis, tanto per far qualche cosa; poi, imitando le altre, se lo mise tra un bottone e l’altro sul petto. Si faceva coraggio da sé: bisognava che il suo posto se lo conquistasse. Le avevano detto, il giorno innanzi, ch’ella entrava «alla pari», vale a dire senza stipendio fisso; avrebbe avuto solamente il tanto per cento sulle vendite. Ma sperava d’arrivare anche così a milleduecento franchi, perché sapeva che quelle brave ne buscavano fino a duemila, per poco che ci si mettessero sul serio. Aveva già fatto i conti; con cento franchi al mese avrebbe potuto pagare la pensione di Beppino, mantenere Gianni che ancora non guadagnava un soldo, e mangiare lei stessa, e comprarsi un po’ di biancheria, e qualche vestito. Ma per intascare quel tanto, bisognava che si mostrasse forte e laboriosa, senza mai prendersela dei dispetti che le venissero fatti; bisognava che combattesse e strappasse la sua parte alle compagne, se gliela negavano. Mentre cosí s’incitava alla lotta, un giovanotto che passava le sorrise; e quando ella ebbe riconosciuto il Deloche, che il giorno innanzi era entrato nella sezione delle trine, gli fece un sorriso anche lei, contenta dell’amicizia che aveva trovato, e pigliando il saluto per un buon augurio.
Alle nove e mezzo la campanella aveva sonato per la colazione della prima tavolata; poi sonò per la seconda. E le clienti non venivano ancora. La vicedirettrice, la signora Frédéric, che nella sua annoiata rigidità di vedova si divertiva pensando a un disastro, giurava con frasi secche che ormai la giornata era bell’e ita: non sarebbe venuto nemmeno un cane: tant’era chiudere gli armadi e andarsene. La predizione faceva oscurare il viso volgare di Margherita, cupidissima del guadagno; Clara, invece, la cavalla scappata, pensava già a una bella gita nel bosco di Verrières, dato che il magazzino andasse a rotoli. La bella signora Aurelia, poi, muta, grave, passeggiava per la vuota sezione con suo volto da Cesare, come un generale che ha la sua parte di responsabilità nella vittoria o nella sconfitta.
Verso le undici entrarono alcune signore. La volta di Dionisia stava per venire, ed ecco apparve una cliente.
— Quella provincialona, figliuole, — mormorò Margherita.
Era una donna sui quarantacinque anni, che di tanto in tanto veniva a Parigi da qualche lontano dipartimento. Durava dei mesi a metter da parte soldi; poi, scesa dal treno, piombava subito al Paradiso, e si votava le tasche. Di rado scriveva; perché voleva vedere da sé, voleva toccare da sé le mercanzie; e faceva a Parigi perfino delle provviste d’aghi, perché, diceva lei, nella sua cittaduzza costavano un occhio. La conoscevano tutti, nel magazzino; sapevano che si chiamava la signora Boutarel e che stava ad Albi; senza, del resto, che importasse a nessuno saper chi era né se aveva denari.
— Sta bene, signora? — domandò garbatamente la signora Aurelia che se l’era fatta innanzi. — Che cosa desidera? Siamo subito da lei!
Poi, volgendosi:
— Signorine...
Dionisia si avvicinava, ma Clara s’era precipitata. Di solito era infingarda, poco importandole del denaro, perché fuori ne guadagnava di piú e senza tanta fatica. Ma l’idea di rubare una buona cliente alla nuova venuta, la faceva correre.
— Scusi, tocca a me! — disse Dionisia indignata.
La signora Aurelia la fece scansare con un’occhiata severa, mormorando: — Qui non c’è turno fisso: per vostra regola, comando io; aspettate d’avere imparato, prima di servire le signore che si conoscono.
La giovinetta si fece addietro, ma, sentendo che le lacrime che salivano agli occhi, volle nascondere la commozione, e volse le spalle standosene ai vetri come se guardasse la gente che passava. Ah, dunque le volevano impedire di vendere? Eran tutte d’accordo, dunque, a rubarle le vendite grosse? Si sentiva come stretta e schiacciata fra le tante avidità sguinzagliate, e la coglieva paura dell’avvenire. Cedendo all’amarezza dell’abbandono, con la fronte appoggiata sui vetri freddi, guardava, di faccia, il Vecchio Elbeuf, e pensava che avrebbe fatto meglio a supplicare lo zio di tenerla con sé; chi sa che anch’egli non desiderasse tornare indietro! La sera innanzi le era sembrato commosso sul serio. Ed ora si sentiva sola sola in quella grande casa, dove non c’era nessuno che le volesse bene, e dove si trovava offesa e smarrita. Beppino e Gianni vivevano con degli estranei; e dire che non s’erano fin allora staccati mai dalle sue gonnelle! Si sentiva spezzare il cuore, e due grosse lacrime che ratteneva le facevano ballare dinanzi la via come in una nebbia.
Dietro a lei, in quel mentre, un ronzio di voci.
— Questo mi fa troppo goffa! — diceva la signora Boutarel.
— Scusi signora, ha torto, — ripeteva Clara — Le spalle stanno stupendamente... Se pure non preferisce una pelliccia o un mantello.
Ma Dionisia trasalì. Una mano le s’era posata sul braccio: la signora Aurelia la sgridava:
— Oh! che fate? state lì a guardare la gente che passa e non movete.... Oh! a questo modo non si può mica andare!
— Una volta che non devo vendere...
— Per voi c’è tante altre cose da fare. Cominciate un po’ dal principio... Ripiegate la roba.
Per contentare le poche clienti ch’erano venute, avevan già dovuto buttare all’aria tutti gli armadi: e sulle due lunghe tavole di quercia, a destra e sinistra della stanza, si ammucchiavano mantelli, pellicce, cappe, vestiti d’ogni sorta e d’ogni stoffa. Senza rispondere, Dionisia si mise a scegliere, a ripiegare, a riporre negli armadi. Era il lavoro delle principianti. Non si lagnò piú, sapendo che lí bisognava sempre obbedire passivamente, ed aspettò che la direttrice volesse lasciarla vendere, come da principio pareva ne avesse voglia. E continuava a ripiegare, quando comparve il Mouret. Si sentí dare una scossa senza sapere il perché, e si fece rossa; credendo ch’egli stesse per parlarle, si sentí ripresa dalla sua strana paura. Ma il Mouret non la vedeva nemmeno: non si rammentava nemmeno piú di quella ragazza che l’impressione graziosa di un minuto lo aveva indotto a proteggere.
— Signora Aurelia! — chiamò seccamente.
Era un po’ pallido, ma non sempre con lo sguardo chiaro e risoluto. Nel fare il giro delle sezioni le aveva trovate deserte, e la probabilità d’una sconfitta gli s’era bruscamente presentata nel pieno della sua fede assoluta nella fortuna. Le undici, è vero, sonavano in quel punto, e lui sapeva, per esperienza, che là il grosso degli avventori non arrivava se non dopo mezzogiorno. Ma c’erano dei segni che lo turbavano. Le altre volte, fin dalla mattina, cominciava il lavoro, né si vedevano donne senza niente in capo che stando da quelle parti venivano nel negozio come buone vicine. Sebbene fosse lo scettico ch’era, anche lui, come tutti i grandi capitani sul punto di cominciare la battaglia, si sentiva preso da un’ansia superstiziosa. S’immaginava che non ci fosse oramai piú speranza e ch’egli sarebbe sconfitto senza nemmeno sapere come né perché. Gli pareva di leggere la sua condanna perfino sul viso delle signore che passavano.
E proprio in quel momento la Boutarel, la quale non c’era caso andasse via a mani vuote, faceva atto di partire dicendo:
— No, no, non c’è nulla che mi vada. Vedrò e mi risolverò.
Il Mouret le guardò dietro; poi, accorsa alla sua chiamata la signora Aurelia, la prese da parte e si dissero in fretta poche parole.
Ella fece un gesto quasi di desolazione: e da quel gesto si capí facilmente ciò che diceva: le cose andavano male. Per un po’ restarono l’uno rimpetto all’altra; il Mouret seguitava ad angustiarsi in quei timori che i generali dissimulano innanzi ai soldati. Finalmente, quasi fosse sicuro di sé, disse a voce alta:
— Se mai aveste bisogno di gente, prendete una ragazza nel laboratorio... Una mano ve la darà anche lei.
Seguitò disperato l’ispezione. Fin dalla mattina scansava il Bourdoncle, che con le sue inquietudini e riflessioni lo faceva stizzire. Ma nell’uscire dalla sezione della biancheria, dove non si vendeva proprio nulla, s’imbatté in lui, e gli toccò sentirne i soliti sfoghi. Allora lo mandò al diavolo con la durezza villana che nei cattivi quarti d’ora non risparmiava neppure ai piú alti impiegati.
— Fatemi un po’ il piacere di levarvi tre passi... Tutto va benone: e chi ha paura lo metterò a pedate fuor dall’uscio!
Si piantò solo e dritto alla ringhiera della scala che dava nella corte centrale a vetriate. Di là dominava il magazzino; e sotto, le sezioni del pianterreno. In alto, il deserto gli fece sgomento: una vecchia faceva aprire tutte le scatole, nella sezione delle trine, e non comprava nulla; tre altre sceglievano lentamente, in quella della biancheria, dei colletti a ottanta centesimi. A pianterreno, sotto le gallerie coperte, nella luce che veniva dalla strada, osservò che il numero delle clienti cominciava a crescere. Era un lento sfilare, una passeggiata lungo i banchi; qua e là, grandi spazi vuoti; nelle mercerie, si affollavano delle donnicciuole, ma alle lane e alla biancheria da dosso non c’era quasi anima viva. I garzoni col loro vestito verde luccicante pei grossi bottoni, aspettavano colle mani in mano: passava di tanto in tanto un ispettore, con l’aria cerimoniosa, col collo tutto d’un pezzo nella cravatta bianca. E il cuore del Mouret si stringeva per la gelida quiete della grande sala: la luce vi cadeva dall’alto, da una tettoia a cristalli opachi, che la faceva divenire una polvere bianca diffusa e quasi sospesa per l’aria, sotto la quale la sezione delle sete pareva dormisse in mezzo a un silenzio da chiesa che faceva rabbrividire. Il passo d’un commesso, delle parole sussurrate, un fruscio di sottane, vi mettevano soli qualche leggiero rumore, soffocato dal caldo del calorifero. Delle carrozze, nondimeno, arrivavano; si sentiva il fermarsi dei cavalli, poi il richiudersi brusco delle portiere. Dal di fuori saliva un lontano frastuono dei curiosi che stavano a guardare le vetrine, e delle vetture che eran ferme in Piazza Gaillon: si sentiva l’avvicinarsi della gente. Ma vedendo i cassieri starsene in panciolle dietro i finestrini, e osservando che le tavole restavano vuote senza null’altro sopra che scatolette da spago e risme di carta da involtare, al Mouret, sdegnato d’aver paura, pareva sentire la sua macchina grande divenir fredda e immobile.
— Dite un po’, Favier — mormorò l’Hutin — guardate il padrone lassú... Che faccia da miserere, Dio ce ne scampi e liberi!
— Ma che questo si chiama un magazzino! — rispose il Favier. — Non ho venduto nemmeno un capo di spillo!
Aspettando i clienti, tutt’e due sussurravano cosí, senza guardarsi, a brevi frasi. Gli altri impiegati della sezione stavano riscontrando i cartellini, secondo gli ordini del Robineau; e il Bouthemont intanto, tutto in discorsi con una signora giovine e magra, pareva prendesse a bassa voce una commissione importante. Intorno a loro, su mobili di fragile eleganza, le sete, piegate in lunghi involti di carta color crema, si ammucchiavano quasi opuscoli d’insolito formato. E sui banchi, le sete di fantasia, i rasi, i velluti, parevano aiuole coperte di fiori recisi, aie accoglienti una messe di tessuti delicati e preziosi. Era quella la sezione elegante, una sala vera, dove le merci, leggiere, non erano altro che una mobilia di lusso.
— Per domenica — riprese l’Hutin — ho bisogno di cento franchi; se non guadagno in media i miei dodici franchi al giorno, son bell’e fritto... Ci avevo fatto assegnamento su questa bella apertura.
— Cento franchi? Salute! — disse il Favier. — Per me, cinquanta o sessanta mi bastano... Voi non vi contentate, pare, di donnette di mezza tacca... volete generi fini.
— Ma no, caro mio. Figuratevi: ho fatto una scommessa, e l’ho persa... E ora mi tocca invitare cinque persone: due uomini e tre donne... Si starà a vedere: la prima che passa, le appioppo venti metri della «Parigi-Paradiso»!
Seguitarono a chiacchierare per un altro po’, raccontandosi ciò che avevan fatto il giorno innanzi e ciò che si proponevan di fare la domenica dopo. Il Favier si divertiva a scommettere nelle corse; all’Hutin piaceva andare in barca, e andar dietro alle cantanti dei caffè. Ma avevano tutt’e due un bisogno continuo di quattrini; dal lunedí al sabato si arrabattavano per guadagnare, e la domenica rimanevano nudi e bruchi. Nel magazzino non avevano altro pensiero che quello; né, anche volendo, avrebbero potuto liberarsene. E quel furbo del Bouthemont, che s’era presa per sé la donna inviata dalla Sauveur, quella magra con cui discorreva: un buon affare, due o tre dozzine di pezze di stoffa, perché la grande modista non comprava mai meno. Il Robineau, anche lui, aveva rubata una cliente al Favier.
— Oh! con lui, o prima o poi faremo i conti! riprese l’Hutin che profittava delle piú piccole occasioni per metter su, contro l’uomo del quale voleva il posto, tutta la sezione. — O che i capi e gli aiuti debbono vendere? In parola d’onore, se mai diventassi io l’aiuto, vedreste come vi tratterei voialtri.
E tutta la sua personcina normanna, grassoccia ed amabile, si atteggiava a una facile bontà, energicamente. Il Favier non si poté trattenere dal gittargli un’occhiata di traverso; ma seppe serbare la sua calma da bilioso, e si contentò di rispondergli:
— Lo so, lo so... a me non parrebbe vero!
Poi, vedendo che veniva una signora, aggiunse a bassa voce:
— Attento! questa tocca a voi.
Era una signora col viso tutto chiazze rossastre, col cappello giallo e vestita di rosso. L’Hutin indovinò subito che non veniva con l’intenzione di comprare. Si abbassò di colpo dietro il banco, fingendo di riallacciarsi una scarpa: e nascosto a quel modo, mormorava:
Ah! questa no davvero! se la goda un altro... grazie tante!...
Il Robineau intanto chiamava:
— A chi tocca? all’Hutin?... dov’è l’Hutin?
E poiché lui non rispondeva, toccò all’impiegato, che era inscritto dopo, servire quella signora. Era proprio vero: la signora non voleva che certi campioni coi prezzi; eppure tenne lí l’impiegato più di venti minuti, facendogli mille domande. Ma l’aiuto aveva visto l’Hutin rialzarsi di dietro il banco; e quando arrivò un’altra cliente, si fece innanzi, intervenne con aspetto severo, e rattenne il giovane che subito si faceva avanti:
— Non tocca a voi: v’ho chiamato, e siccome eravate nascosto...
— Ma io, signore, non ho sentito!
— Basta, basta! andate a inscrivervi ultimo... Via, signor Favier, tocca a voi.
Il Favier, contentissimo in cuor suo, dette una occhiata, come per iscusarsi, all’amico. L’Hutin, con le labbra livide, aveva voltato il capo. Tanto piú era arrabbiato, perché conosceva la cliente, una bellissima bionda che capitava spesso nella sezione, e che gli impiegati chiamavano tra loro «la bella signora» non sapendo di lei nemmeno il nome. Costei comprava molto, si faceva portare la roba nella carrozza, e spariva. Grande, elegante, vestita con squisita eleganza, doveva essere dell’alta società e assai ricca.
— Dite un po’, è la vostra mantenuta? — domandò l’Hutin al Favier, non appena questi tornò dalla cassa dove aveva accompagnato la signora.
— Ma che mantenuta! ha l’aria troppo per bene. Dev’essere moglie d’un banchiere, o d’un medico, o che so io; qualche cosa cosí.
— Addio, caro! quella è una mantenuta... conta proprio molto, oggi, l’aria per bene!
Il Favier guardava il suo libretto per le fatture.
— Che me n’importa? — riprese — le ho affibbiato per duecentonovantatré franchi di roba! Quasi tre franchi per me.
L’Hutin si morse le labbra, e si sfogò del suo rancore sui libretti per le fatture: ci volevano anche i libretti a dar noia! Tra lui e il Favier c’era sorda rivalità: di solito quest’ultimo affettava di tirarsi da parte dinanzi all’Hutin, e di riconoscerlo per superiore, salvo a morderlo, zitto zitto, dietro le spalle. E per questo, all’Hutin, quei tre franchi, guadagnati senza fatica da chi valeva meno di lui, non andavano giú. Bella giornata, davvero! se continuava a quel modo, lui non avrebbe guadagnato nemmeno tanto da pagare l’acqua di seltz agl’invitati. E nella battaglia che si faceva piú ardente, passeggiava dinanzi ai banchi, a denti stretti, volendo anche lui la sua parte, pieno d’invidia perfino pel Capo che stava accompagnando quella donna magra e le ripeteva:
— Siamo intesi, ditele che farò quanto potrò, per ottenere anche questo favore dal signor Mouret.
Il Mouret non era piú da un pezzo nel mezzanino alla ringhiera della scala. A un tratto riapparve in cima allo scalone che dava nel pianterreno: e pur di lí dominava tutto il magazzino. Il viso gli si veniva colorando, la fede gli tornava e gli dava animo, dinanzi all’onda della gente che a poco a poco invadeva il negozio. Era finalmente la ressa aspettata, la ressa di dopo colazione e della quale, per un poco, aveva, nella sua febbre, disperato. Tutti gl’impiegati erano al loro posto: un ultimo tocco di campana aveva avvertito che la terza tavolata era finita: alla brutta mattinata, guastata di certo dall’acquazzone venuto verso le nove, si poteva ancora rimediare, perché il cielo azzurro della mattina aveva ripreso la sua allegria di vittoria. Le sezioni del mezzanino si animavano; ed egli dové tirarsi da parte per lasciar passare le donne che, un po’ per volta, salivano alla biancheria e al vestiario: mentre, dietro alle spalle, nella sezione delle trine e degli scialli, sentiva volare, dalle labbra degli addetti, grosse cifre.
Ma la vista della galleria a pianterreno lo rassicurava anche piú. Davanti alle mercerie, perfino alle lane, c’era una ressa da non potersi dire, una vera invasione: le compratrici, quasi tutte in cappello, ora arrivavano in lunghe file; qua e là alcune buone massaie in ritardo. Nella sala delle sete, sotto la luce bionda che scendeva dall’alto, delle signore si erano levate i guanti per palpare dolcemente le pezze della «Parigi-Paradiso», e discorrevano sommessamente come in un salotto. Né s’ingannava piú; il rumore che veniva di fuori era rumore di carrozze, di telli sbattuti; il frastuono d’una calca sempre crescente.
sporSentiva che la macchina stava per muoversi, riscaldarsi, rivivere; dalle casse dove il danaro tintinnava, dalle tavole dove i garzoni si affrettavano a legare negl’involti le merci, fino alle profondità del sotterraneo, al servizio di spedizione, che era già pieno d’involti e che col suo mormorio di sotterra pareva facesse vibrare la casa. In mezzo alla moltitudine, l’ispettore Jouve passeggiava gravemente, tutt’attento se mai qualcuna delle solite ladre s’intascasse roba senza pagarla.
— To’! — disse il Mouret a un tratto, riconoscendo Paolo De Vallagnosc cui un garzone faceva da guida. — No! no! non mi dài nóia e non hai che da tenermi dietro, se vuoi vedere ogni cosa, perché oggi sto tutto il santo giorno sulla breccia.
Era ancor sempre un po’ inquieto. La gente veniva; ma la vendita sarebbe poi stata quel trionfo ch’egli aveva sperato? Eppure rideva con Paolo, e se lo portò via allegramente.
— Sembra che le cose si mettano ora meno male! — disse l’Hutin al Favier. Ma io non ho fortuna: ci son certe giornate, in parola d’onore... O che non ho fatto fiasco un’altra volta? Quell’accidente là non mi ha comprato nulla.
E con l’alzare il mento, indicò una signora che se n’andava dando occhiate sprezzanti a tutte le stoffe. C’era proprio da ingrassare con i mille franchi di stipendio! per solito, di giorno in giorno, si beccava sei o sette franchi del tanto per cento; e cosí col fisso arrivava in media a una diecina di franchi. Il Favier non arrivava a buscarne otto: ed ecco che quel ciuco gli rubava i bocconi migliori, perché aveva in quel punto venduto un vestito. Una tinca fredda non mai capace di far sorridere una cliente! Era una disperazione.
— I berrettai e i gomitolai pare che facciano affari! mormorò il Favier, parlando dei venditori di berrette e di mercerie.
Ma l’Hutin, che con lo sguardo frugava tutto il magazzino, disse bruscamente:
— La conoscete la signora Desforges, l’amante del padrone?... Eccola là; quella bruna che si fa calzare i guanti dal Mignot.
Si chetò, poi soggiunse a voce bassa, come se parlasse al Mignot, cui non levava gli occhi d’addosso:
— Striscia, striscia, mi raccomando, mio bel cosino! Le conosco le tue conquiste! Non si va piú là delle dita!
Tra lui e il guantaio c’era una rivalità di begli uomini; perché tutt’e due ostentavano d’intendersela con le clienti. Non avrebbero, del resto, potuto vantarsi di nessun successo vero; il Mignot tirava innanzi sulla leggenda della moglie d’un commissario di polizia che s’era innamorata di lui; l’Hutin aveva in realtà conquistata una nastraia, stanca di girare per tutte le camere ammobiliate del quartiere. Ma mentivano, e lasciavano volentieri che gli altri credesseto a misteriose avventure, ad appuntamenti dati, tra una compra e l’altra, da qualche contessa.
— Quella lí mi ci vorrebbe! — disse il Favier con la sua aria agrodolce.
— Proprio! — esclamò l’Hutin. — Se vien qui, me la pappo io; ho bisogno di cinque franchi!
Alla sezione dei guanti, tutta una fila di signore stavan sedute dinanzi allo stretto banco coperto di velluto verde con gli orli di metallo ossidato: e i commessi, sorridenti, ammucchiavano davanti a loro le scatole basse, d’un rosa acceso, che tiravano di sotto al banco stesso. Il Mignot, piú di tutti, piegava la sua graziosa figura da bambola, e dava tenere inflessioni alla sua voce grossastra di parigino.
Aveva già venduto alla Desforges una dozzina di paia di guanti di capretto, sei bianchi, sei di tinte chiare, guanti «Paradiso», la «specialità » del magazzino. Ed ora lei si faceva provare dei guanti di Sassonia, temendo non le stessero bene.
— Ma benissimo, signora! — ripeteva il Mignot. — Il sei e un quarto sarebbe troppo grande per una mano come la sua!
Curvo sul banco le teneva la mano, prendeva ad uno ad uno i diti, li faceva entrare nel guanto con una carezza lunga, stretta, replicata: e guardava la Desforges come se avesse aspettato che il suo viso desse segno di struggersi dal piacere. Ma lei, col gomito dove finiva il velluto, tenendo il polso alto, gli porgeva i diti con l’aria tranquilla che aveva quando dava il piede alla cameriera perché le abbottonasse gli stivaletti. Non era un uomo per lei; lo lasciava fare con la familiare noncuranza con la quale trattava le persone che la servivano, senza guardarle.
— Le fo male, signora?
Rispose di no, con un cenno del capo. L’odore dei guanti di Sassonia, odore forte e selvaggio quasi raddolcito dal muschio, di solito la turbava; ed ella stessa ne rideva qualche volta, confessando che le piaceva quel profumo strano che pareva esalato da una bestia in amore caduta nella scatola di cipria d’una ragazza. Ma dinanzi a quel banco non sentiva nemmeno i guanti; tra lei e quel tale che faceva il suo mestiere, i guanti non mettevano nessun calore sensuale.
— Vuole altro?
— No, grazie!... Fate portare la roba alla Cassa Dieci, per la signora Desforges.
Pratica della casa, dava il suo nome a una cassa e vi mandava le compre senza farsi seguire da un commesso. Non appena si fu allontanata, il Mignot strizzò l’occhio volgendosi verso quello che gli stava accanto, per dargli a credere che erano avvenute cose straordinarie.
— Eh! mormorò cinicamente — mi piacerebbe inguantarla da capo a piedi!
La Desforges intanto continuava le compre. Svoltò a sinistra e si fermò alla biancheria per comprare dei canovacci: poi fece il giro, e si spinse fino alle lane, in fondo alle gallerie. era contenta della cuoca e le voleva regalare un vestito. La sezione delle lane riboccava di gente: tutte le borghesucce eran là a tastare le stoffe e sprofondarsi in calcoli muti, ed ella dové mettersi un po’ a sedere. Negli scaffali stavano in ordine le gravi pezze che gl’impiegati a una a una mettevan giù con un brusco sforzo di braccia. E cominciavano anche a non capirci piú nulla, tanto i banchi erano sovraccarichi di tessuti imbrogliati e di pezze disfatte. Pareva un mare tumultuoso di mezze tinte e tinte cupe, grigio ferro, grigi gialli, grigi azzurri, tra i quali splendeva qua e là il fondo rosso delle flanelle scozzesi. E i cartellini bianchi delle pezze parevano rari fiocchi di neve caduti sopra un suolo nero, in dicembre.
Dietro un monte di stoffe, il Liénard se la rideva con una ragazza alta, senza cappello, una operaia del quartiere mandata dalla padrona per cercar di accompagnare un certo mérinos. Quei giorni di gran vendita che spezzavano le braccia, lui non li poteva soffrire, e cercava di lavorare meno che potesse, mantenuto com’era largamente dal babbo, e infischiandosi di vendere. Faceva proprio quel tanto che bastasse a non esser messo fuori.
— Ma state dunque a sentire, signorina Fanny — diceva lui. — Avete sempre troppa furia... Quella vigogna a spina andò bene ieri l’altro? La gratificazione verrò a pigliarla io da voi.
Ma l’operaia scappò via ridendo; e il Liénard si trovò in faccia la Desforges, alla quale dové per forza domandare:
— In che posso servirla?
Voleva un vestito che non costasse molto, ma forte. Il Liénard, che sempre badava a non stancarsi le braccia, e non aveva altro pensiero che quello, fece di tutto per farle prendere una delle stoffe che stavano bell’e spiegate sul banco:
casimirre, saie, vigogne. E giurava che non c’e ra nulla di meglio, e che, nemmeno a volere, quella roba lí si poteva consumarla. Ma nulla parve contentarla. In uno scaffale aveva notato un certo scozzese azzurro, e lo volle vedere; il Liénard si dové risolvere a metterlo giú. Le parve troppo rozzo. Passò allora alle diagonali, alle grisaglie, ai tessuti a spina, tutte diverse specie di lana ch’ella ebbe la curiosità di toccare, per divertimento, senza che poi le importasse molto di comprarne piuttosto una che un’altra. Il giovane dové cosí votare i palchetti piú alti: le spalle gli scricchiolavano; il banco non si vedeva piú, sotto la quasi serica grana delle casi mirre e delle popelines, sotto il pelo ruvido delle cheviottes, sotto la molle peluria delle vigogne. Tutti i tessuti e tutte le tinte le passarono a mano a mano sotto gli occhi. Si fece perfino mostrare, senza avere, al solito, nessuna voglia di comprare, della grenadine e della gaze di Chambéry. Poi, quando n’ebbe abbastanza:
— Oh! Dio mio! — disse — la prima è sempre la meglio. Tanto è per la mia cuoca... Sí, quella saia a puntolini, quella da due franchi.
E quando il Liénard, livido di collera ringozzata, ebbe misurato:
— Abbiate la compiacenza di portarla alla Cassa Dieci, per la signora Desforges — ordinò.
In quel mentre, nell’andarsene, vide accanto a sé la signora Marty con la sua Valentina, un pezzo di ragazza di quattordici anni, magra e ardita, che alle stoffe dava già certe occhiate da donna troppo esperta.
— Guarda! siete voi, cara signora?
— Io in persona, cara signora... Che folla!
— Non me ne parlate! si soffoca... Un trionfo, un vero trionfo! L’avete visto il salotto orientale?
— Stupendo! magnifico!
E in mezzo alle gomitate, le due signore, sballottate dalla calca sempre crescente delle clienti meno agiate, le quali si buttavano addirittura sulle lane a buon prezzo, si misero a discorrere della mostra dei tappeti senza trovar parole bastanti al loro entusiasmo. Poi la Marty spiegò che cercava la stoffa per un mantello; ma non sapeva ancora bene quel che avrebbe preso, e intanto s’era fatto mostrare del trapunto di lana.
— Ma via, mamma — mormorò Valentina — non vedi ch’è troppo comune?
— Venite alle sete disse la Desforges. — Bisogna pur vederla la famosa «Parigi-Paradiso».
Per un po’ la Marty esitò. Costava cara, e lei aveva solennemente giurato al marito che avrebbe avuto giudizio! Da un’ora, invece, non faceva che comprare; e già le teneva dietro un monte di fagotti, un manicotto e delle gale per lei, e delle calze per la figliuola. Ma finalmente disse al commesso che le mostrava il trapunto:
— No, no! vado alle sete... Non è quello che volevo io.
Il commesso prese gl’involti, e s’avviò innanzi a loro.
Anche alle sete c’era la ressa medesima. Si pigiavano soprattutto innanzi alla vetrina interna, messa in ordine dall’Hutin, e che il Mouret stesso aveva ritoccata da maestro. In fondo alla sala, intorno a una delle colonne di ferro fuso che sostenevano la vetriata, era come una cascata di stoffa scendente dall’alto e allargantesi fino in terra. Da prima rasi chiari e sete pallide, i rasi «alla regina», i rasi «rinascimento», dalle tinte madreperlacee d’acqua sorgiva, le sete leggiere con trasparenze di cristallo, verde Nilo, cielo indiano, rosa di maggio, azzurro Danubio. Poi venivano i tessuti piú fitti, i rasi meravigliosi, le sete duchessa, tinte calde, giú a ondate più forti. E in basso, come in una vasca, dormivano le stoffe gravi, i corpetti bell’e fatti, i damaschi, i broccati, le sete perlate e rigate, in mezzo a un letto profondo di velluti, tutti i velluti, neri, bianchi, di colore, a fondo di seta e di raso, che con le loro macchie variegate facevano un lago immobile, dove pareva danzassero riflessi di cielo e di paesaggio. Alcune donne, pallide di desiderio, si chinavano quasi per ispecchiarvisi. Tutte, dinanzi a quella cateratta erompente, restavano ammirate con la paura sorda d’esser prese nello straripamento di quel lusso, e con la voglia irresistibile di gettarvisi e perdervisi.
— Ah ci sei! — disse la Desforges trovando la Bourdelais davanti a un banco.
— To’! buon giorno! — rispose quella, stringendo la mano alle signore. — Sí, son qui per dar un’occhiata.
— Non è vero ch’è una cosa stupenda? C’è da sognarsela... E il salotto orientale, l’hai visto il salotto orientale?
— Eccome se l’ho visto! è meraviglioso!
Ma sotto quell’entusiasmo destinato a fornire argomento di discorsi al bel mondo tutto quanto, la Bourdelais non perdeva il sangue freddo di massaia pratica. Esaminava con cura una pezza della «Parigi-Paradiso», perché era venuta soltanto per approfittare del prezzo bassissimo di quella seta, se l’avesse trovata buona davvero.
Ne fu senza dubbio contenta, perché ne chiese venticinque metri, pensando di farsi un vestito per sé e un paltoncino per la bambina.
— Come! te ne vai digià? disse la Desforges. — Fa’ un giro con noi!
— No, grazie: mi aspettano in casa... Con questa calca non ho voluto portarmi dietro i bambini.
E se n’andò, preceduta dal commesso che portava i venticinque metri di seta, e che la condusse alla Cassa Dieci, dove il giovine Alberto perdeva la testa in mezzo alle tante domande di fatture che lo tempestavano. Quando il commesso poté avvicinarsi, dopo aver segnata nel suo libretto la vendita con un tocco di lapis, annunziò ad alta voce la vendita stessa, e il cassiere la iscrisse nel suo registro; poi vi fu una controchiamata e il foglietto staccato dal libro fu infilzato in un ferro a punta, accanto al bollo col quale si saldavano le fatture.
— Centoquaranta franchi — disse Alberto.
La Bourdelais pagò, e diè il suo indirizzo, perché era venuta a piedi e non voleva quel fagotto con sé. Dietro la cassa, Giuseppe teneva già la seta e la rinvoltava; poi, l’involto, gittato in una canestra a ruote, fu spinto fino all’ufficio di spedizione che a mano a mano si veniva empiendo. Pareva ora che tutte le merci del ma gazzino volessero cadere laggiú con un fragore da pescaia.
Già, alle sete, tale e tanta gente faceva ressa, che la Desforges e la Marty non poterono subito trovare un commesso libero. Rimasero ritte, confuse in quella folla di signore che guardavano le stoffe, le palpavano, e stavano li ferme delle ore senza risolversi. Ma sopra le altre la vinceva di gran lunga la «Parigi-Paradiso», per la quale andava crescendo a poco a poco una di quelle ammirazioni che da un momento all’altro fan cambiare la moda. Tutti i commessi non facevano che misurare: di sopra i capelli si vedevan luccicare nel loro pallido colore le pezze spiegate, e il continuo correre dei diti lungo i metri di legno sospesi a colonnette di ottone; si sentiva il rumore delle forbici che tagliavano il tessuto, senza tregua, a mano a mano che la seta era sballata, come se non vi fossero state braccia che bastassero alle mani avide e tese delle clienti.
— Davvero, che per cinque e sessanta è carina! — disse la Desforges, che era riuscita a agguantarne una pezza sull’orlo d’una tavola.
La Marty e Valentina non erano invece contente. I giornali ne avevano parlato tanto, che si aspettavano qualcosa di piú lucido e forte. Ma il Bouthemont aveva riconosciuta la Desforges, e si faceva innanzi con la sua cortesia un po’ volgare, per fare anch’egli un po’ di corte a una bella signora che dicevano potesse tutto sull’animo del padrone. Ma come, non la servivano? Ci voleva una pazienza!... ma doveva mostrarsi indulgente perché davvero non sapevano piú dove battere la testa. E cercava seggiole in mezzo alle gonnelle, ridendo del suo riso bonaccione, in cui si palesava un tal quale brutale amor della donna, che non pareva desse noia ad Enrichetta.
— Guardate — mormorò il Favier mentte andava a prendere una scatola di velluti in uno scaffale dietro l’Hutin — ecco il Bouthemont che vi ruba la vostra signora.
L’Hutin aveva dimenticata la Desforges, perché una vecchia l’aveva fatto uscire dai gangheri col tenerlo lí un quarto d’ora per comprare un metro di raso nero per un corpetto. Quando c’era furia, non si teneva piú nessun conto dell’ordine scritto nella lavagna: ciascuno serviva quella cliente che poteva. E già l’Hutin rispondeva alla signora Boutarel, che consumava la giornata al Paradiso delle signore dove era già stata per tre ore nella mattinata, quando l’avviso datogli dal Favier lo scosse. Sta’ a vedere che perdeva anche la bella amante del padrone dalla quale aveva giurato di spillare cinque franchi! Sarebbe stata proprio una fortuna, perché ancora non aveva buscato tre franchi, con tutte quelle altre avaracce.
Il Bouthemont proprio in quel punto ripeteva con quanta voce aveva in gola:
— Presto! qualcuno qui!
Allora l’Hutin lasciò la Boutarel al Robineau che stava senza far nulla:
— Ecco, signora, rivolgetevi all’aiuto... Vi risponderà meglio di me.
E accorse facendosi dare le compre della Marty dal commesso delle lane che aveva accom pagnato le signore e che stava sempre aspettando. Quel giorno il suo eccitamento doveva trarlo in errore, sebbene fosse cosí accorto. Di solito gli bastava un’occhiata per sapere se una donna veniva per comprare e quanto comprerebbe; poi dominava la cliente imponendole ciò che voleva lui, per persuaderla che sapeva meglio di lei stessa quanto le conveniva.
— Che sorta di seta desidera la signora? — chiese piú amabilmente che poté.
La Desforges non aveva aperto bocca, e già egli riprese:
— Ho capito: eccola qui!
Quando la pezza della «Parigi-Paradiso» fu spiegata da una parte del banco, tra mucchi d’altre sete, la Marty e la sua figliuola si avvicinarono. L’Hutin, un po’ inquieto, capí che si trattava da principio di un vestito per quelle due. La Desforges dava dei consigli all’amica con poche parole scambiate a mezza voce.
— Eh! sicuro, questo s’intende! — mormorava — una seta da cinque e sessanta, non sarà mai una seta da quindici franchi e nemmeno da dieci!
— È uno straccetto — ripeteva la Marty. — Ho paura che per un mantello non abbia abbastanza consistenza.
Questa osservazione indusse l’Hutin a metter bocca nel discorso. Sorrideva e aveva la cortesia esagerata di chi non si può ingannare:
— Ma, signora, la morbidezza è il vero pregio di questa seta: non s’incincigna mai... E proprio ciò che ci vuol per lei.
Le signore, a quel tono cosí sicuro, si chetarono. Avevano ripigliata la stoffa e la esaminavano da capo, quando si sentirono toccare sulla spalla. Era la Guibal che da un’ora passeggiava pel magazzino dando ai suoi occhi la gioia di tante belle cose ammucchiate, senza comprare nemmeno un metro di bordato. Le chiacchiere si riaccesero ardenti.
— Come, come! proprio voi?
— Sí, sono io, ma un po’ sgualcita dalle spinte!
— Che affare! ce n’è della gente!... non ci si rigira piú.
— E il salotto orientale?
— Stupendo!
— Che trionfo, Dio mio! che trionfo!... State con noi, andremo insieme di sopra.
— No, grazie; ne scendo proprio ora.
L’Hutin aspettava, nascondendo la sua impazienza col sorriso che aveva sempre sulle labbra. Ma dunque lo volevano tenere li delle ore? Veramente le signore si davano troppo poco pensiero di lui; quello era un vero rubare. Finalmente la Guibal se n’andò, e continuò la sua lenta passeggiata girando con molta ammirazione intorno alla grande vetrina delle sete.
— Io, se fossi in voi, comprerei il mantello bell’e fatto — disse la Desforges tornando di colpo alla «Parigi-Paradiso» — e vi costerebbe meno caro.
— È vero che con le guarnizioni e la fattura... — mormorò la Marty. — E poi si può scegliere.
Tutt’e tre si erano alzate. La Desforges riprese, volgendosi all’Hutin:
— Conduceteci al «vestiario».
Restò come fulminato; a fiaschi cosí grossi non c’era avvezzo. Ma come? la signora bruna non comprava nulla? Dunque s’era ingannato?
Lasciò andare la Marty e insisté con l’Enrichetta volgendo su di lei tutta la sua potenza di esperto venditore:
— E la signora non desiderava vedere i nostri rasi, i nostri velluti? Abbiamo delle stoffe... una occasione straordinaria.
— Grazie, un’altra volta — rispose lei tranquillamente; non guardandolo piú che avesse guardato il Mignot.
L’Hutin dové pigliar le compre della Marty e avviarsi per condurre le signore alle «confezioni». Ma ebbe anche questo dolore: vide il Robineau vendere alla Boutarel parecchi metri di seta. Era finita per lui, non c’era piú da guadagnare quattro soldi. La sua rabbia d’uomo derubato, spolpato dagli altri, si faceva anche piú acre sotto quella cortesia di modi cui era costretto.
— Al primo piano, signore — disse senza smettere di sorridere.
Non era facile arrivare alla scala. Una marea di teste ondeggiava sotto le gallerie, e s’allargava quasi lago straripato, in mezzo alla sala grande. E ne saliva il frastuono d’una vera battaglia; gl’impiegati tenevano in loro balía quel popolo di donne che si passavano dall’uno all’altro gareggiando di sveltezza. Era venuta l’ora del moto terribile del pomeriggio, quando la macchina afferrava a tutta forza i clienti e traeva fuori il denaro dalla carne. Alle sete soprattutto pareva che spirasse un vento di pazzia; la «Parigi-Paradiso» richiamava una folla tale, che per qualche minuto l’Hutin non poté fare un passo; ed Enrichetta quasi soffocata, nell’alzar gli occhi, vide lassú sulla scala il Mouret che tornava sempre a quel posto donde mirava la propria vittoria.
Gli sorrise, sperando che sarebbe sceso a liberarla da quella stretta. Ma egli non la poteva distinguere tra tanta calca: era sempre col Vallagnosc, occupato a mostrargli la Casa, con la faccia raggiante. Il fremito interno soffocava ora ogni suono di fuori; non si sentiva piú né il rumore delle carrozze né lo sbattere degli sportelli; di là dal gran fragore della vendita s’indovinava Parigi immensa, d’una immensità che fornirebbe sempre nuove compratrici. Nell’aria immobile e greve, nella quale il caldo del calorifero intepidiva l’odore delle stoffe, aumentava il frastuono, dalle medesime frasi ripetute cento volte intorno ai banchi, dall’oro che tintinnava sul rame delle casse accerchiate da mille portamonete, dalle ceste a ruote che trascinavano continuamente nei sotterranei spalancati i carichi degli involti. E sotto il polverío veniva a confondersi tutto: non era piú possibile distinguere l’una sezione dall’altra; laggiú la merceria pareva sommersa: piú là, alla biancheria, una striscia di sole, entrando dalla vetrina di Via Nuova di Sant’Agostino, pareva una freccia d’oro sulla neve; qui, ai guanti e alle lane, una siepe di cappelli, di trecce, di chignons, sbarrava il fondo del magazzino. Non si vedevano nemmeno piú i vestiti; solamente le teste erano a galla, variopinte di nastri e di penne: cappelli d’uomo ponevano qua e là macchie nere; mentre le donne, affaticate, tra quel caldo, impallidivano di un pallore trasparente come han le camelie.
Finalmente, grazie ai suoi gomiti vigorosi, l’Hutin fece strada alle signore, precedendole. Ma quand’ebbe salita la scala, Enrichetta non trovò piú il Mouret che aveva ficcato il Vallagnosc nel mezzo della calca per meglio inebriarlo, perché egli stesso era preso dal bisogno fisico di tuffarsi in quella folla che significava la sua vittoria. Gli mancava il respiro, e ne godeva; gli sembrava, sentendosi cosí pigiato, d’abbracciare a lungo tutta la clientela.
— A sinistra, signore — disse l’Hutin, sempre cortese, per quanto la stizza gli andasse crescendo.
Al primo piano non c’era ressa minore. Perfino la sezione della mobilia, solitamente la piú quieta, era invasa. Gli scialli, le pellicce, le biancherie, riboccavano di gente. Mentre le signore traversavano la sezione delle trine, s’imbatterono in un’altra amica. La De Boves con la sua Bianca eran lí, ingolfate nelle trine che il Deloche mostrava loro. E l’Hutin dové fermarsi ancora, con l’involto in mano.
— Buon giorno... Pensavo proprio a voi.
— Vi ho cercata, io. Ma come si fa a ritrovarsi fra tutta questa gente?
— Bellissimo, non è vero?
— Splendido, mia cara!... Non ci reggiamo piú ritte.
— E comprate?
— No, no, si guarda! Cosí, a sedere, ci si riposa un po’.
La De Boves, infatti, non avendo nel portamonete altro che i soldi per la vettura, si divertiva a far uscire dalle scatole ogni sorta di trine, tanto per vederle e toccarle. S’era accorta che il Deloche era un principiante, lento e maldestro, che non osava resistere ai capricci delle signore; e abusava della sua affaccendata compiacenza tenendolo lí da una buona mezz’ora col chiedergli sempre dell’altra roba. Il banco traboccava di trine, ed ella vi ficcava le mani con dita tremanti dal desiderio in mezzo a quelle malines, valenciennes, chantilly, col viso riscaldato a poco a poco da una gioia sensuale: Bianca, accanto a lei, presa dalla stessa passione, era diventata pallida pallida, nel viso grassoccio e molle.
La conversazione, intanto, seguitava: l’Hutin le avrebbe prese a schiaffi, costretto ad aspettare immobile quanto piacesse loro di trattenerlo.
— To’! — disse la Marty — voi guardate delle sciarpe e dei veli come quelli che vi feci vedere ieri l’altro!
Era vero: la De Boves, fin dal sabato tormentata dalle trine della Marty, non aveva potuto resistere al bisogno di tuffarvi almeno le mani, dacché non le era lecito, per le strettezze in cui la teneva il marito, di portarsele via. Arrossí un po’, e disse ch’era stata la Bianca che aveva voluto vedere delle sciarpe di trina spagnuola. Poi soggiunse:
— Voi andate alle «confezioni»; a rivederci tra poco. Ci ritroveremo nel salotto orientale.
— Sí, nel salotto orientale... Com’è bello, eh?
Si separarono con beate esclamazioni, in mezzo alla calca che s’era fatta intorno alle trinucce da poco prezzo. Il Deloche, tutto contento d’aver da fare, s’era rimesso a votare le scatole dinanzi alla mamma e alla figliuola. E l’ispettore Jouve passeggiava pian piano tra i gruppi affollati lungo i banchi, mettendo in mostra la sua medaglia, e aprendo bene gli occhi su quelle merci sí fini e preziose, che tanto facilmente si posson nascondere sotto un soprabito o dentro una manica. Quando passò dietro alla De Boves, sorpreso nel vederla col braccio tuffato in un siffatto mucchio di malines e di valenciennes, gittò un’occhiataccia a quelle mani febbrili.
— A destra, signore — disse l’Hutin ricominciando a fare da guida.
Non ne poteva piú. Non bastava il non avergli comprato nulla? A ogni svoltata lo tenevano fermo per un’ora.
E nella bile c’era soprattutto la gelosia delle sezioni dei tessuti verso quelle delle «confezioni »>: guerra d’ogni minuto. Si leticavano le clienti, si rubavano tra loro il tanto per cento e la gratificazione. Quelli della seta anche piú di quelli delle lane eran furibondi quando dovevano condurre alle «< confezioni» una signora che risolveva di comprarsi un mantello bell’e fatto dopo essersi fatta mostrare taffetas e failles.
— Signorina Vadon — disse l’Hutin con voce da cui trapelava la stizza, quando finalmente giunsero nella sezione.
Ma quella passò senza dargli retta, assorta come era in una vendita che badava a sbrigare. La stanza era piena; la folla l’empiva tutta per il lungo dall’uscio delle trine a quello della biancheria, che erano di faccia; e in fondo alcune signore si provavano dei vestiti, voltandosi, curvandosi e raddrizzandosi dinanzi agli specchi. Il tappeto rosso smorzava il rumore dei passi, la voce alta e lontana del pianterreno s’andava via via estinguendo; non c’era là dentro che il discreto mormorio e il caldo d’un salotto, accresciuto dalla ressa delle signore.
— Signorina Prunaire! — disse più forte l’Hutin.
E siccome nemmeno lei si fermava, aggiunse fra i denti, in modo che non lo potessero sentire:
— Canagliette!
Le odiava, costretto su e giú per la scala a rompersi in quel modo le gambe per portare loro le clienti, e fuor di sé perché, secondo lui, gli rubavano proprio di tasca il guadagno. Era quella una guerra sotto sotto, nella quale anch’esse non combattevano con minore acrimonia; e stanchi della comune fatica, sempre ritti, divenuti macchine, al sesso non si badava piú e non restavano le une contro le altre armate se non le opposte avidità, incitate da una febbrile smania di vendere.
— Ma non c’è nessuno, dunque?... — chiese l’Hutin.
A un tratto si accorse di Dionisia. Fin dalla mattina non faceva che spiegare e ripiegare; non le avevano conceduto che di tentare poche vendite, di esito dubbio, e che a lei non era riuscito di condurre in fondo. Quando egli la vide e la riconobbe, mentre stava a sbarazzare un banco da un mucchio enorme di vestiti, corse a cercarla.
— Ecco, signorina, servite queste signore che aspettano.
E le mise di colpo sulle braccia le compre della Marty che era stanco di far passeggiare pel magazzino. Il suo sorriso tornava a galla, e c’era in quel sorriso la segreta cattiveria d’un venditore esperto, che s’immaginava già l’imbroglio delle signore e della ragazza. Ma questa fu commossa grandemente dell’occasione non sperata che le si presentava. Per la seconda volta, l’Hutin le appariva come un amico sconosciuto, quasi un fratello che stesse sempre pronto nell’ombra a salvarla con l’amor suo. Gli occhi le splenderono di gratitudine, e tennero dietro al giovane con un lungo sguardo, mentr’egli, a forza di gomiti, cercava di tornare piú presto che potesse alla sezione sua.
— Volevo vedere dei mantelli disse la Marty.
Allora Dionisia le domandò che genere di mantelli volesse: ma la cliente non lo sapeva, desiderava soltanto vedere i modelli che c’erano. E la ragazza, ch’era di già stanchissima, sbalordita dalla gran gente, perse la testa; a Valognes dal Cornaille non aveva servito che poche persone di quando in quando; e qui non sapeva ancora quanti modelli ci fossero e dove fossero negli armadi. Non le riusciva, per questo, di rispondere alle due amiche, che ci si stizzivano, quando la signora Aurelia vide la Desforges. Doveva sapere di chi era l’amante, perché s’affrettò ad accorrere sorridendo:
— Le signore sono servite?
— Sí, quella ragazza che cerca laggiú. Ma non pare che se n’intenda molto; non trova nulla.
La direttrice subito andò da Dionisia, e a bassa voce le sussurrò:
— Ma non vedete che non sapete fare nulla? State qui, e non vi muovete.
E chiamando:
— Signorina Vadon, un mantello!
Rimase lí mentre Margherita mostrava i modelli. Aveva Margherita una certa voce seccamente cortese e il fare spiacevole d’una ragazza vestita di seta che a forza di strofinarsi alla eleganza, ne ha tratto gelosia e rancore. Quando sentí che la Marty non voleva spendere piú di duecento franchi, fece una smorfia di compassione: con duecento franchi non era possibile che trovasse qualcosa per bene. E buttava sul banco i mantelli ordinari con un gesto che voleva dire: non vedete che porcheria? La Marty non osava piú dire che le piacevano. Si chinò all’orecchio della Desforges:
— Non è vero che gli uomini servono meglio?... Con loro ci si sente piú libere.
Finalmente Margherita mise innanzi un mantello di seta guarnito di jais, con aria piú rispettosa. E la signora Aurelia chiamò con voce severa Dionisia:
— Venite qua, servite a qualche cosa, almeno... Su, mettetevi un po’ questo mantello!
Dionisia, ferita nel cuore, disperando di poter mai riuscire a bene in quel magazzino, era rimasta immobile, con le mani penzoloni. Non ci poteva piú esser dubbio, l’avrebbero licenziata: e pensava che i ragazzi non avrebbero piú avuto nemmeno un pezzo di pane. Il frastuono della folla le rumoreggiava pel capo: barcollava, i muscoli non le reggevano piú, stanchi d’aver alzato tanti mucchi di vestiti, lavoro da facchino che non aveva fatto mai. Nondimeno si avvicinò, e lasciò che Margherita le mettesse addosso il mantello come sopra un fantoccio.
— State su dritta disse la signora Aurelia.
Ma quasi subito dimenticarono lei e il mantello. Il Mouret era entrato col Vallagnosc e il Bourdoncle: salutava le signore e accoglieva i loro complimenti per la magnifica mostra delle novità» da inverno. Naturalmente, parlarono soprattutto del salotto orientale. Il Vallagnosc, che aveva finito il giro lungo i banchi, mostrava piú meraviglia che ammirazione; in fondo, pensava lui nella sua trascurataggine di pessimista, non c’era altro che cotone e poi cotone e poi cotone; una merceria in grande. Quanto al Bourdoncle, anch’egli, dimenticandosi d’essere della casa, faceva i suoi rallegramenti al padrone, affinché dimenticasse i dubbi e le inquiete domande con cui l’aveva tormentato quella mattinata.
— Sí, sí, va bene, son contento — ripeteva il Mouret raggiante; e rispondeva con sorrisi alle occhiatine dolci di Enrichetta: — Ma io non la voglio disturbare.
Allora tutti gli occhi furon di nuovo su Dionisia, che si abbandonava alle mani di Margherita, la quale la faceva lentamente girare su se stessa.
— Che ve ne pare? — chiese la Marty alla Desforges.
La Desforges la consigliava come un’arbitra suprema della moda.
— Non c’è male, e il taglio è originale. Ma mi sembra poco aggraziato nella vita.
— Oh! — esclamò la signora Aurelia — bisognerebbe vederlo alla signora... Sulla signorina non può fare effetto, vestita a quel modo... Raddrizzatevi, bene, signorina; fate valere il mantello per quel che vale.
Sorrisero tutti. Dionisia s’era fatta pallidissima: si vergognava d’essere cambiata a quel modo in una macchina messa in mostra, e d’essere canzonata. La Desforges, cedendo all’antipatia che quel viso dolce di ragazza destava nell’indole sua tanto diversa, aggiunse malignamente:
— Starebbe meglio, certo, se il vestito della signorina fosse meno largo.
E gittò al Mouret l’occhiata canzonatrice di una parigina che ride della goffaggine d’una provinciale. Il Mouret sentí la carezza amorosa di quell’occhiata, il trionfo della donna contenta della sua bellezza e delle sue arti; e, per gratitudine d’uomo adorato, credé dover canzonare anche lui Dionisia, per quanto questa esercitasse un fascino segreto sulla sua indole d’uomo galante.
— E poi bisognerebbe che fosse pettinata — mormorò.
Fu finita. Il direttore si degnava sorridere, tutte le ragazze ruppero in uno scroscio di risa. Margherita finse di non poterne piú, da ragazza per bene che è costretta a rattenersi; Clara, per potersi sfogare a sua voglia, aveva lasciata andare una vendita; perfino delle ragazze della biancheria erano accorse al rumore. Le signore si divertivano piú discretamente, con aria di persone che san vivere e se la intendono tra loro: soltanto il profilo imperiale della signora Aurelia non rideva, come se i bei capelli selvaggi e le sottili spalle verginali della principiante l’avessero disonorata, facendo trovar da ridire sulla sua sezione. E Dionisia s’era fatta sempre piú pallida, in mezzo a tutta quella gente che la derideva. Si sentiva crudelmente oltraggiata, messa a nudo da quegli sguardi, senza nessuna difesa. Che cosa aveva fatto lei perché se la pigliassero tanto con la sua vita troppo sottile e coi capelli troppo folti?
Ma piú duramente soffriva, e il cuore le si accasciava in un dolore nuovo ed acuto per il sorriso della Desforges e del Mouret, indovinando istintivamente i loro rapporti; doveva essere molto cattiva quella signora, se dava noia cosí a una povera ragazza che non apriva bocca; e il Mouret le faceva gelare il sangue nelle vene con uno spavento in cui tutti gli altri suoi sentimenti naufragavano senza ch’ella li potesse analizzare. Allora, abbandonata da tutti, colpita nei suoi piú intimi pudori di donna, né sapendo tollerar l’ingiustizia, dové soffocare i singulti che le salivano alla gola.
— Avete capito? che domani sia pettinata! cosí è indecente! — ripeteva alla signora Aurelia il terribile Bourdoncle, che fin dal primo giorno aveva condannata Dionisia, disprezzando la sua magrezza.
E la direttrice venne finalmente a levarle il mantello di sulle spalle, dicendole a bassa voce:
— Bel principio, signorina! Davvero, se avete voluto darci prova di ciò che sapete fare... Piú sciocca di cosí non si può essere.
Dionisia, per la paura che le lacrime le scappassero dagli occhi, si affrettò a tornare ai mucchi di vestiti che portava via e che metteva in ordine sopra a un banco. Là almeno era confusa tra la folla, e la fatica le impediva di pensare. Ma sentí a un tratto accanto a sé Paolina, la ragazza della biancheria che quella mattina stessa aveva prese le sue difese. Aveva ora veduto tutto, e le mormorava all’orecchio:
— Figliuola mia, non bisogna pigliarsela tanto. Ingozzate, ingozzate: altrimenti se ne accor gono, e ve ne fanno delle altre... Io che vi parlo, sono di Chartres. Già, sicuro, Paolina Cugnot, e i miei fanno i mugnai laggiú. Vedete, m’avrebbero mangiata viva i primi giorni se non avessi mostrato i denti subito. Su, su, coraggio! datemi la mano... Quando vorrete, faremo due chiacchiere.
Quella mano che le era tesa raddoppiò il turbamento di Dionisia. La strinse di nascosto, e si affrettò a sollevare sulle braccia un mucchio di mantelli, temendo di far dell’altro male e d’essere sgridata da capo, se sapevano che aveva un’amica.
La signora Aurelia intanto aveva posato con le sue proprie mani il mantello sulle spalle della Marty, ed esclamava: Bene! benissimo! sta a meraviglia! Pareva un altro. La Desforges sentenziò che non si poteva trovare di meglio. Si venne ai saluti, il Mouret si congedò, e il Vallagnose, che alle trine aveva viste le De Boves, corse ad offrire il braccio alla madre. Margherita, ritta dinanzi a una delle casse del magazzino, numerava le diverse compre della Marty, la quale pagò e comandò che le portassero l’involto nella carrozza. La Desforges aveva ritrovato tutta la sua roba alla Cassa Dieci. Poi le signore si rividero nel salotto orientale. Se n’andavano, ma non senza un altro infinito chiacchiericcio d’ammirazioni. La stessa Guibal si esaltava:
— Che bellezza!... che bellezza!
— Non è vero? pare un harem, un vero harem! E quei tappeti non son nemmeno cari!
— Quelli di Smirne, oh! quelli di Smirne! che colori, che eleganza!
— E quello del Kurdistan, ma guardate! un vero quadro del Delacroix.
La calca a poco per volta diminuiva. Delle scampanellate, con un’ora di intervallo, avevan già chiamato alle due prime tavolate della sera: stava per essere servita la terza, e nelle sezioni a mano a mano deserte non restavano piú se non clienti indugiatesi, che prese dalla febbre dello spendere dimenticavano anche l’ora. Di fuori non veniva altro rumore che delle ultime vetture in mezzo alla voce di Parigi simile a quella d’un Orco ben pasciuto che russasse, digerendo tele e stoffe, sete e trine, di cui l’avevano inzeppato fin dalla mattina.
Dentro, sotto le fiammelle del gas, che avevano rischiarato nel crepuscolo le scosse supreme della vendita, era come un campo di battaglia, caldo ancora della strage dei tessuti. I venditori, sfiniti dalla fatica, stavano accampati tra gli scaffali sossopra e i banchi che sembravano devastati dalla bufera. Nelle gallerie del pianterreno, ingombrate da seggiole fuor di posto, si camminava a fatica; ai guanti bisognava traversare, alzando la gamba, un monte di scatole che il Mignot aveva lasciate andar giú; alle lane non ci si passava affatto: il Liénard sonnecchiava in mezzo a una distesa di stoffe su cui erano ancor ritte qua e là colonne di pezze che, distrutte per metà, parevano case che un fiume straripato avesse portate via; e, piú lontano, la biancheria era caduta come neve per terra: s’inciampava in mucchi di tovaglioli, si camminava su i fiocchi leggieri dei fazzoletti. E al primo piano, peggio che al mezzanino, uno scombussolamento: le pellicce stavano qua e là per terra, i vestiti bell’e fatti s’ammucchiavano come cappotti di soldati messi fuor di combattimento; le trine e la biancheria aperte, spiegazzate, buttate a caso, facevano pensare a un intero popolo di donne che si fossero spogliate là, nei disordinati impulsi d’un desiderio improvviso; e in fondo al magazzino l’ufficio di spedizione tutto affaccendato non faceva che mandar via gl’involti, dei quali era pieno zeppo, e che le vetture si portavano via, ultimo moto della macchina scaldata sino a scoppiare. Ma alle sete specialmente c’era stata la gran retata delle clienti; là avevan fatto piaz za pulita; vi si poteva passare liberamente; la sala restava vuota; tutta l’enorme provvista della «Parigi-Paradiso» era stata tagliata e portata via come da una tribú di cavallette devastatrici. E in mezzo a quel vuoto, l’Hutin e il Favier sfogliavano i loro libretti per le fatture, calcolando quanto venisse loro, ardenti ancora del combattimento. Il Favier aveva guadagnato quindici franchi: l’Hutin non aveva potuto arrivare che a tredici, sconfitto quel giorno e furibondo contro la cattiva fortuna. I loro occhi si accendevano della passione del guadagno: e tutto il magazzino lí intorno non faceva che sommar cifre, acceso dalla febbre stessa, nell’allegrezza brutale delle serate dopo le carneficine.
— Dunque, Bourdoncle, — esclamò il Mouret avete paura anche ora?
Era tornato al suo posto favorito, sull’alto della scala del mezzanino, appoggiato alla ringhiera: e dinanzi alla strage delle stoffe che gli si stendeva sotto, sorrideva da vincitore. I timori della mattina, quel momento d’imperdonabile debolezza che nessuno avrebbe saputo mai, gli facevano provare il bisogno d’un trionfo anche piú clamoroso. La guerra era vinta davvero, il commercio minuto del quartiere bell’e rovinato, il barone Hartmann conquistato con i suoi milioni e con i suoi terreni. Mentre guardava i cassieri che, curvi sui loro registri, tiravan via a far la somma di lunghe colonne di cifre, mentre ascoltava il tintinnio dell’oro che dalle loro dita cadeva nelle ciotole di rame, vedeva già il Paradiso delle signore ingrandirsi smisuratamente, allargare la sala centrale, prolungare le gallerie sino alla Via Dieci Dicembre. — Eh! Bourdoncle, — riprese a dire — lo vedete, sí o no, che la casa è troppo piccola? Si poteva vendere il doppio di roba!
Il Bourdoncle si faceva piccino piccino; contentissimo, del resto, d’aver avuto torto. Ma divennero di nuovo gravemente serii, quando videro passare il cassiere. Ogni sera il Lhomme, primo cassiere della vendita, radunava tutti gl’incassi di ciascuna sezione; fatta la somma, affiggeva un foglio dove era indicata la cifra totale, e poi andava su col danaro nel portafoglio o nei sacchi, secondo che fosse carta o moneta, alla cassa centrale. Quel giorno l’oro e l’argento sovrabbondavano, ed egli saliva lentamente la scala con tre sacchi enormi. Non avendo il braccio destro, che gli era stato tagliato alla spalla, li stringeva col sinistro contro il petto, e col mento ne reggeva uno perché non scivolasse. Il suo respiro grosso si sentiva da lontano; ed egli passava, schiacciato dal peso e pur superbo, tra i commessi rispettosi.
— Quanto? — domandò il Mouret.
— Ottantamila settecento quarantadue franchi e dieci centesimi! — rispose.
Un riso di gioia commosse tutto il Paradiso delle signore. La cifra passava di bocca in bocca. Era il piú cospicuo incasso che un negozio di novità avesse— mai fatto in un giorno solo.
E la sera, quando Dionisia salí per andare a dormire, doveva appoggiarsi alle divisioni dell’angusto corridoio, sotto lo zinco del tetto. Nella sua cameretta, chiuso l’uscio, si gettò sul letto, tanto i piedi le facevano male. Per un pezzo stette a guardare con un’aria stupidita la «toilette», l’armadio, tutta quella povertà di camera ammobiliata. Doveva dunque vivere lí; e la sua prima giornata era stata orribile, eterna. Come avrebbe fatto a riprovarcisi? Poi si accorse ch’era vestita di seta; e «l’uniforme» le parve che la soffocasse. Prima di disfare la valigetta, quella povera figliuola volle rimettersi il vestituccio di lana ch’era rimasto sulla spalliera d’una seggiola. Ma quando riebbe addosso i suoi miseri panni, proprio suoi, la commozione l’assalse, e i singhiozzi, trattenuti fin dalla mattina, ruppero a un tratto in uno scroscio di lacrime calde. Era ricascata sul letto, piangeva pensando ai suoi due ragazzi, piangeva e piangeva senza aver la forza di cavarsi le scarpe, non potendone piú dalla fatica e dalla tristezza.