I principii scientifici del divisionismo/III
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CAPITOLO III
Cause determinanti dei colori.
Queste cause modificatrici della qualità e della intensità dei raggi che pervengono al nostro occhio, sono: la riflessione, la rifrazione, l’interferenza, la polarizzazione, la fosforescenza, la fluorescenza, la opalescenza o colorazione dei mezzi torbidi e l’assorbimento.
RIFLESSIONE DELLA LUCE. — Finché la luce attraversa mezzi omogenei, vale a dire della stessa densità e posizione, essa si propaga in linea retta, ma incontrando una superficie nella quale non può penetrare, il raggio luminoso devia dalla direzione primitiva, mantenendosi su di un piano perpendicolare alla superficie d’incidenza, con un angolo eguale a quello del raggio incidente (fig. 17).
È questa la riflessione detta speculare o regolare, della quale gli specchi offrono gli esempi più comuni.
Si può accertare praticamente la legge della riflessione prendendo una striscia di zinco ( fig. 18), piegandola a metà e bucandola nel centro di ognuna delle due ripiegature. Aperta la striscia ad angolo retto ed appoggiata su di uno specchio, se si fa passare un raggio di luce inclinato di 45 ° dal foro A si può osservare dall’opposto foro B l’immagine della sorgente luminosa riflessa nello specchio, ciò che non potrebbe accadere se il raggio inviato dal lume non percorresse un angolo retto ed il raggio riflesso non fosse sullo stesso piano del raggio incidente.
Ma la luce così riflessa non rappresenta tutta la luce incidente, parte penetrando oltre la superfice di riflessione per rimanervi assorbita e parte essendo diffusa in tutte le direzioni dalle asperità, per quanto invisibili ad occhio nudo, pur sempre esistenti nella maggior parte delle superfici pulimentate. I casi di riflessione totale della luce non si possono vedere che in condizioni eccezionali dei corpi e per Fig. 18. ragioni dipendenti, come si vedrà, dalla rifrazione, però un esempio alla mano si ha guardando dal sotto in su la superfice superiore dell’acqua contenuta in un bicchiere. Se questo è tenuto più alto dell’occhio, in modo che si veda in direzione obbliqua la parte inferiore di detta superficie, essa apparisce più splendente dell’argento brunito e riflette meglio di qualsiasi specchio gli oggetti che fossero posti sul fondo del bicchiere.
Perchè avvenga la riflessione non occorre che il corpo riflettente sia solido ma basta la densità diversa del mezzo incontrato dalla luce.
Questa riflessione può ripetersi in un corpo stesso tante volte, secondo la disposizione molecolare, da rendere opache sostanze che in sè sono trasparenti. Ciò si vede nelle nubi costituite di vapore acqueo, che talvolta, pure senza spessore considerevole, sembrano nere affatto per l’effetto della riflessione che agisce in modo da precludere ogni via di trasmissione della luce per trasparenza; come altre volte si mostrano bianchissime perchè lo stato di divisibilità del vapore acqueo non lasciando penetrare il raggio luminoso colla velocità che gli è propria lo respinge a guisa di specchio.
La bianchezza della neve viene pure dalla moltitudine delle riflessioni prodotte dalle particelle dei cristalli di ghiaccio che la costituiscono in sè trasparenti come trasparente è il vetro, che a sua volta ridotto in polvere minuta, diventa bianco od opaco alla luce. Così è di tutti i bianchi adoperati in pittura, per la loro proprietà coprente, i quali non differenziano dagli altri bianchi che si dicono privi di corpo perchè appena mescolati a qualche liquido lasciano penetrare la luce anzichè rifletterla, se non per la grande suddivisione della loro sostanza, per cui l’influenza ritardatrice della propagazione della luce essendo maggiore più grande è la quantità della luce rimandata.
La luce riflessa e quella diffusa sono i tramiti di percezione dei colori dei corpi, e principalmente la luce diffusa, perchè quella riflessa tende sempre a riprodurre nel nostro occhio l’immagine della sorgente luminosa dalla quale emana, disturbando con l’abbagliamento. Ciò si vede negli specchi, nell’acqua e in tutte le superficie levigate ed in genere anche nelle superfice opache in quei punti maggiormente colpiti dalla luce, che qualunque sia il colore locale sembrano sempre bianchi per questo corrispondere alla immagine attenuata dalla sorgente luminosa che l’occhio vi scorgerebbe distintamente se quei punti, che dagli artisti si dicono lumi, anzichè essere opachi fossero lucidi.
E che la luce diffusa favorisca la visione del colore dei corpi si prova facendo cadere un raggio di sole su di uno specchio posto orizzontalmente, o sul suolo, in una stanza buia. Allora l’occhio che riceve il raggio riflesso non vede lo specchio ma soltanto l’immagine abbacinante del sole. Però se si sparge gradatamente sullo specchio uno strato di polvere, la quantità di luce riflessa diminuisce, mentre aumenta quella diffusa in ogni direzione dai granelli di polvere e l’immagine solare man mano s’indebolisce rendendosi sempre più visibile la superficie e la forma dello specchio. Ciò d’altronde è ben noto ai pittori che impiegando colori lucidi ed opachi hanno mille occasioni di misurare gli inconvenienti della riflessione speculare, che sono massimi nella pittura ad olio, mentre i vantaggi della luce diffusa si godono particolarmente nell’affresco, nella tempera e nel pastello sempre visibili quale si sia l’inclinazione della luce che li illumina.
La riflessione non è causa per sé di produzione di colore, e dal punto di veduta dei fisici infatti essa non rappresenta che il rimbalzo del raggio di luce che incontra una superficie di densità differente dal mezzo percorso. Ma, considerata soggettivamente, la riflessione della luce, nella passività assoluta dell’occhio che non ha sensazioni di sorta se dall’esterno non gli vengono comunicate, diventa della massima importanza come fattore indiretto della maggior parte delle impressioni visive e le leggi che la governano sono si può dire la chiave alla intelligenza di tutte le cause generatrici di colore.
RIFRAZIONE DELLA LUCE. — Quando un raggio di luce obbliquo incontra la superficie di separazione di un mezzo, trasparente, di densità diversa da quella percorsa, avviene che secondo il grado di levigatezza o specularità della superficie d’incontro il raggio obbliquo in parte si rifletta, seguendo la legge enunciata della riflessione, ed in parte penetri ed attraversi il mezzo nuovo, ma deviando dalla primitiva direzione, secondo la densità del mezzo attraversato.
Questo deviamento, che non ha luogo se il raggio è perpendicolare alla superficie attraversata, dicesi rifrazione. Rappresentando con IQ il raggio incidente sulla superficie d’acqua A B ( fig. 19), la direzione Q R segna la devia zione subita dal raggio I O e dicesi raggio rifratto, l’angolo IQ B è l’angolo d’incidenza, e l’angolo R QE l’angolo di rifrazione.
Nel passaggio da un mezzo meno denso, come l’aria, ad uno più denso, come l’acqua, il raggio rifratto Q R si avvicina alla normale NE; se ne allontana invece se il passaggio è da un mezzo più denso ad uno meno denso nel modo che si può vedere dalla figura stessa, supponendo R Q il raggio incidente che allora il raggio rifratto sarà Q I.
Quando si tratti di corpi trasparenti non cristallizzati, come il vetro, l’acqua, l’aria, ecc. il raggio rifratto è semplice ma in numerosi cristalli il raggio incidente dà origine a due raggi rifratti. Si ha per tal modo una rifrazione semplice ed una rifrazione doppia o birefrazione, della quale ultima si avrà occasione di trattare più avanti. La rifrazione semplice della luce è governata da queste due leggi:
1° Il raggio incidente ed il raggio rifratto sono nello stesso piano perpendicolare alla superficie dividente i due mezzi;
2° Qualunque sia l’inclinazione del raggio incidente, l’angolo di incidenza e l’angolo di rifrazione sono in un rapporto costante per due dati mezzi, ma variabile in mezzi diversi.
Importando molto avere un’idea dell’andamento del raggio rifratto, si costruirono molti istrumenti per la dimostrazione pratica, ed uno dei più noti è quello di un tamburo metallico, con uno dei fondi sostituito da una lastra di vetro e ripieno per metà di acqua (fig. 20). Nella fascia circolare Fig. 20. del tamburo è praticata una fessura munita di uno specchietto mobile per proiettare un raggio luminoso nell’interno del tamburo e modificarne la direzione. Così un raggio IO incidente, si riflette in OR e si rifrange seguendo la linea OR’.
Osservando l’istrumento molto di profilo, si vede come il raggio rifratto sia sullo stesso piano del raggio incidente, e quindi anche del raggio riflesso, dal mantenersi tutti questi raggi paralleli al fondo metallico del tamburo. La distanza di R ed R’ dalla normale N può dare il rapporto esatto dell’angolo di riflessione coll’angolo di rifrazione, e facendo rotare il tamburo sulla sua base, si riscontra come, in direzioni differenti del raggio incidente, il rapporto RN ed R’N, si mantenga costante. Questo rapporto fra due dati mezzi di densità differente si dice indice di rifrazione relativo, notando però che si inverte secondo che si considera il passaggio dal mezzo più denso al meno denso e viceversa.
Si deve pure notare una circostanza particolare della rifrazione, conseguenza del rapporto costante fra il raggio incidente ed il raggio rifratto, quando la luce passa da un mezzo più denso in uno meno denso. E questa consiste nel fatto che mentre un raggio si propaga sempre dall’aria nell’acqua, qualunque sia l’angolo d’incidenza, la stessa cosa non accade nel cammino inverso, imponendosi perchè il raggio luminoso possa uscire dall’acqua nell’aria un limite d’inclinazione.
Se una sorgente luminosa fosse nel punto S (fig. 21), posto nell’acqua, i suoi raggi, oltre un angolo di riflessione di 48°35, non si rifrangerebbero più all’uscita nell’aria, perchè la loro direzione non potrebbe essere che o lungo la linea di separazione o al disotto di questa. Ma siccome al disotto non sarebbero più di rifrazione ma di riflessione, così la luce emanata da S presenterebbe il carattere particolare della riflessione totale. Questo valore massimo dell’angolo di rifrazione, si dice angolo limite, ed è solo quando la luce riflessa è forzata in quest’angolo che l’effetto del raggio riflesso riproduce tutta la intensità luminosa della sorgente di luce, senza che occorra una superficie propriamente speculare, come appunto è il caso del miraggio nel deserto o della fata morgana nelle nubi.
Ma la proprietà principale della rifrazione è, per noi, quella di separare luci di diversa natura, per quanto apparentemente riunite in fascio omogeneo e mosse in una stessa direzione, giacché ogni raggio semplice avendo una rifrangibilità propria non può, nel passaggio da un mezzo all’altro, uniformarsi all’indice di rifrazione degli altri raggi costituenti il fascio luminoso.
Questo risultato, però, non è visibile se non è raggiunta una conveniente separazione dei raggi rifratti.
Nel passaggio della luce omogenea da un mezzo terminato da facce parallele, come una lastra di vetro, il raggio incidente penetra deviando secondo la legge già detta, ma per uscirne con direzione parallela al raggio d’incidenza, solo spostandosi alquanto, non accadendo sulla seconda della lastra che l’inversione di quanto succede sulla prima, come si osserva nella fig. 22.
Che se il raggio è di luce composta, nel passaggio dalla prima alla seconda lamina i componenti si discosteranno l’uno dall’altro aprendosi a ventaglio come RIR nella figura 23, per uscire paralleli, per quanto si è detto più sopra;
ma siccome, praticamente, per quanto si riduca esile il raggio col quale si esperimenta, esso è sempre costituito da un fascio di raggi di luce bianca, così le diverse radiazioni colorate uscenti parallele dalla seconda lamina della lastra si ricompongono in luce bianca, e una lastra di vetro a superficie parallela non è adatta per scomporre la luce. Non così avviene quando il mezzo rifrangente sia con tenuto fra superfice rispettivamente inclinate quali presentano i prismi di vetro, perché non essendovi più la seconda superficie che ritorna parallela al raggio incidente il raggio che esce, questo continuerà ad allontanarsi sempre più dal suo contiguo, in modo da presentare distintamente il colore che compete al suo grado di rifrangibilità.
Si considera come prisma, in ottica, qualunque mezzo trasparente, senza colore, terminato da due facce piane non parallele. La forma più comune è quella del prisma di vetro, retto, triangolare (fig. 24),
nel quale sono principalmente da notare: le due facce rettangolari ABCD ed ABEF la cui linea d’intersezione A B dicesi spigolo rifrangente; l'angolo rinfrangente che è che è l'angolo compreso in dette due facce; la sezione principale che dicesi di ogni sezione perpendicolare allo spigolo rifrangente; il vertice A e la base E C.
L’andamento del raggio luminoso nei prismi è facile da determinare quando siano note le leggi della rifrazione. Sia SI il raggio incidente ed ABC una sezione principale (fig. 25): il raggio SI incontrando la faccia A B si rifrangerà una prima volta accostandosi alla normale NO nella direzione I E, entro il prisma, finché incontrando la seconda faccia AC si rifrangerà all'emergenza allontanandosi dalla normale N’ O nella direzione E R.
Però, affinché il raggio luminoso, che si è rifratto sulla prima faccia del prisma, possa emergere dalla seconda, occorre che l'angolo d'incidenza su questa faccia sia minore dell'angolo limite, altrimenti in luogo dell'emergenza del raggio se ne avrà la riflessione totale entro il prisma.
Soddisfatta questa condizione, alla quale si provvede adoperando prismi il cui angolo rifrangente sia minore del doppio dell'angolo limite di rifrazione, è evidente che il raggio di incidenza nel prisma viene notevolmente deviato dalla sua linea di propagazione, e se esso è costituito di luci di diversa rifrangibilità, queste, all’uscire dalla seconda faccia del prisma, verranno sempre più allontanandosi l'una dall'altra anche se il raggio incidente fosse perpendicolare alla prima faccia del prisma, come si vede senz’altra spiegazione nella fig. 26.
La dimostrazione che la luce è composta si deve a questa proprietà dei prismi ed è noto come Newton studiando le cause della rifrazione fosse condotto dal ragionamento a valersi di questo mezzo ed abbia scoperto lo scindersi del raggio di luce bianca attraverso il prisma di vetro nei sette colori semplici dai quali è formata. Quella celebre esperienza è facile da ripetersi, quando si possa avere un prisma di vetro e ridurre una stanza perfettamente oscura.
Ricevendo dunque nella camera oscura un raggio di luce solare attraverso una piccola apertura praticata nell’imposta, questo raggio andrà a formare sulla parete contraria o su di uno schermo collocato a qualche metro di distanza una piccola immagine luminosa ed incolora simile all'apertura di passaggio.
Ma se davanti a questa si pone il prisma triangolare di vetro collo spigolo rifrangente parallelo alla parete forata o meglio normale alla direzione del raggio di sole, si vedrà il sottile filo luminoso piegarsi all'ingresso nel prisma, allargarsi leggermente nell’attraversarlo, poi piegarsi di nuovo all'uscita espandendosi sempre più e proiettare sullo schermo un'immagine allungata (fig. 27), in direzione verticale,
tinta dei colori dell’iride, col rosso all'estremità superiore, seguito progressivamente, verso il basso, dall’aranciato, dal giallo, dal verde, dall'azzurro, dall’indaco, ed in ultimo, dal violetto.
Questo esperimento rudimentale, sufficente appena per ‘avere una prova sensibile della decomposizione della luce, si può rendere ancora più semplice guardando attraverso il prisma e contro la luce del cielo una fenditura sottile, vedendosi anche a questo modo i sette colori semplici. Ma per avere uno spettro ampio e nitido, senza l’inconveniente del dover correre dietro allo spostamento continuo del raggio luminoso che segue il moto del sole, necessitano istrumenti e condizioni che l'artista difficilmente può procurarsi.
Newton chiamò spettro l’immagine colorata prodotta dal prisma e dispersione il separarsi degli elementi semplici della luce, distinguendo coi nomi già detti di rosso, aranciato, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto, i colori che nella lunga serie di gradazioni offerte dallo spettro, si mostrano più distinti. Dedusse anche dalla diversa divergenza dei raggi colorati all'uscita dal prisma, gli indici di rifrazione di ciascun colore; minimo nel rosso e massimo nel violetto; dimostrando inoltre che i colori spettrali sono semplici od indecomponibili.
Infatti, intercettando con uno schermo tutti i colori dello spettro, meno, per esempio, l'azzurro (fig. 28)
e facendo passare il raggio azzurro attraverso un secondo prisma, questo raggio devia e si disperde di nuovo a ventaglio mantenendo però inalterato il suo colore.
Con altre aperture praticate sullo schermo, per dare passaggio a qualsiasi altro raggio semplice e raccoglierlo sul prisma, si avrà per ognuno la deviazione propria del prisma, ma il raggio disperso nuovamente non subisce alterazione veruna di colore, dimostrandosi così la sua costituzione monocromatica.
Che i raggi colorati dispersi dal prisma siano i veri componenti della luce bianca si prova con molte esperienze. La più semplice è forse quella di raccogliere il fascio di dispersione in altro prisma eguale capovolto (fig. 29)
e accostato come il prisma B a quello A. Con questa disposizione i raggi colorati uscenti dal prisma A, traversando il secondo prisma, si riuniscono in un sol punto di luce bianca R'. Ma lo stesso avviene, se in luogo del secondo prisma, si raccolgono i colori di dispersione su di una lente convergente o in uno 'pecchio concavo; tanto coll’uno che coll'altro mezzo, riunendosi di nuovo il raggio stato disperso dal prisma, si avrà per risultato la ricostituzione della luce bianca. Né la luce bianca si ricostituisce pel solo concorso di tutti i colori dello spettro, che Newton scoprì pure come dalla unione del rosso col verde, dell’aranciato coll'azzurro, del giallo col violetto risultasse luce bianca e chiamò questi colori complementari.
Dopo Newton altre indagini sulle proprietà dei colori dello spettro rivelarono influenze chimiche e di calorico al di là degli estremi rosso e violetto, oltre i quali l'occhio nulla scorge, e Vollaston vi scoprì le linee nere studiate poi da Fraunkofer che ne osservò un numero grandissimo contrassegnando le principali colle lettere maiuscole dell'alfabeto. Fig. 30.
Queste linee nere trasversali allo spettro, dette anche strie di Fraunkofer, che si attribuiscono a mancanze di certe radiazioni assorbite dall'atmosfera solare, e qualcuna da quella terrestre, servirono di fondamento alla spettroscopia, ramo della fisica che studia la natura dei corpi dai caratteri spettrali delle loro luci, e dettero anche modo di stabilire in modo sicuro la estensione occupata dalle diverse luci colorate dello spettro.
Il colore contenuto fra le linee A a B C D E e F G H I (fig. 30) corrisponde a lunghezze d'onda fissa e determinata e quindi si potrebbe classificare con sufficente precisione un dato colore dello spettro indicandolo colla posizione delle linee stesse.
Helmholtz nell’ « Ottica fisiologica » a fine di togliere l'incertezza nella denominazione dei colori li distingue appunto in questa maniera: Il rosso occupa l'estremità meno rifrangibile dello spettro fino alla linea C'. Tra le materie coloranti è il cinabro quello che più vi si avvicina. Dalla linea C alla D lo spettro passa dal rosso all’aranciato, che è un rosso giallo con predominio di rosso; poi al giallo d’oro, che è un rosso giallo con predominio di giallo. Il minio si avvicina al primo di questi colori e il litargirio (ossido di piombo) al secondo.
Da D ad E si riscontra una striscia stretta di giallo puro al quale corrisponde bene il giallo di cromo, poi il giallo verde. Da E a e vi è il color verde puro al quale corrisponde l’arseniato di rame (verde di Scheele). Da e a F il verde passa al verde azzurro (smeraldo), all’azzurro verde poi all’azzurro.
Da F a G seguono differenti toni di azzurro. Il primo terzo di questo spazio è occupato dall’azzurro cianico, o azzurro d’acqua, perché si assomiglia all'azzurro delle grandi masse di acqua pura. Il bleu di Prussia lo imita assai bene all'estremo, Gli altri due terzi sono occupati dall’indaco, il quale è ben rappresentato dall’oltremare, che ha tendenza violacea.
Da G ad H ed L esiste il violetto, che qualche autore ha designato col nome di porpora. Secondo Helmholtz, il violetto e la porpora rappresentano la transazione fra i toni bleu e rossi e riserva il nome di porpora alle gradazioni più rosse, senza indicare alcuna sostanza colorante che specifichi e il porpora ed il violetto. Altri autori proposero di classificare le sostanze coloranti a somiglianza di Helmholtz, ma, osserva il prof. Guaita 1: «La comparazione ora riportata fra i colori dello spettro e date materie coloranti è fatta per dare un’idea dei colori stessi, ma scientificamente non è esatta, perché le materie coloranti riflettono tutta una miscela di luci colorate con preponderanza di una o più delle medesime, non mai una sola luce spettrale, ed il colore risultante, per quanto possa avvicinarsi ad uno di quelli semplici dello spettro, non può mai uguagliarlo se non in brevissimo tratto, né può in alcun modo esprimere le delicate ed infinite gradazioni di passaggio dall'uno all’altro tono spettrale.
« I colori dello spettro sono, unitamente a quelli di polarizzazione, gli unici costanti, invariabili, e quindi sono gli unici che si possono prendere come termini di confronto. I pittori dovrebbero studiarli con attenzione e fissarseli bene in mente, e nelle scuole di pittura non dovrebbe mai mancare un buon spettroscopio ».
L’arcobaleno, fra gli esempi della rifrazione della luce, è uno dei più interessanti, e pel contemplatore della natura uno di quelli che suggerisce più spontaneamente la domanda del come si formi. Questo cerchio iridescente non apparisce soltanto nelle nubi ma si presenta ogni volta che un osservatore possa collocarsi fra una quantità notevole di gocce d’acqua sospese o cadenti e una sorgente luminosa viva a poca altezza sull’orizzonte. Nel pulviscolo lanciato dalle fontane, dalle cadute d’acqua o dalle ruote a palette delle navi a vapore, il fenomeno cambia di dimensioni ma è dovuto alle stesse cause, e si spiega dai fisici per un effetto della rifrazione della luce che entra nelle goccie di pioggia, scomponendosi per essere poi riflessa verso l’osservatore.
In ogni goccia il raggio di luce avrebbe un percorso analogo a quello che accade in un prisma, come si vede dalla fig. 31, che suppone in SS la sorgente luminosa, in VV le gocciole d'acqua, e in O l'occhio verso cui convergono i raggi colorati. Fig. 31.
Il centro dell'arcobaleno giace sulla retta che passa per il sole e l’occhio dell’osservatore, e perciò non è visibile quando il sole è alto ma appare in semicerchio al sorgere e al tramonto del sole quando cioè questo è all’orizzonte (fig. 32).
La colorazione dei cerchi dell’arcobaleno segue normalmente la disposizione dei colori dello spettro, il violetto nell’interno e il rosso all’esterno, talvolta però un altro arco più pallido si disegna all’esterno coi colori invertiti, cioè il rosso internamente ed all’infuori il violetto, ma l’ordine di successione dal violetto al rosso rimane immutato come nello spettro solare, e non come ad arbitrio spesso si rappresenta dai pittori, come rimarcarono giustamente l’Albertoli ed altri su quadri di John Constable e di Millet, e si vede anche su diversi antichi dipinti.
INTERFERENZA E POLARIZZAZIONE. — È una conseguenza della teoria dell'ondulazione, adottata per spiegare i fenomeni luminosi, il principio che due onde della medesima ampiezza e lunghezza che si sovrappongono nella stessa direzione, debbano produrre come risultato un moto che avrà un'ampiezza doppia se le due onde sono in concordanza di fase (cioè di stato di vibrazione molecolare, velocità e direzione del moto), e l'effetto sia nullo quando le onde si oppongono elidendosi a vicenda. Quest'azione dell’ onda sull'onda applicata da Young alla luce, ha ricevuto il nome di interferenza.
Nelle ondulazioni luminose l’elisione del moto non potendosi tradurre che in oscurità, avviene dunque che la luce possa estinguere sé stessa, o meglio, poiché essa non è semplice, ed ogni suo componente ha diversa lunghezza d'onda, possa mostrare dei massimi e dei minimi d'intensità luminosa e quindi delle colorazioni brillanti ed oscure. La condizione necessaria perché l'oscurità si manifesti è la elisione vicendevole completa di raggi egualmente composti, e che in un dato punto dello spazio i due moti provengano da una piccola estensione della sorgente luminosa comune, perché altre coppie d'onde non intervengano sullo stesso punto, inviate dagli stessi impulsi ma un po’ più lontani, a mescolarvisi, rendendo la luce uniforme come general mente si vede accadere, non trovandosi mai soddisfatte simili condizioni negli effetti luminosi usuali.
Comunissime invece sono le interferenze o collisioni di onde che eliminano qualche elemento semplice della luce, quando l’incontro avviene sotto piccoli angoli, quali succedono cedono fra le due superfice delle lamine trasparenti e sottili, avendosi allora produzione di colore anziché di oscurità. In tal caso la luce incidente sulle lamine viene riflessa in parte dalla prima superfice, e penetra in parte fino alla seconda per ivi riflettersi e uscirne di nuovo in direzione parallela al raggio riflesso primitivo, ma in ritardo del tempo impiegato a penetrare la grossezza della lamina, e perciò capace d’interferire sul primo.
Infatti siano le due superfice di una lamina in L M ed L'M' (fig. 33 ) e sia AB il raggio incidente. Al punto di incidenza B il raggio AB si dividerà in B D raggio riflesso e in B C porzione di raggio rifratto nella lamina.
Ma la porzione di raggio B C sarà a sua volta riflesso sulla seconda lamina L’M’per rifrangersi uscendo secondo la linea EF.
Evidentemente il raggio ABCEF deve impiegare un tempo maggiore per arrivare in F che non il raggio ABD per giungere in D. Il ritardo dipenderà non solo dalla differenza di spazio percorso, ma dalla velocità diminuita per il raggio ABCEF dalla densità del vetro, maggiore di quella dell’aria, lungo il tratto BCE. Anche l’avvicinamento maggiore o minore dei raggi BD ed EF sarà dipendente dalla grossezza della lamina, sino a toccarsi e dar luogo, per interferenza, o al distruggersi di certi elementi di ciascun raggio o all'aumento d'intensità di certi altri, per cui il raggio di luce bianca incidente verrà ad uscirne colorato secondo le radiazioni mancanti e le addizioni avvenute.
I colori delle bolle di sapone, quelli degli strati esilissimi che formano l'olio e i liquidi volatili nell’espandersi alla superfice dell'acqua, lo strato d'ossido che si ottiene riscaldando l’acciaio temprato e pulito, che si colora in turchino, giallo o violetto, sono effetti d’interferenza. Tali sono pure le iridescenze dei ghiacciai, gli splendori metallici delle penne di tanti uccelli, dei pesci e della madreperla.
Il quarzo cristallizzato, la mica o gesso speculare, l’adularia e in generale tutti i fossili trasparenti, di frattura lamellare, quando portino nel loro interno alcuna tenue screpolatura, presentano le più varie degradazioni di colori dovute alle sottili lamine interposte: e celebri per meravigliosi scintillii d'ori, di porpora e di azzurri indescrivibili sono i vetri antichi romani rimasti lungamente sepolti, e per le interne e sottili concrezioni fatti esemplari impareggiabili degli effetti dell’interferenza.
Simili colorazioni si possono ottenere facilmente adagiando una contro l’altra due lastrine di vetro bene terse e piane, purché rimanga fra l'una e l'altra uno strato sottile d’aria che funzioni come le lamine sottili, variandosene il colore e la forma al solo premere colle dita le lastre. Anche gli anelli colorati detti di Newton, che pel primo li studiò, si possono riprodurre sempre che si voglia, posando una lente piano-convessa di grandissimo raggio di curvatura sopra una lastra di vetro perfettamente piana (fig. 34). Se le due superfice sono accuratamente asciugate, e poi si espongono davanti ad una finestra alla luce del giorno, in modo da vederle per riflessione, si scorge nel punto di contatto una macchia nera cinta di molti anelli colorati, le cui tinte si indeboliscono gradatamente verso la periferia della lente.
Se si guardano gli anelli per trasmissione allora presentano i colori complementari di quelli di riflessione. Mancando una lente grandissima per fare l'esperienza si può sopperire con una piccola osservando gli anelli attraverso una lente d'ingrandimento.
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Un'altra serie di colori può essere rivelata da certi corpi trasparenti, i cui effetti dipendono non più dalla direzione del raggio luminoso che li attraversa, ma dalla orientazione delle particelle dell'etere, che nelle onde luminose si è notato vibrare trasversalmente alla lunghezza dell'onda stessa.
In un raggio di luce bianca queste particelle vibrano in tutte le direzioni trasversali possibili, perpendicolari al raggio, ma se una causa intervenga a dirigere tutte in un verso queste vibrazioni, questo raggio acquista proprietà speciali e la luce che ne risulta si dice polarizzata.
La luce si polarizza per riflessione, per rifrazione semplice e per doppia rifrazione.
Facendo cadere un raggio di luce naturale I M (fig. 35) su di una lastra di vetro inclinata in modo che il raggio formi un angolo di 359,25' rispetto alla superfice d’incidenza, il raggio si rifletterà secondo un angolo pure di 359,25' e sarà polarizzato.
Questo raggio, incontrando un'altra lastra di vetro inclinata in guisa da formare un angolo ancora di 35°,25', non potrà più essere riflesso colla stessa intensità luminosa, anzi si mostrerà estinto in R se la polarizzazione avvenuta sulla prima superficie speculare sia stata completa. Sotto Fig. 86. tutt'altro angolo e specialmente quando gli specchi A e B siano paralleli non si avrà che la riflessione normale della luce, e in R risponderà l'intensità luminosa di qualsiasi raggio M (fig. 36).
Fig. 36. luce, e in R risponderà l'intensità luminosa di qualsiasi raggio M (fig. 36).
Polarizzando la luce con una lastra di vetro trasparente tutta la luce del raggio incidente sotto il detto angolo di 35°,25' non viene riflessa; la maggior parte penetra nel vetro e si rifrange secondo le leggi già conosciute, però si trova che questa luce rifratta è solo parzialmente polarizzata. Questa quantità di luce polarizzata di rifrazione si può aumentare riunendo molte lastre di vetro. Allora la luce che tocca la prima lastra si rifrange di nuovo nel passaggio per la seconda lastra e le successive, aumentandosi per ogni rifrazione la luce polarizzata trasmessa. A questa riunione di vetri (fig. 37) si è dato il nome di pila, e tanto il vetro nero che le pile di vetro trasparente prendono il nome di polariscopi, perché servono a produrre la luce polarizzata, quanto ad analizzarla.
La doppia rifrazione è pure accompagnata da polarizzazione della luce; e perciò in vari cristalli che presentano la doppia rifrazione si può ad un tempo avere gli istrumenti per produrre luce polarizzata ed analizzarne sui cristalli stessi gli effetti. Questi effetti si traducono in colorazioni analoghe a quelle d'interferenza prodotti nelle lamine sottili, ma così ordinate e varie da costituire, colle più belle fra le esperienze dell’ottica, una delle dimostrazioni più persuadenti, per il pittore, del nesso assoluto che esiste fra il colore dei corpi e la loro disposizione molecolare.
Si è già detto che la rifrazione dipende dal cambiamento di velocità che subisce la luce nel passare da un mezzo trasparente ad altro di densità diversa. Nei corpi trasparenti omogenei, quelli cioè nei quali la densità ed elasticità dell’etere si mantiene uguale in tutti i punti del medesimo corpo, la rifrazione segue la legge enunciata, che si dice di rifrazione semplice, perché ad un raggio incidente corrisponde un sol raggio emergente, ma se la costituzione molecolare del corpo è tale da variare nello stesso corpo la densità ed elasticità dell'etere secondo certe direzioni, la luce, per queste direzioni, subirà altrettanti ritardi od aumenti di velocità e sarà rifratta per ciascheduna di esse.
A simile sdoppiarsi della luce emergente da un sol raggio d’incidenza si è dato il nome di fenomeno della doppia rifrazione.
Tutti i sistemi cristallini, salvo il monometrico, presentano condizioni molecolari per le quali le direzioni della luce attorno ad un punto non rimangono le medesime, ma si dividono e si dicono perciò birefrangenti. Nello spato d’Islanda, cristallo del sistema romboedrico, la doppia rifrazione si manifesta in modo singolare, tanto è diversa l’elasticità dell’etere nella direzione dell’asse di cristallizzazione, e nelle direzioni perpendicolari a questo, talché la separazione del raggio incidente nei due emergenti non presenta incertezze di sorta.
Questo si prova ponendo un cristallo di spato sopra un cartone bianco che abbia segnato un punto in nero o (fig. 38): guardando attraverso il cristallo questo punto l’occhio ne vede due immagini in o' ed o, e tenuto fisso il cartone facendo rotare il cristallo, l’una immagine si mantiene ferma mentre l’altra le gira attorno.
Il raggio incidente o si è dunque diviso in due raggi: uno l'o' e che rappresenta l’immagine fissa e chiamasi il raggio ordinario perché segue l’andamento della rifrazione semplice, l’altro o i detto raggio straordinario, che rappresenta il fenomeno della doppia rifrazione.
Per intendere come si determini la separazione dei due raggi, occorre ricordare nella forma romboedrica dello spato
d'Islanda la disposizione dell’asse ottico e della sezione principale.
Sfaldando un cristallo di spato d'Islanda in maniera da ottenere tutti gli spigoli eguali, risulta un prisma di sei faccie romboidi eguali costituenti un romboedro (fig. 39).
La linea A O che congiunge gli angoli triedri ottusi è l'asse ottico o di cristallizzazione, ed il piano a d c d perpendicolare ad una faccia del cristallo naturale, che per solito si riduce ad un parallelopipede allungato come quello della figura, ed avente la stessa direzione dell'asse, dicesi sezione principale.
Ora nello spato d'Islanda le molecole cristalline hanno una distribuzione simmetrica soltanto lungo l’asse del cristallo e lungo questo il raggio trasmesso subisce la rifrazione semplice. Ma nelle direzioni normali all'asse l’elasticità è diversa, cosicché le vibrazioni dell'etere non potendo più avvenire nello stesso senso il raggio luminoso deve modificare la propria velocità per potervisi propagare; e la doppia rifrazione è il fenomeno che do ne segue.
Avviene dunque per questa particolare struttura dello spato che il raggio che lo attraversa, oltre al dividersi in due direzioni, orienti le vibrazioni trasversali tutte in un senso per cui si polarizza, e il prisma birifrangente serva anche per polarizzare in luogo delle pile di vetro.
Per analizzare meglio col prisma di spato si sceglie un cristallo di forma allungata che si taglia diagonalmente frapponendovi uno strato di balsamo del Canadà, o di altra sostanza trasparente più densa del cristallo.
Il taglio del parallelopipede è perpendicolare alla sezione principale, e il suo piano passa per i due angoli ottusi. Il balsamo di Canadà, col quale sono riuniti i due pezzi, avendo un indice di rifrazione maggiore dello spato, determina il deviamento completo del raggio ordinario O (fig. 40) da un lato. Così ridotto lo spato dicesi prisma di Nicol e più brevemente un nicol.
Nello spato si può anche aumentare la doppia rifrazione se, partendo da una faccia naturale dello spato A B (fig. 41), si taglia l’altra A C perpendicolare alla sezione principale, e il prisma così ottenuto si congiunge ad altro prisma di vetro A DC. Per tale modo un raggio O che penetri nel vetro si divide sullo spato, e pei rapporti fra gl’indici di rifrazione del vetro e del cristallo il raggio ordinario O è deviato fortemente verso la base CB. Questo prisma dicesi birefrangente.
Riepilogando, sulle proprietà dei nicol si rileva dunque, che questo prisma polarizza la luce che lo attraversa in un piano perpendicolare alla sezione principale, e non trasmette che la metà della luce che lo incide, cioè il raggio straordinario, cosicché quando si sovrappongono due nicol se i loro assi ottici non sono paralleli ma incrociati la luce resterà completamente estinta.
Ora è evidente che raggi luminosi a vibrazioni non consentanee alla elasticità dell'etere distribuito negli assi ottici dei nicol debbono per penetrarvi subire ritardi di velocità e dar luogo a collisioni di onde colle conseguenti interferenze.
Per ciò se fra due prismi di nicol (fig. 42) colle sezioni principali incrociate, si interpone una lamina sottile di cristallo birifrangente, mica, spato, quarzo, o cristalli d’acido tartarico, la luce torna a farsi strada fra i nicol ma riappare con fenomeni di colorazione sorprendenti.
Fig. 42. Nel raggio così trasmesso tutti i colori dello spettro sono rappresentati con una intensità che, se non uguaglia quella della dispersione prismatica fatta nella camera oscura, raggiunge però le colorazioni più ricche offerte nel tramonto del sole e nelle aurore.
Colle lamine di mica i colori sono più spesso disposti a striscie diritte parallele, o sono plaghe informi variate sui margini, come si vedono nelle lamine sottili prodotte dalle bolle di sapone, ma con lamine di cristalli biassici i color prendono disegni più regolari (fig. 43 e 44). Da fascie concentriche traversate da una croce, iridiscenti come l’arcobaleno, passano alle elissi doppie traversate da pennacchi oscuri, che girando le lamine, variano secondo che il piano degli assi coincide con la sezione principale dell'analizzatore o del polarizzatore (fig. 45 e 46).
Il vetro compresso o che è stato riscaldato e poi raffreddato bruscamente, non però in guisa da riempirsi di screpolature, offre le stesse od analoghe colorazioni anulari (fig. 47),
Fig. 47. con croci e striscie di grande varietà di disegno, quando sia attraversato da luce polarizzata e visto con un analizzatore (fig. 48 e 49).
L'interesse del pittore per queste colorazioni, che non si mostrano mai in natura, non potrebbe però oltrepassare i limiti di una curiosità che l’insistere dei disegni su di un ordine di colori sempre eguali presto soddisfa, e quindi dalla conoscenza di questi fenomeni l'artista, salvo che del beneficio generale di qualche cognizione di più, non si avvantaggerebbe gran fatto addentrandosi in questi penetrali dell'ottica fisica, se avvenisse che il mostrarsi di questi colori nei cristalli birefrangenti sottoposti alla luce polarizzata, si arrestasse alle manifestazioni succintamente descritte.
Ma i cristalli che sdoppiano il raggio di luce che li attraversa sono ancora dotati di un’altra proprietà dipendente sempre dalla stessa costituzione molecolare che modifica le vibrazioni trasversali dell'onda luminosa, ed è quella di presentare contemporaneamente due immagini dei colori di interferenza collo stesso disegno, ma invertite nei colori secondo la legge dei complementari e specialmente i cristalli di quarzo, in lamine di conveniente sottigliezza offrono immagini complementari spoglie di ogni abbellimento di capricciose o regolari ornamentazioni, cosicché essendo cognita l’importanza delle opposizioni di tali colori e la dificoltà di poterli avere sott'occhio in modo perfetto, il vantaggio di riuscirvi con un procedimento relativamente facile non potrebbe essere mai abbastanza apprezzato.
Questa proprietà dei cristalli di quarzo, dovuta alla polarizzazione detta rotatoria, che sarebbe troppo lungo esplicare, permette altresì di accertare il ricomporsi della luce bianca, dalla combinazione dei colori complementari quando mancasse il mezzo di poterlo fare sullo spettro solare. Per ottenere tutto ciò basta porre una lastra di quarzo tagliata perpendicolarmente all'asse sul polariscopio che abbia un prisma di poco potere birefrangente, vale a dire nel quale le due immagini non succedano troppo distaccate l’una dall’altra, affinché una porzione di una delle immagini arrivi a sovrapporsi sull’altra. Facendo rotare l’analizzatore sinché si scorga una coppia di colori, si osserva come nella porzione di incrocio delle due immagini complementari (fig. 50), si produca nettamente la luce bianca. Girando lentamente il prisma a destra o a sinistra le immagini passano successivamertte per tutti i colori dello spettro mantenendosi sempre complementari a due a due e sempre originando la luce bianca nella porzione incrociata.
Con qualche pazienza si può ancora disporre in modo la distanza del cristallo dalle lenti, che i colori prodotti siano più o meno intensi, e avere così il raro vantaggio di una approssimazione a colori tenui in genere presentati dalle cose naturali, senza che per questo i rapporti per ciascuna coppia siano meno precisi, verificandosi ugual mente la luce bianca nelle unioni dei complementi perché non dipende dalla intensità di questi, ma dalla proporzionalità dell’uno rispetto all'altro.
FOSFORESCENZA E FLUORESCENZA. — Un'altra causa di produzione di colore non meno recondita e della quale è dato raramente di vedere in natura gli effetti, dovuti all’azione chimica della luce e specialmente dei raggi azzurri, violetti ed ultravioletti è la fosforescenza, che si manifesta in un numero molto limitato dì sostanze, con fenomeni di luminosità variamente intensi ed in genere di poca durata.
Le sostanze fosforescenti si dividono in due classi secondo la durata della luce che emettono dopo essere tolti all'influenza generatrice del fenomeno. Quelle che mantengono più lungamente l’effetto appartengono ai corpi propriamente detti fosforescenti, le altre che si spengono collo scomparire della causa sì dicono fluorescenti, dallo spatofluore che appartiene ai corpi soggetti a questi fenomeni. Secondo i corpi e la loro preparazione queste luci passeggere assumono diverso colore, ma ciò che sorprende di più nella fosforescenza è il mostrarsi nell'oscurità, quando manca apparentemente ogni forza eccitatrice di luce all'intorno, o, se questa esiste, come nel caso di impiegare raggi violetti, originare luci di altri colori.
Uno dei corpi che offrono più distintamente questo genere di luce, è il vetro di uranio. Sottoponendo, in una camera oscura, una lastra di vetro d’uranio ai raggi violetti dello spettro, la lastra non si colora in violetto come succederebbe in qualunque altro corpo, ma emette una luce splendidissima verde, e come se il vetro fosse diventato luminoso per sé stesso. Nello stesso modo agiscono il solfuro di calcio, il platino-cianuro di bario, il bisolfato di chinina, alcune qualità di petrolio, e la tintura alcoolica di scorza d’ippocastano, imbevendone un foglio di carta e proiettandovi sopra la parte violetta ed ultravioletta dello spettro ricavato da un prisma di quarzo, che si mostra più trasparente per i raggi chimici.
Fu la fotografia, fondata come si sa sulle proprietà chimiche della luce, che servì alla scoperta dei raggi ultravioletti, essendosi osservato che raccogliendo su di una lastra fotografica uno spettro solare l’impressione si estende al di là della linea I, linea di termine della visibilità di uno spettro solare comune. Per un tratto eguale allo spazio occupato dal violetto l’impressione è solcata da righe come nella regione visibile e le più grosse si denominarono L, M, N, ecc. Ma di questi raggi singolari che per la loro azione chimica furono detti attinici, a differenza di quelli che nella estremità opposta dello spettro, al di là del rosso visibile, si manifestano per fenomeni di calorico, e perciò detti raggi oscuri calorifici, basterà l’aver fatto cenno per non lasciare incompleto il quadro delle proprietà della luce nella generazione dei colori.
COLORAZIONE DEI MEZZI TORBIDI. — Quando in un liquido o nell’aria sono diffuse in quantità considerevole delle minute particelle di una densità diversa del mezzo immergente, la luce riflessa e rifratta infinite volte dalle piccolissime parti che ne alterano la velocità normale di propagazione dà luogo a produzione irregolare di colori cui fu dato il nome di colorazione dei mezzi torbidi od opalescenza, per la somiglianza che i colori prodotti da questo fenomeno hanno coi colori presentati dall’opale, pietra ben nota per i suoi riflessi azzurri e le dorate trasparenze che ne formano il pregio singolare.
Il cielo presenta i fenomeni più vasti e spesso intraducibili per il pittore, di questo comportarsi della luce nelle condizioni enunciate allora che le masse dei vapori esalati dalla terra si interpongono ai raggi del sole, mentre in parte ne sono illuminati direttamente o riflettono la luce diffusa dall’atmosfera, mostrandosi ora tinti di tutte le gamme, dall’aranciato al rosso cupo ed al violetto, od azzurreggianti sino all’oltremare più intenso.
In soluzioni d’acqua ed essenze aromatiche od alcooliche, oppure di acqua ed acetato di piombo, o di calce, o di latte, si può sempre verificare la tendenza all’azzurro provocata nel liquido dalla suddivisione di queste sostanze di densità differente, quando si osservano per riflessione, e giallognole se si guardano per trasparenza in un recipiente di vetro posto contro la luce.
Una colonna di fumo che s’innalza nell’aria ripete la cono ranciate o rosse dizione di due mezzi di densità diversa, e perciò se il fumo è veduto contro il cielo luminoso apparisce rossastro, e sembra azzurro quando distacca su di un fondo oscuro, perché è solo per la luce riflessa che allora possiamo vederlo.
La tinta azzurra dei mezzi torbidi si palesa meglio ogni volta che le particelle in sospensione nell’aria, nei liquidi o nei gaz, sono vedute contro uno spazio od una superfice nereggiante. L’azzurro del cielo viene dalla quantità enorme di pulviscoli contenuti nell’aria i quali riflettono la luce del sole, avendo dietro a sé il vuoto immensurabile nel quale la terra si muove.
Così le gradazioni più o meno intense d’azzurro delle montagne lontane provengono dal loro colore proprio o investito d’ombra, attenuato dallo spessore d’atmosfera più chiara interposta. Nel paesaggio quindi la colorazione prodotta dallo stato atmosferico segue principalmente questa legge dei mezzi torbidi, che manifestasi nei suoi estremi rosso ed azzurro secondo che la luce del sole trova maggiore o minore strato da attraversare. Ed appunto quando il sole è alto ed il cielo sereno gli effetti di opalescenza sono pressoché inavvertibili, mentre a misura che il sole ’scende all’orizzonte, verso sera, o che al mattino viene mostrandosi all’orizzonte, traversando cioè la maggior grossezza d’aria e incontrando maggior quantità di vapori, l’aria acquista distintamente i colori gialli ed aranciati e rossi intensi che formano i meravigliosi spettacoli del tramonto e dell’aurora.
Questa colorazione speciale, detta dei mezzi torbidi, si presenta tutte le volte che applicando su di un fondo scuro del bianco di una densità tale da coprire completamente lo scuro sottostante, se ne lascia alcuna parte più sottile. In tali punti il bianco prende un colore decisamente azzurrognolo. Ciò si vede benissimo quando si vuol lumeggiare, col gesso o la biacca, un disegno su carta tinta, se inavvertitamente si sfuma il bianco col dito o con uno sfumino, facendo cioè in qualunque modo pressione sul bianco e riducendolo in strato sottile, il che avviene anche col pennello ed il bianco liquido, essendo sempre lo stesso principio che regola l’effetto.
Dalla stessa causa è originata la tinta azzurra che spesso appanna la vernice sui dipinti ad olio, essendosi verificato che tale inconveniente non procede da ammuffimento, come una volta si riteneva, ma da una serie minutissima di screpolature della vernice che agiscono per le molte riflessioni di luce bianca, come se uno strato esile di bianco fosse sopraposto al colore del dipinto, per ciò determinandosi la colorazione azzurra specifica, detta dei mezzi torbidi.
La tendenza all’azzurro delle vene sotto la pelle procede dalla stessa causa, come pure le tinte fredde che si osservano nella vicinanza dell’inserzione dei capelli nella pelle, e l’azzurro caratteristico della cornea nei bambini.
- ↑ L. Guaita, La scienza dei colori e la pittura, Hulrico Hoepli, Milano 1893, pag. 21.