I primi passi dell'Italia in Africa
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I PRIMI PASSI DELL’ITALIA
IN AFRICA
Il Regno Sardo e gli Stati barbareschi. — Cavour alla ricerca di una colonia penale in Africa. — L’Italia unita continua tale ricerca anche fuori dell’Africa. — L’acquisto di Assàb. — Tunisi. — Egitto. — Tripolitania. — Marocco. — Occupazione di Massàua. — Dogàli. — Italia e Menelich. — Il trattato di Uccialli. — La Colonia Eritrea. — Italia — Etiopia — Inghilterra — Russia e Francia — La battaglia di Adua e la caduta di Crispi. — Occupazione di Càssala e suo abbandono. — La Somàlia italiana. — Conclusione.
Il Regno Sardo e gli Stati barbareschi. — Per l’ormai indiscussa teoria dell’opposta sponda, l’Africa mediterranea à sempre avuto, sin dalle più remote epoche storiche, un’attrazione irresistibile sulla gente d’Italia e dell’Europa da un lato, e, dall’altro, sulle genti dell’Africa mediterranea le coste della stessa Italia e dell’Europa mediterranea. Così, il piccolo Regno Sardo era stato tra i primi Stati europei ad allacciare relazioni diplomatiche e di commercio con gli Stati barbareschi.
È noto che uno dei più antichi consolati europei in Tunisia è quello Sardo, oggi d’Italia; e che, il 6 ottobre del 1825, nel castello di Aglié, fu firmato un trattato bilingue fra il Re Carlo Felice di Savoia ed il Sultano o Imperatore del Marocco dell’epoca. Il trattato era di pace, di amicizia perenne e di commercio. Questo trattato — osserva giustamente Gustavo Chiesi — «è certamente notevole per l’epoca nella quale fu redatto, e per la intonazione di grande buona fede, semplicità e chiarezza con cui fu stillato: ben differente da tutti gli artifizi e da tutte le insidie che si condensano negli articoli dei più recenti atti o trattati, riguardanti la politica coloniale nostra e degli altri paesi» (p. 9).
Ma il piccolo Piemonte sapeva all’occorenza farsi rispettare da chi avesse avuto l’intenzione di perpetrare abusi e di ingiuriare la sua bandiera, angariando i sudditi da esso dipendenti. Fu così che, nel 1825, fu fatta una dimostrazione di forze dinanzi a Tripoli di Barberia, covo dei più audaci pirati nelle acque del Mediterraneo. Tale dimostrazione di forze giovò, senza dubbio alcuno, al prestigio dello Stato Sardo che non era l’Italia nazione unita.
Quindi, i tentativi fatti da esso in Africa, non sono, in ogni caso, tentativi di colonizzazione o di conquista.
Ma, accanto a questo Stato Sardo, non bisogna dimenticare che gli Italiani della Penisola, frantumata e arlecchinesca, erano numerosi ovunque nell’Africa settentrionale: in Tunisia, in Egitto specialmente. Se non che queste colonie di Italiani, dipendenti dai vari staterelli d’Italia non erano neppure esse colonie di dominio diretto, perchè, in quel tempo, era assurdo poter far ciò ad una Italia che, se non era — come bestemmiò il Metternich — «un’espressione geografica» e come — con ancora più solenne insulto la chiamò il Lamartine — non era certamente in grado di pensare a conquiste coloniali, essendo essa stessa, purtroppo, una colonia. Colonia nel vero senso della parola, specialmente durante il glorioso e turbinoso periodo napoleonico. Perchè, in verità, nel concetto di Napoleone Bonaparte, l’Italia deve rappresentare una vera colonia Impero da lui con tanta audacia e potenza instaurato. Intanto, l’Africa settentrionale, poco dopo il 1825, era già stata assaltata dall’Europa, perchè entrasse nell’orbita della civiltà europea. La Francia, onusta di gloria e di storia gloriosa, aveva messo piede in Africa settentrionale nel giugno del 1830 con lo sbarco di Sidi Ferrùsc.
Questa potente, civile e bellicosa nazione aveva, forse incoscientemente, dato il segnale dell’assalto della Barberia, nido di pirati e di taglieggiatori crudeli e rapaci.
Cavour alla ricerca di una colonia penale in Africa. — Il piccolo Piemonte governato da un grande ministro pensava che non era sempre conveniente restare spettatori impassibili dinanzi all’espansione altrui; ma — com’è naturale — non poteva mai pensare a lanciarsi in imprese coloniali guerresche, sia perchè lo Stato sardo non sentiva nessun assillo per esuberanza demografica, sia perchè esso non aveva una statura tale da cimentarsi da solo in guerre coloniali.
Ma il Cavour, sempre vigile, non aveva sdegnato di avviare trattative col cardinal Massaia e con il padre Stella, i quali gli avevano fatto balenare la possibilità di commerci con l’Impero etiopico ed anche la fondazione di colonie di agricoltori.
Infatti, nel 1859, il cardinale Massaia, vicario apostolico nei Galla aveva scritto il padre Léon des Avanchères, in Torino, di comunicare al ministro Cavour che il degiasmacc Negussiè, signore del Tigrài e pretendente al titolo di Negus Negàst, era disposto a cedere, mediante un compenso pecuniario, un tratto di costa fra Zula ed Amfilé, per fondarvi una colonia penale.
Quest’offerta del Massaia, per il tramite del des Avanchères, era stata provocata da due richieste in questo senso, fatte nel 1852 e nel 1867 dallo stesso ministero degli esteri del Piemonte. Il quale ministero si riprometteva — come si disse — oltre alla fondazione di una colonia di deportati, anche, eventualmente, una colonia di liberi cittadini, atti ad allacciare relazioni di commercio tra l’Etiopia ed il Piemonte. Il padre Stella, che si trovava in missione apostolica nel paese dei Bògos, aveva pure fatta un’analoga proposta al Cavour, per mezzo di un suo fiduciario, Antonio Rizzo. Il padre Stella, piemontese anche lui, faceva la proposta della fondazione di una e vera e propria colonia sarda nel Tigrài.
Non è dubbio che — se gli avvenimenti del 1859 non fossero stati incalzanti — il Cavour avrebbe esaminate le due proposte con la consueta attenzione, approfittando della buona occasione che gli si presentava. Il conte di Cavour venne a morte — come si sa — nel 1861: sicchè di colonia penale o commerciale non si parlò più nel regno d’Italia, ancora caldo per le lotte dell’indipendenza e non certamente così omogeneo, compatto e preparato da pensare ad avventure, sia pur pacifiche, nella non vicina Etiopia. Tuttavia, il padre Stella non abbandonò l’idea ed, avuta in concessione una zona di terreno presso Chèren (Keren), vi impiantò una colonia agricola con trenta coloni, guidati dallo Zucchi e dal Bonichi:
Questo avveniva nel 1867. Due anni dopo, la vedova dello Zucchi chiese aiuti al Governo d’Italia il quale — com’era da prevedersi — non ne volle sapere; così questo primo tentativo di colonizzazione pacifica andò a male.
L’Italia unita continua tale ricerca anche fuori dell’Africa. — Alla morte del Cavour, sopravisse tuttavia l’idea della fondazione, in Africa o fuori, di una colonia penale per impedire — si diceva — le evasioni dei detenuti ed anche per sfollare le carceri. Questa idea era diventata assillante in quanto che la stessa Francia, che faceva scuola, aveva stabilito di deportare i detenuti alla Guaiana, nel 1851 e, nel 1867, alla Nuova Caledonia.
Le discussioni, intorno alla fondazione di tale colonia penale, furono animate durante un ventennio; ed i progetti si susseguirono a rotazione continua. Anche il Mantegazza era fautore di una colonia penale. Ma il più accanito fautore di essa era certamente Adolfo De Foresta, autore dell’opera: «Nè prigioni nè patiboli».
Tuttavia, il direttore delle carceri di allora era di parere contrario, e di parere non meno contrario tutti gli avvocati indistintamente. Ad ogni modo, il fatto è che tutti i partecipanti a tale — credevano in buona fede — vitalissimo problema avevano da suggerire chi l’acquisto delle isole Nicobare, chi quello delle Maluine, chi quello delle Falkland, chi il Mozambico o l’Angola, chi, per farla finita, l’isola di Gran Natuna, al nord ovest di Bórneo: come si vede agevolmente, nessuno sapeva che pesci pigliare, tanto più se si rifletta sul fatto che il Portogallo era deciso a cedere o l’Angola o il Mozambico, a patto che la cessione fosse temporanea e non definitiva. Certamente, trattandosi di fondazione di colonia penale, poteva anche bastare una cessione temporanea, la quale — come del resto non era escluso nè da escludersi — sarebbe potuta diventare, con successivi e pacifici accordi, definitiva. Invece no, bisognava assolutamente che la cessione fosse definitiva: quasi che l’Angola o il Mozambico fossero due isolette, sperdute nel Pacifico.
Ad ogni modo, la colonia penale non si fondò, perchè non si poteva fondare; ma, se la colonia non si fondò, non si fondò neanche, per volere esplicito del Governo, nessuna colonia, anche quando tutte la potenze d’Europa si erano, spinte dalle cupidige e dalle ineluttabili necessità dell’ora, gettate all’arrembaggio della immensa, ricca, spopolata e quasi selvaggia Africa. Intanto, le migliori energie della nazione anzichè essere rivolte alla possibile ricerca di una sfera di influenza politica od economica, vantaggiosa anche nel futuro per il giovane regno, venivano sciupate nella chimerica ricerca per la fondazione di una colonia penale. Sfuggiva certamente alla mente dei governanti del tempo la fatalità per l’Italia, diventata grande nazione, di volgere anzitutto lo sguardo all’opposta sponda africana, dove c’era tanto da fare per le molteplici attività delle sue genti sobrie e prolifiche, tenaci come l’ostrica allo scoglio, industri e parche come formiche, intelligenti e vivaci, perchè genti di questo mare Mediterraneo che, riscaldando il sangue, dà forza, vigore e vivacità somma allo spirito.
Intanto, il pulviscolo umano, uscito dall’inesausto grembo e fecondo delle madri d’Italia, andava ramingo per il mondo, in cerca di fortuna e di vita meno grama, talvolta, ma, per lo più, in cerca del tozzo di pane quotidiano, perchè:
«Sotto il tuo cielo a me fu scarso il pane
E triste l’oggi e buia la dimane»
e cosí, incessantemente, il ruscello, ingrossandosi, diventava fiume e la gente d’Italia nell’America del sud e altrove doveva prendere, (il cuore si spezza a dirlo) il posto dei Negri nelle fazendas, argentine e brasiliane.
Eppure, questa gente d’Italia «dalle molte vite» andava piena il braccio e la mente di energia creatrice e ben salda in cuore la speranza della resurrezione.
Del resto, Giuseppe Mazzini aveva, con voce di profeta e con cuore di devotissimo figlio d’Italia, additata la via della grandezza italiana e dei còmpiti che la civiltà commetteva nelle mani della giovanissima Nazione. Ma la parola del Genovese era tagliente e rovente, era come quellna che à la forza di smuovere le energie assopite, era piena di quell’entusiasmo traboccante, senza il quale non è possibile affrontare rischi mortali e sofferenze grandissime, senza il quale, in fine, le nazioni come gli individui sono destinati a peggiore condanna degli accidiosi danteschi:
- «Questi sciaurati che mai non fur vivi».
Ma — poichè sembra che il Mazzini non sia, quanto si vorrebbe, spiritualmente vivo nella coscienza dei giovani del tempo nostro, — conviene citare integralmente il pensiero di Colui che, dopo aver scosso l’Italia da un capo all’altro della penisola, soffrendo atrocemente per lei, era costretto a morire quasi dimenticato ed oscuro nella stessa terra d’Italia.
«Prima un tempo — dice il Mazzini — e più potente colonizzatrice del mondo, vorrà l’Italia rimanere ultima in questo splendido moto?
«Schiudere all’Italia, compiendo a un tempo la missione di incivilimento additata dai tempi, tutte le vie che conducono al mondo asiatico: è questo il problema che la nostra politica internazionale deve proporsi con la tenacità, della quale, da Pietro il Grande a noi fa prova la Russia per conquistarsi Costantinopoli. I mezzi stanno nell’alleanza con gli slavi meridionali e con l’elemento ellenico fin dove si stende, nell’influenza italiana da aumentarsi sistematicamente in Suez ed in Alessandria e in una invasione colonizzatrice da compirsi, quando che sia e data l’opportunità, nelle terre di Tunisi. Nel moto inevitabile che chiama l’Europa a incivilire le regioni Africane come Marocco spetta alla Penisola Iberica e l’Algeria alla Francia, Tunisi, chiave del Mediterraneo centrale, connessa al sistema sardo-siculo e lontano un venticinque leghe dalla Sicilia, spetta visibilmente all’Italia. Tunisi, Tripoli e la Cirenaica formano parte importantissima per la contiguità con l’Egitto e per esso la Siria coll’Asia, di quella zona africana che appartiene veramente fino ail’Atlante al sistema europeo. E sulle cime dell’Atlante sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni fino al 5° secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi l’adocchiano e l’avranno, tra non molto, se noi non l’abbiamo». (Pag. 311. Scritti di Politica ed Economia — Sonzogno). I fatti — a distanza di poco più di mezzo secolo — si sono matimaticamente avverati, certamente non con vantaggio politico ed economico dell’Italia.
Francesco Crispi — come vedremo meglio in sèguito — era e fu l’unico Statista dell’Italia unita il quale, pur avendo dovuto repudiare il fiero sentimente repubblicano del Maestro, intuì chiaramente le necessità ineluttabili ed inderogabili dell’Italia, interpetrando, lui monarchico per senno politico grande, egregiamente il pensiero del Mazzini. Il quale, nello stesso scritto, di cui abbiamo citato un brano più sopra, si esprimeva così, contro l’opinione dei moderati (fin troppo) del tempo suo: «Le grandi idee, noi lo abbiamo detto più volte, fanno i grandi popoli. E le idee non sono grandi per i popoli se non in quanto travalicano i loro confini. Un popolo non è grande se non a patto di compire una grande e santa missione nel mondo, come appunto l’importanza e il valore di un individuo si misura da ciò ch’ei compie a pro della società nella quale ei vive». (p. 812).
Dopo questo, ci si domanda perplessi perchè Francesco Crispi fu ripetutamente ed insanamente accusato di megalomania o, se volete, per dirla con Ferdinando Martini, che pure lo amò e lo difese, di grandezzate.
Il Crispi, invece, poichè era genuino uomo rivoluzionario, pur essendo convinto servitore e — si potrebbe dire — salvatore della Monarchia ed artefice sommo dell’unità ed unificazione d’Italia, voleva fondare l’impero italiano. Egli ebbe ad affermare esplicitamente una volta, a proposito del più grande Risorgimento, che: «l’unità sarebbe inutile se non dovesse portarci forza e grandezza.» (Palamenghi, p. 2).
La politica dignitosa, fiera, nazionalmente efficiente e coerente del Crispi fu sempre avversata da coloro i quali preferivano la «politica modesta» ossia una politica di remissione ad oltranza, dinanzi agli insulti ed alle cupidige altrui. Ma «politica modesta» voleva significare rinunzia a quanto potesse impegnare l’Italia, ancor fremente di passione garibaldina, in complicazioni internazionali; anche perchè — come sostenevano i più — i popoli barbari o selvaggi o scarsamente civili avevano il sacrosanto diritto di governarsi da loro e di essere perciò lasciati indipendenti. Ma i fautori di tali ideologie o, se volete, di tale politica del carpe diem, dimenticavano che, fino a pochi decenni addietro, Tripoli e Tunisi ed Algeri erano il covo dei pirati barbareschi i quali taglieggiavano i Cristiani, gettandoli in catene ed in luride carceri, costringendoli, tal volta, a rinnegare la fede avita.
La verità, in tale faccenda, è che l’unità d’Italia si era compiuta a spizzico e — si può dire — senza un programma prestabilito ed ardimentoso, mazziniano e garibaldino, senza che per questo fosse necessario o lecito rinnegare la politica accorta e freddamente calculatrice del grande Cavour.
Certo, i governi italiani, succedutisi al potere dopo l’unificazione d’Italia, non furono, per lo più, all’altezza del loro còmpito, se pur sia doveroso riconoscere che esso non era nè facile nè lieve, anzi anormale e di non ordinaria amministrazione. Coloro, infatti, che avevano preso parte attivissima o soltanto attiva alla resurrezione politica ed alla sua redenzione morale furono tenuti, in virtù della forza quasi negativa e dissolvente del parlamentarismo, lontani dal governo della cosa pubblica; o, comunque, in condizione di evidente inferiorità ed impotenza. Di guisa che — come bene osserva il Palamenghi — il governo dell’Italia unita fu quello del piccolo e ordinato Piemonte, il quale non aveva, per fatalità storica, potuto sentire e vivere in pieno la tragedia del Risorgimento, al modo istesso della Sicilia, per esempio, della Lombardia, del Veneto o dell’Emilia.
In tale stato di cose, era fatale che la prevalente politica del tempo fosse di molta circospezione, di molta cautela e di mani, non solo nette, ma nettissime. Del resto, gli uomini della Rivoluzione, quelli senza i quali nessun Cavour, sia detto col dovuto rispetto, e nessun Piemonte sarebbero stati capaci di fare l’Italia unita ed indipendente, tenuti quasi a vile ed osteggiati sempre nelle loro idee di grandezza e di potenza della giovane Patria italiana, erano soltanto una minoranza. Sfuggiva alla mente dei moderati, certamente anch’essi necessari in qualsiasi governo anche il più rivoluzionario, che il Risorgimento era stato originato dall’invincibile fascino della potenza romana antica, alla quale si erano costantemente ispirati tutti i nostri grandi dal Mazzini al Crispi, dal Pisacane al Manin, dal Settembrini all’Abba. E con la potenza e la grandezza di Roma, la grandezza spirituale ed intellettuale del Rinascimento, che aveva avuto la potenza di incivilire il semibarbaro mondo dell’epoca.
Roma era stata la Stella polare e la segreta aspirazione della invincibile schiera dei martiri e dei santi della Patria: Roma, faro del mondo alle genti, Roma nella quale — a detta di un grandissimo storico tedesco — non si sta senza un’idea universale. L’idea universale c’era, bastava soltanto aver fede in essa ed affrontare gli eventi con estremo vigore e con virile sopportazione.
I moderati non potevano credere, pur amando l’Italia, a tali possibilità per l’Italia, unita si, ma ancora travagliata dalle gravi conseguenze del bellissimo parto del Risorgimento. Cosí, non si vuole menomamente offendere il patriottismo sincero di nessuno degli attori del dramma coloniale italiano, quando si afferma che, ad eccezione del «megalomane» Crispi, tutti gli altri furono impari alla gravità degli eventi; e, spesso, tanto guardinghi ed amanti della pace da sembrare, più che inetti, pusillanimi: perchè — vien fatto di domandarsi — : forse l’Italia scomparve dal novero delle grandi potenze, dopo l’infausta ma gloriosa sconfitta di Adua? Forse che essa, l’Italia, non sopportò, senza gravi scosse, le spese dovute sopportare per le guerra d’Africa? Dunque, perchè mai non si ebbe fede nella forza, nell’eroismo, nell’entusiasmo del popolo italiano, anelante, sia pure istintivamente, ad avere un degno posto al sole dell’Impero del mondo?
Forse era fatale che le cose procedessero come son procedute; ma lo storico non può ne deve appagarsi di sole fatalità: deve quindi dire in questo caso che, per l’insipienza propria e per la gelosia altrui, l’Italia che va dal 70 al novecento, rinunziò, con grave suo danno, ma con maggior danno delle venture generazioni, a farsi veramente parte interessata al banchetto della civiltà del mondo africano di ieri. Meno male che — come afferma Mussolini — nel mondo della storia della politica non ci sono cristallizzazioni definitive.
L’acquisto di Assàb. — La baia di Assàb, nella Dancàlia mèridionale, oggi divenuto porto franco per le merci da e per l’Etiopia, fu acquistata dalla società di navigazione Rubattino dietro consiglio del missionario, Prof. Giuseppe Sapeto; sicchè l’Italia andò nel mar Rosso sospintavi da una iniziativa privata, più che da un piano organico stabilito in precedenza. Cosí, quando il Mancini affermò che l’Italia, nel mar Rosso, avrebbe trovato le chiavi del Mediterraneo non fece altro che affermare cose impossibili a realizzarsi, non solo allora, ma anche nell’avvenire lontano. Andare in Mediterraneo, attraverso il Sudàn, significava propriamente essere incoscienti, sempre parlando col dovuto rispetto.
Ma, poi, perchè l’Italia non poteva andare direttamente dal Mediterraneo al Mediterraneo? La via era più naturale e più breve. Ma l’espressione manciniana altro valore non poteva avere se non quello di una «fiche de consolation», per lo scacco di Tunisi e per il rifiuto troppo banale ed astratto della diretta participazione in Egitto. Le chiavi del Mediterraneo, infatti, si dovettero andare a ripescare nel 1911, proprio nel Mediterraneo, ossia nelle acque della Libia.
«Giuseppe Sapeto — dice il Cesari — deve essere annoverato fra i precursori italiani nella conquista del Continente Nero. E tanto più è doveroso questo tributo, poichè il Sapeto si spegneva a Genova dimenticato o tristemente associato alla sventura di Adua, il 25 agosto 1895». Egli aveva messo piede a Massaua nel 1838, proprio quando pochissimi Italiani sapevano della esistenza di questo villaggio; poi aveva visitato alcune regioni dell’Abissinia, intraprendendo in compagnia del padre Stella, che abbiamo già nominato di sopra, un ardimentoso viaggio, vale a dire quello di raggiungere l’alto Nilo, attraverso i Bògos, per la via di Chèren. La fede missionaria gli facilitava la via. Incaricato di trattare per conto di Napoleone III° la cessione di Zula ai Francesi, vi riuscí; ma, non avendo costoro mantenuti i patti, Zula ritornò nelle mani dell’Etiopia nel 1885.
Il Sapeto, tornato in patria quando questa era unita, si recò a Firenze per convincere il Menabrea ad acquistare una stazione commerciale nel Mar Rosso; il Re stesso, Vittorio Emanuele II, acconsentí che l’ammiraglio Acton lo accompagnasse.
Giuseppe Sapeto, molto accorto perchè conoscitore dei luoghi, era del parere che fosse scelta per l’acquisto la località di Scech Saíd, sulla costa araba, all’imboccatura dello stretto di Bab el Màndeb; oppure quello del capo di Dumeirah di fronte a Scech Saíd, sulla costa africana.
Ma, avendo nel frattempo i Francesi occupato Scech Saìd e gli Inglesi Amera e non essendo adatta, secondo l’Acton, la località di Ras Dumeirah, si stabilí di acquistare un territorio sulla baia di Assàb.
L’acquisto, che egli fece per conto ed a nome della Rubattino, fu contrattato con i capi indigeni locali, mediante il pagamento di 15 mila talleri (47 mila lire) dei quali 250 furono versati a titolo di anticipo e caparra. L’11 marzo 1870 il Sapeto, tornato col piroscafo «Africa», prendeva possesso di Assab, che sarebbe dovuto servire come punto di appoggio e di rifornimento di carbone delle navi della Rubattino in navigazione per le Indie.
Dopo averne preso possesso e dopo aver costruito una casetta in legno, acquistando contemporaneamente la località di Buia, era proseguito per Bombay. Di guisa che, quando la «Vedetta», R. Nave, mandatavi dal Governo, giunse colà non vi trovò nessuno; se ne ripartì poco dopo, avendo fatto qualche rilievo idrografico.
Ma il governo egiziano, avendo saputo di tale acquisto, protestò col dire che, in virtù dei firmani sultaniali, vantava legittimi diritti di sovranità su quel territorio. Se non che il console italiano di Alessandria, al quale era rivolta la protesta, rassicurò il governo egiziano, col dire che si trattava di una località privata, acquistata per scopi esclusivamente commerciali; e che, a conferma di ciò, il Sapeto aveva avuto ordine di ammainare la bandiera d’Italia. Il governo egiziano poteva anche esser pago; invece, fatta sbarcare una compagnia di soldati ad Assàb, portatavi dalla nave «Chartùm», diede ordine che fosse sfondata la porta ed occupata la casa dai soldati stessi.
Il governo italiano protestò a sua volta e gli Egiziani si ritirarono, a patto che la località di pertinenza della Rubattino avesse carattere esclusivamente privato ed intenti commerciali. Così, cedendo, Assàb restò per oltre dieci anni alla compagnia di navigazione suddetta. Ma il Sapeto — com’era naturale — non aveva perduto il suo tempo e, nel frattempo, aveva acquistato un territorio per 36 miglia di costa con un hinterland di 630 kmq.
Assàb, adunque, per quanto piccolo, assumeva le sembianze di un vero e proprio dominio coloniale. Il Governo intervenne e, con legge 5 luglio 1882, fu senz’altro dichiarato territorio coloniale italiano. Il Cairoli aveva poco prima già provveduto a nominarvi un commissario civile.
La cessione della Colonia di Assàb, fatta dalla Rubattino al Governo italiano, avvenne a queste condizioni: che la predetta Società di navigazione Rubattino cedeva al Governo nazionale, in data 10 marzo 1882, tutti i diritti che questa vantava sul territorio oggetto della cessione, mediante il pagamento da parte dell’acquirente di lire 416 mila, pagabili in tre annualità di 138. 666, 66 ciascuna. E, finalmente, con la legge suddetta, veniva per la prima volta iscritta nel bilancio italiano la — dice con malcelata ironia il Palamenghi — somma cospicua di lire 60 mila per i bisogni della prima colonia italiana!...» (p. 85). E Gustavo Chiesi, (p. 27) dal canto suo, scrisse: «La nostra entrata ufficiale nel consorzio delle potenze colonizzatrici dell’Africa... non fu certo clamorosa e trionfale. Nondimeno, bastò per assegnarci nella generale competizione, un posto che, comunque giudicato nel primo momento e sotto l’influsso di preconcetti politici e partigiani, ora con mente serena ed obbiettività assoluta di studi e di esperienza si deve ritenere non del tutto sfavorevole allo svolgimento di un importante programma di pacifica azione coloniale. — La posizione da noi presa nel Mar Rosso, ad onta degli errori politici, militari diplomatici, della impreparazione organica e materiale che la contraddistinsero, ci diede, sebbene tardivamente, ragione di essere nell’intenso movimento africanista che fu preoccupazione costante dei Gabinetti europei nell’ultimo decennio del secolo passato».
Noi. per conto nostro, sottoscriviamo queste affermazioni, tanto più che — come vedremo — il Crispi, avverso all’andata nel Mar Rosso, da ministro responsabile, si acconciò al fatto compiuto, traendo da un grave errore iniziale ed organico tutti i vantaggi possibili a beneficio della Nazione.
Ma non bisogna credere che il sorgere del recente Possedimento italiano non fosse stato ostacolato da altre nazioni. Ché, invece, oltre alla proteste dell’Egitto, non sempre platoniche, ci furono quelle inglesi. Infatti il Mancini, rivolgendosi al Menabrea l’otto giugno 1881, lo pregava di portare a conoscenza di lord Granville un dispaccio, di cui riportiamo l’ultima parte:
«Questo stato di cose, che potrebbe intralciare l’azione del regio Commissario, fa sorgere in noi l’idea se nel reciproco interesse non convenga di concordare fra i due governi, rispetto ad Assab, un modus vivendi tale che, mentre sia pegno della lealtà nostra e guarentigia dei legittimi interessi britannici, assicuri in modo preciso al nostro possedimento il favore dei funzionari inglesi e dello stesso Governo della Regina.»
Nel mentre avvenivano queste cose, si venne a sapere ad Assab del massacro della missione Giulietti, partita da Beilul per l’Etiopia. Facevano parte di essa, oltre al Giulietti, il Biglieri e 12 marinari della R. corvetta «Ettore Fieramosca». I quali tutti erano stati trucidati nel paese dei Danàchil, a cinque giornate dalla costa.
Il governo egiziano, da cui dipendeva il territorio, aprì un’inchiesta. Non volle peraltro che della commissione facesse parte nessun membro italiano. Com’era naturale, i colpevoli non furono rintracciati e l’Italia dovette subire, con lo scorno, la beffa. Gli Egiziani, del resto, sempre avversi ad ogni azione italiana nel Mar Rosso, tornando da Beilul, avevano stabilito di occupare Rahèita, il cui sultano, Berehàn, era nostro protetto. Il capitano Frigerio, comandante della «Fieramosca,» che trovavasi casualmente a Beilùl, seppe dell’intenzione degli Egiziani ed, allora, poichè non c’era tempo da perdere, li precedette occupando Rahèita, con grande sollievo del sultano, che paventava la rapace ed esosa sovranità del governo chediviale.
Gli Egiziani, naturalmente, strillano ed il Governo italiano chiede i buoni uffici dell’Inghilterra, la quale aveva pur sentenziato in precedenza, per bocca del Salisbury, che l’Egitto vantava diritti di sovranità sui territori della costa, dal Capo Guardafui a Massàua. Anzi, il Salisbury aveva esplicitamente fatto capire al Governo italiano, che: «Certo, ove trattisi di una intrapresa commerciale, noi la vedremo con simpatia; c’importa ch’essa non abbia nulla di politica. Il Mar Rosso è la nostra via di comunicazione con le Indie. Il Mar Rosso è la nostra corda sensibile. Se non è questione che d’un tentativo commerciale, la società Rubattino potrà intendersi col Governo egiziano.»
A detta dell’Incaricato d’affari italiano a Londra, la dichiarazione del Salisbury era stata «bene accentuata ed eloquente nella sua brevità». Dati questi precedenti, lord Granville si trovò imbarazzato nella risposta; comunque, avendo il Governo italiano, fattogli capire, con buone maniere, «dell’appoggio che l’Italia è prestato lealmente negli ultimi anni al governo di Sua Maestà britannica in ogni questione che riguardasse l’Inghilterra in qualsiasi guisa», egli si decise a consigliare prudenza e pazienza agli Egiziani, ai quali sarebbe data sodisfazione.
La risposta evasiva tendeva a guadagnar tempo.
Infatti, la buona occasione non mancò; e fu quando, nata la ribellione di Arabi Pascià contro il Chèdive Ismail, accusato di voler dilapidare e di aver dilapidato il patrimonio dello Stato, con la sua grandigia e generosità, l’Inghilterra dovette far causa comune con l’Egitto, per il fatto della grave insurrezione del mahd di Dongola, Mohàmmed Ahmed.
Ma l’Egitto, in verità, prima che gli Europei si interessassero direttamente e con passione agli affari dell’Africa, aveva tentato di estendere i suoi domini, sin oltre il Sudàn. Il movente di tale espansione, oltre che economico, era anche religioso-politico, essendo gli Abissini cristiani e gli Egiziani mussulmani. Ora, padrone delle coste del Mar Rosso, l’Egitto teneva schiavo o quasi l’impero etiopico, perchè questo, per rifornirsi, specialmente di armi, doveva far capo ai porti egiziani del Mar Rosso e, particolarmente, a quello di Massaua. Così, due spedizioni, mandate contro l’Etiopia, erano state annientate, per modo che quest’impero aveva potuto stipulare con l’Inghilterra il Trattato Hewett, il 3 giugno 1884. Con questo trattato, il re Giovanni permetteva alle truppe egiziane del Sudàn di sconfinare in territorio etiopico e di là, senza molestie, raggiungere Massaua. Gli Etiopi, dal canto loro, ottenevano:
1° la libertà di transito nei porti dell’Egitto nel Mar Rosso di tutte le merci dirette in Abissinia, comprese armi e munizioni, nonchè quelle da questo paese esportate;
2° restituzione del paese dei Bògos e relativo abbandono di edifizi, armi, provvigioni ed altro che gli Egiziani avessero lasciato a Càssala, Amedíb e Sanhit.
Con questo trattato, vantaggioso per l’Abissinia e per l’Inghilterra, la prima raggiungeva una della sue più ardenti aspirazioni, vale a dire quella di poter avere libero accesso al mare, per il quale essa fece sempre lotte sanguinose e formidabili. Così — come vedremo in sèguito — l’Italia, sostituendosi a Massaua all’Egitto, si veniva automaticamente a trovare contro le raggiunte aspirazioni dell’impero salomonide.
Tunisi. — Egitto. — Tripolitania (Libia). — Marocco. — Ci sembra di aver detto di sopra che Francesco Crispi, più e meglio di tutti gli altri ministri del giovane Regno, pensava e credeva che, se l’Italia avesse dovuto avere un impero, questo sarebbe dovuto essere, prima di tutto, mediterraneo: perchè l’Italia è tra le maggiori potenze di questo immenso lago, dai Romani chiamato, con legittimo orgoglio, «Mare Nostrum». Ma, a differenza di tutte le altri nazioni, grandi e piccole, che vi s’affacciano, essa sola è tutta mediterranea. Di guisa che è coerente ogni politica italiana di prestigio mediterraneo; e non solo per coerenza ma anche per intrinseca necessità di vita o di morte.
Da questa coerenza e da questa necessità, provengono gli atti dei più lungimiranti uomini di Stato italiani, i quali costantemente si sono rivolti verso la costa settentrionale dell’Africa, e, specialmente, verso quella che sta proprio a quattro passi dalle sponde siciliane e sarde.
Così — come è noto — nel 1868 Italia e Tunisia avevano pattuito un trattato ventennale, vantaggioso per entrambe le alte parti contraenti, ma importante assai per la ulteriore espansione ed affermazione di prestigio e di potenza della giovane Nazione italiana.
Com’era naturale, tale trattato non era rivolto contro nessuno, nè ledeva gli interessi di nessuno, anche se l’Italia, con l’andar del tempo, fosse riuscita ad avere l’esclusivo predominio nelle faccende della Reggenza. Sembrò tuttavia alla Francia, banditrice della strana teoria che una potenza colonizzatrice, che possegga un territorio coloniale, abbia il diritto di espandersi ad occidente e ad oriente di esso, che un’influenza eccessiva dell’Italia nella Tunisia avrebbe danneggiato irremediabilmente il futuro vastissimo impero, che essa andava, arditamente e con mirabile continuità, attuando. Così che — venuta l’occassione propizia — essa approfittò della debolezza dell’Italia d’allora, occupando la Tunisia nel 1881. Il 12 maggio fu imposto al Bei, «possessore del Reame di Tunisi», il trattato del Bardo o di Càssar Said, col quale egli riconosceva il protettorato della Francia.
Quest’atto, da essa commesso, non fu certamente allora un atto amichevole verso l’Italia alla quale non isfuggì la gravità della cosa, perchè essa, ormai, si era abituata insensibilmente a considerare la Tunisia come un territorio che, presto o tardi, le sarebbe dovuto toccare in sorte, sia come nazione mediterranea, sia come quella che aveva ormai colà, per esplicita e libera volontà dello stesso Bei, interessi prevalenti.
Tralasciamo di scendere a particolari, per lo più noti a tutti gli studiosi di cose coloniali nord-africane; ma quello che conviene fare rilevare, per la storia, è che il ministro francese dell’epoca, Jules Ferry, non agì correttamente, facendo, pochi giorni dopo, l’opposto di quanto aveva pur solennemente promesso pochi giorni prima. Vero è che, per dirla col De Musset,
«La politique, hèlas, voilà notre misère
Etre rouge ce soir, blanc demain...».
Ma è certo che un’atto di scorrettezza palese, sia pure dettata da imprescindibili necessità, non può essere subìta a cuor leggero da una nazione che abbia la coscenza e la volontà incrollabile di contare nella bilancia dei destini dell’Europa e del mondo. Perchè certi atti inconsulti, spesso, finiscono per danneggiare coloro i quali li ànno compiuti, anche se tutte le apparenze concorrano a dimostrare l’opposto.
Ma il fatto che la Francia precorse scaltramente l’Italia in Tunisia non significa che quest’ultima mon ci abbia messa la sua diretta cooperazione; infatti, se la Francia potè compiere quell’atto di forza lo potè soltanto perchè l’Italia nè fu guardinga abbastanza, nè seppe far valere, con scaltrezza e perizia, i suoi diritti nel campo internazionale, come fece sempre il Crispi quando si vollero da chiunque attentare e calpestare i sacrosanti diritti della Patria sua.
Ad ogni modo, diplomaticamente e storicamente parlando, la sorte della Tunisia pare fosse decisa al Congresso di Berlino del 1878. L’Italia vi fu rappresentata dal conte Corti, ministro degli affari esteri del tempo, il quale — secondo l’espressione significative del Palamenghi — «assistette al Congresso come un’ombra». Forse il Corti aveva avute istruzioni remissive dal suo Governo. Ad ogni modo, a noi preme rilevare che la Francia chiese ed ottenne la Tunisia in cambio di Cipro, toccata all’Inghilterra e dell’occupazione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria. Furono i plenipotenziari britannici che offersero la Tunisia alla Francia, la quale, naturalmente, non se lo fece dire due volte; tanto più che essa non aveva da temere nessuna complicazione internazionale, avendo avuto l’esplicito assenso di tutte le potenze rappresentate, ma specialmente quello inglese.
Eppure, non fosse stata la miopia e la debolezza dell’Italia e dei suoi governanti di allora, l’Inghilterra non sarebbe stata molto propensa ad offrire la Tunisia alla Francia, perchè, poco tempo prima, aveva fatto esplicita offerta al Governo italiano di discutere sugli interessi italiani ed inglesi in Tunisia, in Tripolitania ed in Egitto. Il Depretis aveva senz’altro accettato la proposta di Lord Derby, per «la conformità degli interessi italiani e inglesi». Ma, essendosi questo ministro dimesso, il Cairoli non ne parlo più. Questo silenzio fu giustamente interpretato da parte inglese come disinteresse della questione da parte dell’Italia, imprevidente e rinunciataria, anche se debole politicamente e non robusta economicamente.
Tuttavia, è da ritenere che l’Inghilterra a Berlino avesse fatte alla Francia proposte piuttoste vaghe, circa la Tunisia; in quanto che la prima non vedeva di buon occhio ogni ingrandimento della seconda nel Mediterraneo occidentale. Infatti, il 7 agosto 1878, lord Salisbury, pur riconoscendo di aver avuto con Waddington, plenipotenziario francese, «parecchi sodisfacenti colloqui e di essersi intrattenuto di Tunisia, essi, d’altra parte, non ebbero importanza». Ed aggiungeva, sempre scrivendo all’ambasciatore d’Inghilterra a Parigi, lord Lyons, che: «L’Inghilterra non à ne avrà mai interessi propri a far prevalere nella Reggenza e non si opporrà alla legittima e crescente influenza francese. Tuttavia fece notare a Waddington a Berlino, che, oltre la Francia, c’è anche l’Italia che può vantare la vicinanza della Tunisia il cui governo à certamente rivolto la propria attenzione sulla Reggenza; ma il gabinetto inglese non si è ancora potuto formare una opinione sulla posizione che potrà prendere l’Italia relativamente al paese in questione, non essendovi stato alcuno scambio di comunicazioni con quello di Roma».
In sostanza, purchè si fosse saputo agire con oculatezza e con fermezza ardita, sì sarebbe potuto evitare lo scacco di Tunisi, tanto più che, in data 17 Luglio 1880, Gladstone, nuovo ministro inglese, scriveva a Lyons, fra l’altro, che: «l’ambasciatore francese è venuto ad intrattenermi della questione di Tunisi per esplorare l’animo mio. Egli protestò che la Francia non desidera un ampliamento di territorio, ma vuole esercitare un’esclusiva supremazia sul debole governo della Reggenza...». Ed aggiungeva, inoltre che: «Per il governo della Regina la Tunisia è una provincia dell’Impero Ottomano; ma l’Inghilterra non vede con gelosia l’influenza che la Francia, per la sua potenza superiore e per la sua civiltà, vi esercita.»
Dunque l’Inghilterra, benchè in un primo momento avesse promesso, forse con sconsideratezza, era ritornata sui suoi passi, per impedire che la Francia riuscisse ad impossessarsi della Tunisia; evidentemente, la pedina, nel suo gioco mediterraneo, era quella dell’Italia; ma l’Italia sembrava fosse tutta quanta assorbita dai gravi problemi interni, che, certamente, non erano pochi. La Francia, adunque, precorse l’Italia e — come ormai si sa da tutti — col pretesto della instabilità della frontiera, algerina dal lato della Tunisia, per le incursioni dei Crumiri, l’occupò con grave danno e commozione d’Italia.
Certamente, il Cairoli se non poteva tutelare con la forza gli interessi d’Italia in Tunisia, avrebbe potuto farlo con la diplomazia, non accontentandosi, come pur fece, di sole parole. Infatti, quando in Italia si seppe dell’occupazione — come si diceva — temporanea della Reggenza, senza menomare l’integrità di essa, lasciando intatto lo status-quo, il deputato Abele Damiani, rivolgendosi al Cairoli, aveva detto: «Non fu la Francia che quando occupava l’Algeria sentì, in faccia alle proteste generali, la necessità di dichiarare che essa non avrebbe mai attentato all’integrità del territorio tunisino e del Marocco?»
Ma il ministro Cairoli, poche settimane prima della spedizione tunisina della Francia, per calmare l’eccitazione dell’Italia, aveva dichiarato che la prima non intendeva annettersi la Tunisia e che aspirava solo ad «una legittima influenza nella Tunisia che le spetta come a civile e potente nazione», senza avere perciò l’intenzione «di contrastare punto il diritto altrui». Per modo che egli poteva, in sua coscenza, concludere che: «Tutte queste dichiarazioni provano il proposito di rispettare lo status-quo nel quale sta la guarentigia dell’equilibrio reciproco».
Se questo modo di ragionare non è un modo di ragionare da ideologo, vuol dire che la politica coincide con l’ideologia: ma di questo parere non furono, nè sono, nè saranno gli uomini di governo, che conoscano la difficile arte del governare e del reggere gagliardamente gli Stati. Ma il Cairoli, affermando a suo discarico di aver seguita, in ogni caso, la politica delle «mani nette», si dimostrò uno dei maggiori ideologi, che siano stati al governo d’Italia, dalla fondazione del Regno ad oggi.
«Politica della mani nette» è parola vuota di senso, ossia ideologia; ideologia che spesso è fiaccato gli uomini che si sono lasciati da essa affascinare e spesso à provocato mali irreparabili alle Nazioni. La conquista o — se vi piace — il prottettorato della Tunisia da parte della Francia à dimostrato in modo inequivocabile che la politica suddetta non esiste e non esisterà mai.
La Tunisia — comunque — fu perduta per l’Italia e la Francia, costruendovi il formidabile porto di Biserta, si è voluta assicurare una innegabile supremazia su tutto il bacino occidentale del Mediterraneo. Naturalmente, questa supremazia non avrà mai ragione di esistere fino a tanto che Italia e Francia saranno amiche, per la loro reciproca prosperità e tranquillità e, sopratutto, per la pace del mondo, che si dovrebbe veramente perseguire con ogni mezzo, instaurandola però su basi eque e, perchè tali, stabili.
Noi non ci sentiamo di affermare che la Francia, osteggiando quasi sempre ed ovunque l’Italia, non abbia avuto i suoi diritti e non vi sia stata spinta da imprescindibili necessità, perchè le nazioni debbono obbedire, più che altro, alla loro storia ed alla logica di essa. Ora — avendo noi condannato l’ideologia in noi — possiamo esaltarla in altri? La verità, adunque, è che la Francia — come è stato egregiamente notato dal Ruta, in un suo articolo su «Italiani e Francesi» — à sempre dovuto ostacolare, per le sue necessità di potenza e d’impero, l’espansione dell’Italia, di questa Italia che, in quanto a popolazione, l’à già superata. Tuttavia, essendo la politica un alto e basso di concessioni e di transazioni, in ciò che essa è di contingente nella durata degli Stati, si sarebbe potuto dalla Francia, sempre pro bono pacis, trattare l’Italia meno arrogantemente di quanto non sia stato fatto, purtroppo, sin qui.
Ad ogni modo, Italia e Francia, entrambe necessarie al progresso della civiltà ed alla pace del mondo, superate alcune pregiudiziali di esagerate incompatibilità, potrebbero andare d’amore e d’accordo tanto in Europa quanto in Africa ed altrove.
L’anno 1881 segna la prima sconfitta coloniale e diplomatica del Regno d’Italia; sconfitta — se si vuole — in parte meritata, perchè non bisogna mai aspettarsi la tutela dei propri interessi per intromissioni di terzi. Sciaguratamente, un anno dopo, questa inesperta, tentennante e rinunciataria Italia, si rifiuta d’intervenire anche in Egitto accanto alla stessa Gran Bretagna: questa rinunzia fu talmente grave che Francesco Crispi, saputala, si affrettò a scrivere al Mancini, per indurlo ad accettare.
La lettera, che qui sotto riportiamo, è spedita da Londra e porta la data 29 luglio 1882.
- «Mio caro Mancini,
Sono dolentissimo che hai declinato l’invito d’intervenire in Egitto. Voglia Iddio che il tuo rifiuto non sia causa di nuovi danni all’Italia nel Mediterraneo. Bisognava accettare senza esitazione. Quando Cavour ebbe fatta l’offerta di unirsi alle Potenze occidentali per andare in Crimea non vi pensò un istante. Il Governo del piccolo Piemonte ebbe quel coraggio che oggi manca al Governo d’Italia.
Il tuo affmo
Francesco Crispi.»
Il rifiuto d’intervento in Egitto non fu dettato al Mancini se non da pochezza d’animo; perchè, diversamente, egli avrebbe dovuto accettare senz’altro, tanto più che una alleata come l’Inghilterra non era proprio da tenersi «a gabbo». Ora era evidente o, per lo meno, sarebbe dovuto esserlo, ad un uomo di Stato che si rispetti, che se la potente Inghilterra si era rivolta all’Italia lo aveva fatto perchè, stante la preponderanza francese in Mediterraneo per l’occupazione recente della Tunisia, essa temeva un ulteriore ingrandirsi della potenza francese. Se, adunque, il Mancini ed il Governo italiano del tempo avessero bene riflettuto sul da farsi, considerando le ragioni che spingevano l’Inghilterra ad allearsi con l’Italia nella questione d’Egitto, avrebbero dovuto subito accettare, non foss’altro che per reazione alla Francia, occupatrice della Tunisia, contro gli evidenti ed ingenti interessi dell’Italia in quella Reggenza: invece, anche ora, sembrò virtù l’astenersi, forse perchè l’Italia — secondo il Visconti-Venosta — «non poteva permettersi il lusso di un’Algeria».
Ma, astrazion fatta di queste considerazioni, sta di fatto che l’intervento d’Italia in Egitto era reclamato dai maltrattamenti, soprusi, uccisioni e saccheggi che gli Italiani colà residenti avevano dovuto subire, per la rivolta anche xenofoba scoppiatavi. Ed il rifiuto è tanto più inesplicabile e riprovevole quanto più si rifletta sulle esplicite dichiarazioni che il Mancini stesso aveva fatto con sua circolare del settembre 1881 alle RR. Rappresentanze all’estero, circa le direttive che il Governo italiano si sarebbe imposto nei casi gravi d’Egitto.
La circolare, certamente prolissa, affermava, tra l’altro che: «Sarebbe impossibile per l’Italia assistere silenziosa ed indifferente a prevedibili avvenimenti che potrebbero modificare la condizione politica del governo egiziano. Essa non può venir meno ai doveri che le sono imposti, sia come potenza mediterranea e firmataria del trattato di Berlino, sia come naturale tutrice dei rilevantissimi interessi nazionali in Egitto... E, poco dopo, soggiungeva che era necessario «a nostro avviso esaurire ogni sforzo per risolvere la questione egiziana mercè un atteggiamento concorde da parte della grandi potenze il quale escluda la necessità del ricorso alla ragione estrema di una intervenzione armata..... a preservare, così, il paese dalla eventuale necessità di una occupazione militare per opera di qualunque straniera potenza...» infine, la circolare in parola, faceva intendere che sarebbe stato preferibile un intervento armato della Turchia, da cui l’Egitto, almeno nominalmente, dipendeva: «Questa forza ottomana sarebbe destinata ad essere utile ausiliaria all’azione pacificatrice ed alla morale cooperazione delle potenze... Qualunque sia per essere l’opinione dei gabinetti, l’Europa sarà giudice del nostro obbiettivo affatto disinteressato.»
In altri termini, mentre si afferma in principio della circolare che l’Italia è la «naturale tutrice dei rilevantissimi interessi nazionali in Egitto», si conclude con l’affermare, con lampante incoerenza, che «l’Europa sarà giudice del nostro obbiettivo affatto disinteressato».
Interessi rilevantissimi ed obbiettivo affatto disinteressato; come si concilia?
Ma — a quanto pare — questi nostri predecessori erano sempre assillati dall’avere le mani nette, al modo istesso che le avevano avute tutti i moderati dei tempi eroici del Risorgimento, i quali erano finiti con lo smorzare e col sopraffare, in virtù della massa, ogni residuo di spirito garibaldino e rivoluzionario, insofferente cioè delle soppraffazioni e delle rinunce, se si fossero dovute subire e fare per troppa circospezione e viltà. Perchè la moderazione è una grande virtù politica ed umana, a patto di non abusarne.
L’Egitto era in preda alla rivolta. Arabi Pascià aveva proclamato obbedienza al Sultano stambulino, che aveva riconusciuto quale principe dei credenti (Emìr-el-muminìn) e sovrano del paese, contro il mal governo del chèdive Ismaìl e le esose ingerenze straniere, ossia europee. Come avrebbe, adunque, la Turchia potuto intervenire in Egitto, se non aveva nulla da temere dai rivoltosi, i quali, per giunta, lottavano a favore del «Dar el Islàm»? Era evidentemente impossibile, e ciò avrebbe dovuto senz’altro capire il Mancini, se ne fosse stato in grado. Invece, egli non capì nulla della situazione, anche quando si accorse dell’insuccesso della sua proposta, tendente a tenere unite le potenze dinanzi agli affari d’Egitto. Infatti, quasi tutte, chi per un verso, chi per un’altro, declinarono l’invito di intervenire; di guisa che l’Italia si trovò isolata nelle sue proposte. In quanto all’Inghilterra, interrogata in proposito dall’Incaricato d’affari italiani a Londra, diede una risposta evasiva e negativa. Il ministro Granville, infatti, allegò a pretesto che «gli impegni che aveva con la Francia gli avrebbero impedito di accettare una proposta qualsiasi che avesse per intento di sostituire eventualmente una situazione più ampia alla situazione che le due potenze occidentali hanno presentemente nel Vice-reame»; soggiugendo, inoltre, che non conveniva rivolgersi a Parigi, poichè una istanza si fatta «certamente non avrebbe potuto sortire favorevole risultato»; declinò pertanto una cooperazione anche solo morale dell’Italia. E, dopo aver mostrate le sue più vive simpatie aggiunse che «la sincerità è la migliore prova dell’amicizia».
Stando così le cose, come si spiega il «revirement» britannico dell’anno appresso? Si spiega col fatto semplicissimo che, successivamente, il ministro francese Freycinet aveva, in ogni caso, escluso l’intervento armato della Francia in Egitto, non volendo partecipare ad «una politica di avventure». Era evidente, quindi, che l’Inghilterra, visti riuscire vani tutti i tentativi fatti per una composizione pacifica della questione d’Egitto, vista ormai impossibile la collaborazione diretta e solidale delle Potenze, fallitole l’appoggio della Francia, che se ne pentì anch’essa di lì a poco, non potesse rivolgersi che all’Italia, nazione che certamente aveva interessi rilevantissimi in Egitto, dove, per giunta, godeva della simpatia della popolazione non traviata di quel paese nonchè la simpatia stessa di Arabi Pascià, che non avevano avuto da lamentarsi del contegno degli Italiani nelle faccende interne d’Egitto.
Per l’Italia, tale invito, oltre che lusinghiero, doveva essere considerato come una vera e propria insperata fortuna, proprio come la interpretò Francesco Crispi e come aveva pensato il Gabinetto britannico.
L’offerta formale all’Italia per l’intervento in Egitto venne fatta la prima volta il 27 luglio 1882. Se non che l’Inghilterra sapeva benissimo che gli ostacoli che vi avrebbe incontrati non sarebbero stati nè punti nè pochi. Lord Granville, per tanto, il giorno appresso fece ripetere l’offerta da Sir Paget, ambasciatore d’Inghilterra, allo stesso Mancini, il quale rifiutò gentilmente col dire che, poichè la Turchia aveva promesso d’inviare delle truppe in Egitto, l’Italia non poteva impegnarsi ad intervenire accanto ad un’altra potenza, dato che era stata essa stessa a sollecitare quell’invio: «Non ci rimane, adunque, allo stato attuale delle cose, che ringraziare il Gabinetto britannico d’aver pensato che la costante amicizia dell’Italia potesse tradursi, in questa occasione, per l’Inghilterra, in un concorso utile.»
Lord Granville — scrisse il Menabrea — quando seppe ciò, «fu parco assai di parole..... e terminò col dirmi, in termini sempre benevoli, che, col proporci di concorrere con l’Inghilterra al ripristino dell’ordine in Egitto, il gabinetto britannico aveva creduto di dar prova di amicizia all’Italia, invitandola a prendere parte ad un’opera che sarebbe tornata di sua utilità.»
Così, anche l’Egitto sfuggiva di mano agli inesperti nocchieri della politica estera d’Italia, fattasi nazione non già perchè se ne stesse tapina, ma perchè, con gli ardimenti e col senno, si assidesse, senza tremebondo rossore, tra le più grandi nazioni del mondo.
Crispi — com’era naturale, costretto a tenersi alleato alla Germania per timore della Francia e all’Austria per timore dell’Austria — pensò tuttavia che la Triplice alleanza potesse e dovesse garentire l’Italia, nei suoi più vitali interessi mediterranei. Così fu sua costante politica di difendersi tutte le volte che venissero lesi gli interessi legittimi d’Italia. Sventò, quindi, col concorso della Triplice e con quello della stessa Inghilterra tutte le manovre della Francia tendenti ad annettersi definitivamente la Tunisia, ad impossessarsi a poco a poco dello hinterland della Libia ed a munire poderosamente il porto di Biserta: Ma ciò faceva — non già come si disse e come si crede tuttora da molti in Italia e fuori — perchè fosse gallofobo, ma perchè sopratutto e sopra tutti amava l’Italia e la difendeva con tutte le forze dell’anima sua: del resto, non faceva se non quello che gli altri facevano fuori d’Italia, primi fra tutti i Francesi, del cui acceso patriottismo nessuno può e vuole discutere.
Essendosi, adunque, l’equilibrio del Mediterraneo spostato con l’occupazione di Tunisi, a vantaggio della Francia, l’Italia pensò che esso potesse essere in parte ristabilito, con l’occupazione della Tripolitania e della Cirenaica da parte di essa. Ma era naturale che, anche qui, l’Italia si urtasse contro le mire e le aspirazioni della stessa Francia, di cui non mancavano prove evidenti, come quella dell’accordo anglo-francese del 1890, circa la delimitazione delle reciproche sfere d’influenza dei possedimenti franco-inglesi nell’Africa.
Qui non staremo a fare la storia delle manovre del governo francese per dimunire il valore reale della Tripolitania, perchè cose, in generale, ben note. Ma la gravità e la veridicità della cosa risulta dalla protesta, sia pur platonica, che la Turchia stessa inviò alla Francia, subito dopo l’accordo franco-inglese del 1890, a proposito della delimitazione delle rispettive sfere d’influenza, in cui veniva a trovarsi anche la frontiera meridionale della Libia. In sostanza, escluso il Borcu, il Tibesti ed altre regioni finitime della Libia meridionale, si calcola che la Francia abbia usurpati circa 5.000 chilometri quadrati di territorio tripolitano, spostando la frontiera verso est di circa 30 chilometri, chè tanti ne corrono tra El Bibàn e l’attuale confine di Ras Agìr. Or, poichè allora direttamente tali soprusi venivano fatti a danno della Turchia, si potrebbe anche non parlarne più; ma è certo che ogni ulteriore ingrandimento della Francia nel nord-Africa era indirettamente a svantaggio della già poco vantaggiosa situazione dell’Italia nel Mediterraneo. Di guisa che i tentativi dell’Italia, nell’impedire che la Francia menomasse il territorio tripolitano erano più che mai giustificati e giustificabili.
Il 3 gennaio 1891, il generale Menabrea informava il primo ministro italiano, Francesco Crispi, di un colloquio avuto col primo ministro francese. Il quale era altamente adirato delle insussistenti accuse della stampa italiana contro la Francia per la questione tripolitana. Ma il Menabrea, prendendo a sua volta la parola, aveva fatto capire al Ribot, con fermezza e chiarezza, che le accuse di cui egli si lagnava potevano essere fatte ugualmente dall’Italia alla Francia, la quale non faceva altro che mettere in allarme la Turchia con l’insinuare che l’Italia voleva occupare la Tripolitania, tanto che si era più volte parlato di una spedizione militare che l’Italia stava preparando. Aggiunse, a tal proposito, che il Duperrè, ammiraglio francese, si era persino recato a Costantinopoli per mettere il Sultano «in grave sospetto contro di noi a proposito della Tripolitania». Aggiunse pure che la questione di detta regione era vitale per l’Italia, la quale, essendo una nazione di 32 milioni di abitanti, con oltre duecentomila marinai iscritti e con uno sviluppo mediterraneo costiero di oltre seimila chilometri, aveva il diritto di essere gelosa di ogni ulteriore espansione della Francia nel Mediterraneo stesso, tanto più che i Francesi non cessano dal chiamarlo un lago francese. L’Italia, d’altronde, non aspira a conquistare la Tripolitania ma vuole bensì, per salvaguardarsi, impedire che la Francia si ingrandisca sempre più.
Inoltre, — scriveva sempre il Menabrea al suo ministro — in Francia si ha un’idea quanto mai falsa ed unilaterale della personalità di Crispi, incaponendosi a considerarlo come il capo di una fazione, mentre egli è il rappresentate più genuino della Nazione; tanto che, nato nella estrema parte dell’Italia, in Sicilia, î trionfi maggiori li ha ottenuti a Torino, in Piemonte. Insomma, il Menabrea conclude che «il colloquio ebbe fine con pacatezza e con una reciproca stretta di mano».
In un altro rapporto, del 13 gennaio del 1891, il Menabrea avvertiva il Crispi che, in una cartina geografica pubblicata dal «Temps», le casi di Ghat e Ghadàmes figuravano in territorio francese. Consigliava, quindi, di rivolgersi direttamente a Londra, per avere appoggi in tale questione che interessava anche l’Inghilterra oltre che la Italia; e, in caso di negativa, di rivolgersi direttamente alla Turchia. Non era poi alieno dal pensare addirittura ad una occupazione della Tripolitania, per porre una buona volta fine ai continui sconfinamenti della Francia nella regione tripolitana. La campagna di stampa ostile dei giornali italiani, contro le azioni della Francia in Tripolitania, suscitò animate dichiarazioni del Ribot alla Camera francese, dietro interrogazione del Sig. Pichon. Il Menabrea, appena a conoscenza del testo ufficiale di queste dichiarazioni, ne telegrafò a Crispi il periodo più tagliente, che suonava: «Quant à cette campagne, dont vous a parlè tout à l’heure monsieur Pichon, quant à tous ces articles de journaux dont la frèquence et la similitude peuvent en effet attirer l’attention, c’est peut-ètre leur faire beaucoup d’honneur que de s’en occuper ici. Ce n’est pas le Gouvernement francais qui doit se plaindre de ces articles; c’est, il me semblie, le Gouvernement italien; car, dans son discours que vous n’avez pas oublié, l’honorable monsieur Crispi a déclaré qu’il tenait è l’amitié de la France».
Allora il Crispi, nel ricevimento settimanale, fece sapere al Billot, ambasciatore di Francia a Roma, che il Signor Pichon aveva fatto dello spirito, parlando dell’Italia, col chiamarla: «Sorriso della civiltà latina» e monsieur Ribot, parlando di lui stesso. Cose queste che non erano certamente adatte ad una reciproca intesa.
In virtù di accordi posteriori, l’Italia lasciò libera la Francia di ogni sua ingerenza al Marocco, mentre quest’ultima faceva altrettanto per la prima in Tripolitania. Ma è evidente che una simile transazione finì per dannegiarla, perchè, a fil di logica e secondo equità, l’Italia, in cambio della Tunisia, avrebbe dovuto ottenere la Tripolitania, come era opinionne fondata di Francesco Crispi.
Del resto, se la Francia tentava di invadere sempre più la Tripolitania, con mezzi pacifici, è vero altresì che ormai non pensava più ad insignorirsene per ovvi motivi; tanto che il Ferry aveva dichiarato, sin dal 1884 al Menabrea che: «Le voci che si facevano circolare a quel riguardo (circa le intenzioni di occupare il Marocco) erano senza fondamento; Egli, scrive il Menabrea, mi autorizzò a dichiarare all’E. V. nel modo più esplicito che il Governo della Republica non mirava in alcun modo nè ad annessione nè a protettorato nel Marocco; che anzi non desiderava che il mantenimento dello status-quo senza però escludere il miglioramento delle condizioni fatte agli stranieri delle diverse nazioni nei loro rapporti con quel paese.
«Infine il Sig. Ferry conchiuse la sua conversazione sul Marocco dicendo che la Francia ne aveva a sufficienza di annessioni e di protettorati nel Mediterraneo, che non aspirava ad altri e non desiderava per parte sua che lo status-quo attuale tanto al Marocco che nella Tripolitania.»
Vale a dire, in altri termini, che se la Francia non pensava ad annettersi nè il Marocco, nè la Tripolitania non era propensa tuttavia a cedere senza compenso su questa ultima regione. Comunque, il Menabrea, nell’agosto del 1890, aveva fatto sapere al Crispi che il Ferry gli aveva confidenzialmente confermato che la Francia avrebbe dato il suo concorso per occupare Tripoli, in cambio della Tunisia che rimarrebbe incontestata alla Francia».
Ma Francesco Crispi, col suo telegramma del 2 agosto, rispondeva al Menabrea in questi termini:
«La Tripolitania appartiene all’impero Ottomano e noi, per averla, non vorremmo provocare una guerra europea. La Francia, qualora si mostrasse disposta a facilitarcene il pacifico acquisto come compenso della Tunisia, dovrebbe adoprarsi con tutti i suoi mezzi a Costantinopoli e a Pietraburgo, donde naturalmente verranno le opposizioni. È bene che questo sia posto in chiaro, perchè a noi non basta il solo consenso della Francia per occupare il suddetto territorio.»
Concludendo sulla Tripolitania, si può affermare che l’Italia ne pretendeva il possesso come compenso della Tunisia. Cosa che si sarebbe dovuta tenere presente dal Visconti-Venosta quando, nel dicembre del 1900, rinunziò al Marocco, purchè fosse lasciata mano libera all’Italia in Libia. Sin qui si è parlato del Marocco soltanto incidentalmente. Adesso conviene parlarne con maggiore ampiezza, perchè l’Italia di Francesco Crispi tentò tutte le vie per non soccombere dinanzi alla irritante ma, al tempo stesso, ammirevole invadenza francese.
La Francia, infatti, stando alla teoria accennata di sopra e cioè che una nazione che occupa un territorio coloniale ha il diritto di espandersi ai lati di esso, non aveva certamente perduto di vista il Marocco, ad onta delle dichiarazioni esplicite del Ferry al Menabrea, dichiarazioni delle quali si è già parlato.
Francesco Crispi, scaltrito dalle precedenti promesse francesi, non prestando fede alle assicurazioni date dal Ferry, il 4 maggio 1887 stipulava un trattato di alleanza con la Spagna. A questo patto, formato di tre articoli, aderirono più tardi Germania ed Austria-Ungheria. Benchè sembrasse diretto contro la Francia, non si deve negare che l’art. 2 suonava così: «Abstention de toute attaque non provoquée, ainsi que de toute provocation.»
Voleva l’Italia, con questo trattato, salvaguardando gli ingenti interessi spagnoli al Marocco, salvaguardare anche quelli suoi, essendo potenza mediterranea, a cui era stata inferta una ferita per la Tunisia. Ad ogni modo, questo trattato durò quattro anni e non venne rinnovato perchè la Spagna era sopratutto legata economicamente alla Francia.
Il Governo italiano, presieduto dal Crispi, che aveva assunto la direzione della politica estera nel 1887, cercò di influire sul sultano del Marocco d’allora, Mulài el Hàssan, il quale accettò ben volentieri i servizi che l’Italia era pronta a rendergli. Così fu visyo commissionare ai cantieri navali italiani la prima nave da guerra marocchina, l’incrociatore «Bascir»; come pure furono gli Italiani ad impiantare una fabbrica d’armi ed una zecca a Fes (Fez). Ora questo aumento di prestigio dell’Italia dimostrava chiaramente che, volendo e sapendo agire con oculatezza e fermezza, era possibile far pesare la volontà dell’Italia, nelle necessarie e fatali competizioni internazionali. Ma bisognava saper manovrare, quando occorresse, le alleanze e farle valere.
Certo si è che la spiegabile gelosia ed invadenza francese potè essere contenuta automaticamente, quando si presentò l’occassione di un grave incidente fra il presidio spagnolo di Melilla ed i Marocchini. Infatti la Francia fu impedita dallo intervenire nella faccenda, anticipando il danaro che il sultano avrebbe dovuto sborsare, quale indennità dovuta alla Spagna, che aveva avuto un forte distrutto e parecchi uomini uccisi.
In altri termini, l’Italia era riuscita a frustrare le non sempre fondate pretese e, spesso, eccessive della Francia, interessando tutta l’Europa, la quale era, in definitiva, «concorde nel volere che il Marocco restasse aperto alla attività di tutte le nazioni.»
Sebbene in Francia si sia sempre stati propensi ad ammettere che l’Italia crispina fosse nemica dichiarata di essa, è da affermarsi alto e forte, però, che questa Italia crispina non aggredì nessuno nè usurpò i diritti di nessuno; ma volle e seppe sempre resistere agli attacchi od alle pretese irragionevoli altrui; se questo altrui suona quasi esclusivamente Francia la colpa non è certamente dell’Italia d’allora, e, forse, neanche della Francia: bisognerebbe attribuire i malumori e gli attriti alla contiguità delle zone in cui, talvolta, gli interessi delle due nazioni sono stati e saranno divergenti e contrastanti a dirittura. Tuttavia, la Grande Guerra à dimostrato palesemente che le due nazioni sorelle si sono sempre incontrate sulle strade maestre della storia.
Occupazione di Massaua. — Si è detto di sopra che, il dieci marzo 1882, il governo italiano otteneva dalla Rubattino la cessione di Assàb e territorio adiacente per lire quattrocento-sedici mila e che, pochi mesi prima, il Cairoli vi aveva nominato un Commissario civile. Questo modestissimo possedimento coloniale non poteva continuare a sussistere così com’era, perchè, se politicamente aveva un valore più tosto teorico, praticamente esso era di assai scarso valore. Malo spingersi oltre non dipendeva soltanto dalla tentennante volontà dei governi italiani dell’epoca, ma anche da quella di nazioni come l’Inghilterra, la quale, come abbiamo visto, aveva nel Mar Rosso la sua corda più sensibile.
L’occasione di procedere oltre, comunque, non poteva tardare e non tardò, in effetti. E fu quando, scoppiando la grave insurrezione mahdistica contro gli Inglesi del Sudàn, fu giocoforza a questa nazione di rivolgersi all’Italia, per gelosia della Francia, la quale si era posta ad Obock-Gibùti, sin dal 1862; ma solo dal 1880 definitivamente sistemata colà.
Gli Inglesi — come si disse — erano stati vincitori di Arabi Pascià a Tell-el-chebìr, il 13 settembre 1882; ma, un anno dopo, il Sudàn era in fiamme per la predicazione del Mahdi di Dongola, Mohàmmed Ahmed, il quale si pensava di scacciarne gli infedeli cristiani inglesi. Ora, mentre in un primo tempo, questi ultimi avevano cercato di escludere in modo assoluto gli Egiziani dal Sudàn, si videro costretti, in tale difficile frangente, a far causa comune con gli Egiziani stessi, sia per la liberazione delle guarnigioni egiziane, sia per gli Inglesi stessi assediati ugualmente dalle orde fanatiche del Mahdi. Il generale Gordon, espressamente mandatovi, per la pacificazione, si dovette rinchiudere a Chartùm, dove morì, difendendosi eroicamente.
L’Inghilterra corse subito ai ripari ed allestì una spedizione di 1o mila uomini, lasciando imbarcare sulle navi le truppe sbarcate a Suachim; anzi il porto stesso fu dato in cura alla flotta dell’ammiraglio Hewett quello stesso che, poco dopo, avrebbe dovuto negoziare col Negus Giovanni.
I Francesi di Gibuti, dopo l’errato non intervento in Egitto, pensavano di rifarsi nel Mar Rosso, tanto più che l’Italia si era finalmente decisa a muoversi anch’essa. Agli Inglesi non erano ignote le mire di costoro, i quali tendevano ad ampliare i loro possessi di Obock-Gibuti. Pertanto, occupano subito Bèrbera e Zeila, apprestandosi anche ad occupare Tagiùra; ma i Francesi ve li precedono.
L’on. Mancini, quello stesso che non era voluto intervenire in Egitto, accortosi dell’errore, si sforzò di porvi riparo e, quando lord Granville, vide la situazione grave e con tendenza ad aggravarsi, per gelosia della Francia, si rivolse di nuovo all’Italia.
Massaua, in quel tempo, attraversava un momento critico, perchè i Dervisci avrebbero potuto occuparla da un momento all’altro, tanto che Nubar Pascià, governatore egiziano di essa, chiedeva truppe di rinforzo ed una nave da guerra.
Ma lord Granville, questa volta, fu più discreto del 1882, temendo di aver un secondo rifiuto, come pur sarebbe stato da prevedere. Il 28 settembre 1884, fece tuttavia capire al Catalini, Incaricato d’affari italiano a Londra, che avrebbe gradita assai la cooperazione dell’Italia con l’Inghilterra nella difficile impresa attuale.
Allora il Mancini volle precisare, scrivendo a Costantino Nigra, ambasciatore a Londra, in data 28 ottobre 1884. Egli, in sostanza, avrebbe voluto conoscere le intenzioni della Gran Bretagna, nel caso che l’Egitto fosse costretto ad abbandonare Massaua e cioè se «dobbiamo ritenere che essa vedrebbe senza gelosia una modesta estensione del nostro possedimento, e preferirebbe che nel tratto di costa che ho dianzi accennato fosse stabilita, se non mercè estensione territoriale, almeno in altra forma da determinarsi, l’autorità dell’Italia, per la quale i cordiali rapporti dell’Inghilterra sono oramai costante tradizione politica».
La modesta estensione, in verità era fin troppo modesta: si trattava di Beilul, dove era avvenuto l’eccidio della spedizione Giulietti.
Lord Granville rispose che gli Inglesi erano «disposti a far buon viso» alla modesta estensione italiana nel Mar Rosso. Ma che, in ogni caso, «il governo di S. M., non potendo pensare a disporre di ciò che non gli appartiene, ho soggiunto al conte Nigra (il Granville scriveva infatti al suo ambasciatore a Roma) che sarebbe stato desiderabile un accordo su ciò con la Porta».
La chiusa di questa dichiarazione fece mancare l’ardimento al Mancini, preoccupato sempre di astratte questioni giuridiche, tanto che, lui giurista, non fu capace di dare una assetto giuridico definitivo alla nuova modesta colonia italiana. Egli, infatti, il 22 dicembre 1884, riceve una comunicazione del conte Nigra, in risposta ai non pochi dubbi da lui stesso sollevati, dopo la risposta di lord Granville. Il Nigra, nel suo rapporto, scrive, tra l’altro, quanto appresso: «Io posso soltanto dichiarargli — aveva detto lord Granville — che il governo di Sua Maestà, dal canto suo, non ha obbiezioni da solletare contro l’occupazione italiana di qualche punto della costa fra Beilul e Massaua, inclusivamente, subordinatamente però, per quanto riguarda il secondo di questi porti, a certe determinate condizioni stabilite nel nostro recente trattato con l’Abissinia».
Dunque, l’Italia — si sarà detto il Mancini — à facoltà di occupare il porto più importante del Mar Rosso! Sembrava un sogno. Ma, riflettutoci bene, venne a capo della... generosità inglese e si avvide che essa era dettata dalla necessità che l’Inghilterra aveva di aiuto nella pacificazione del Sudàn. Invece, il vero scopo della Gran Bretagna l’abbiamo accennato di sopra. D’altra parte tutto fa supporre che mai il Mancini facesse l’offerta di intervento nel Sudàn, cosa che sarebbe specialmente dispiaciuta agli Inglesi, i quali, conoscendolo a palmo a palmo, non volevano certamente escludervi gli Egiziani per favorirvi gli Italiani.
Qualunque sia la faccenda, certo si è che Massaua fu occupata dalle truppe italiane al comando del colonello Saletta, il 5 febbraio 1885, ossia il giorno stesso in cui Chartùm cadeva nelle mani dei Mahdisti e Gordon, l’eroico, veniva trucidato dai medesimi. Il generale inglese Volseley, quello stesso che aveva sconfitto i ribelli egiziani a Tellel-chebìr, dopo una snervante sosta di 40 giorni a Suachim, avendo avuto finalmente l’ordine di dirigersi verso Chartùm, giunse al cospetto della città, quando tutto era «ferro e fuoco».
Intanto, il 25 gennaio, era stato occupato Beilul, dopo averne catturato il presidio egiziano: Se non che, allorquando in Italia ci s’illudeva che l’Inghilterra avesse accettato di buon grado la cooperazione nel Sudàn, per la repressione della rivolta mahdista, il tempo delle operazioni venne differito e l’Inghilterra, declinando l’offerta di uno sbarco di truppe italiane, nel porto di Suachim, dichiarò che essa, per reprimere la sollevazione di un «popolo africano» non aveva bisogno di aiuti di altre nazioni; e ciò per non sconfessarsi dinanzi all’impero. Ma la risposta, secca e tagliente, era stata più che meritata, perchè ben pusillo era stato l’animo del Governo italiano nel 1882.
Massaua occupata, voleva dire contatto con l’impero d’Etiopia, in un punto dove esso non avrebbe potuto transigere. La situazione degli Italiani, in verità, non era delle più brillanti in quanto essi si vennero a trovare di fronte alla Francia, che mal volentieri tollerava di essere stata preceduta; contro la Russia, che aveva intenzione di incanalare un suo protettorato..... religioso, sia pur lontano, nell’Etiopia; ed, infine, la futura quanto prevedibile ostilità del Negus, che non s’era certamente disfatto degli Egiziani, per aver sulla costa gli Italiani, cristiani quanto si vuole, ma pur sempre invasori come qualsiasi altro. Vero è, tuttavia, che le relazioni degli Italiani con re Giovanni e con l’Etiopia non erano cattive, se è vero che il Massaia ed il padre Stella, erano riusciti, nel passato, a procacciarvi vantaggiose condizioni per l’Italia, specialmente per la colonia dello Sciòtel, di cui s’è accennato di sopra.
Se Massaua era stata occupata, vi rimaneva ancora il presidio egiziano di 180 uomini. Quindi, il primo pensiero del generale Genè, succeduto al Saletta ed all’ammiraglio Caimi, fu quello di spedire il detto presidio in Egitto, mentre i basci-buzùch, o irregolari, passavano quasi tutti al servizio italiano: naturalmente, la Turchia protestò vantando diritti di sovranità sulle coste africane del Mar Rosso.
Intanto, il Mancini s’era dovuto dimettere ed era stato sostituito dal Depretis, che assunse interinalmente, e per poco, il dicastero degli esteri, dicastero che, poco appresso, venne affidato al Di Robilant, gran diplomatico nei fatti europei, ma spreparato nei fatti africani.
La penetrazione in territorio etiopico doveva essere soltanto pacifica, com’era opinione quasi unanime della Camera italiana; ma, evidentemente, non si aveva un’esatta cognizione nè degli uomini nè dei luoghi. Tanto ciò è vero che il Mancini, interrogato sulla ubicazione di Chèren, dava una risposta poco convincente, col dire che: «a quanto pare sarebbe situata nel paese dei Bogos». Egli, fedele sacerdote della politica delle mani nette, si vantava di aver piantata la bandiera d’Italia su terre africane, senza spargervi una goccia di sangue, senza resistenze e conflitti, senza complicazioni e senza gravi sagrifici. Ma se il Mancini s’illudeva, il Minghetti, per esempio, uno dei più convinti consiglieri di una politica modesta, non si peritava di affermare molto leggermente che Massaua si sarebbe potuta difendere «con un battaglione contro tutte le forze dell’Africa».
Se questa non era incoscienza, ci si domanda perplessi che cosa sia mai l’incoscienza!
Non potendosi verisimilmente difendere Massaua, senza un certo territorio circostante, senza terraferma, in possesso degli Italiani, il Mancini aveva permesso l’occupazione di alcune località come Archico, Arafali, distante quest’ultima 65 chilometri da Massaua.
Se non che il Ras Alúla, governatore dello Hamasién, non era contento di tale occupazione di territorio ed era deciso ad opporvisi. Dal canto loro, gli Italiani volevano occupare anche Saàti, che era presidio egiziano. Di guisa che, il 21 aprile, il colonello Saletta aveva fatto sapere, per lettera, che il suo governo gli aveva dato ordine di occupare Saàti, la quale località dista venticinque chilometri da Massaua: Ras Alula, dal canto suo, fece apertamente sapere che quello che si voleva occupare «era un terreno neutrale». Si delinea già all’orizzonte la tempesta che si addenserà minacciosa e distruttrice sul capo degli eroi di Dogàli.
Il governo italiano non aveva intenzione alcuna di inimicarsi né Ras Alula, né il Negus; aveva pertanto mandato la missione Ferrari-Nerazzini, che aveva concluso un’accordo con quest’ultimo, accordo per il quale egli poteva fare liberamente transitare le merci da e per l’Etiopia nel porto di Massaua mentre il Negus, in compenso, riconosceva all’Italia il diritto di occupare il paese dei Bògos e Càssala.
Ras Alula non la pensava così, specie dopo l’insuccesso della seconda missione italiana comandata dal generale Pozzolini. Questa missione era pronta sin dal 23 gennaio 1886; ma, quando si chiede al Negus il luogo d’incontro egli fissò Borumièda, località distante un cinquanta giornate di marcia da Massaua. Inutile aggiungere che la missione Pozzolini non accettò l’invito, visto e considerato che il Negus aveva, per giunta, mutato parere.
Gli Italiani, nel frattempo, avevano occupato Uaà e Zula, in cui s’erano fortificati. Il Negus aveva intimato di sgombrare questa località, mentre Ras Alula si portava a Ghinda a circa 60 chilometri da Massaua, intimando a sua volta al generale Genè di sgombrare Uaà e Zula: siamo ai primi di gennaio 1887 e gli eventi precipitano. Ras Alula, infatti, aveva trattenuti come ostaggi il conte Salimbeni, il tenente Savoiroux ed il maggiore Piano, che si accingevano ad esplorare il Goggiàm.
La pronta risposta del Genè fu l’immediata occupazione di Saàti da un distaccamento, dislocando inoltre a Moncullo, tra Massaua e Saàti, una colonna al comando del tenente colonello De Cristoforis, il quale sarebbe dovuto accorrere di rincalzo al presidio di Saàti, nel caso che venisse attaccato.
Il Ras Alula, con forze più che preponderanti (circa 10 mila uomini) attaccò Saàti il 25 gennaio ma venne sanguinosamente respinto. Naturalmente, covò la vendetta: il giorno dopo se ne presentò l’occasione propizia.
Il De Cristoforis mosse con la sua colonna di 500 uomini da Moncullo a Saàti, di scorta agli approvvigionamenti del forte; Ras Alula, con i suoi 10 mila armati, lo attese al varco, sull’altura di Dogàli, presso Saàti.
La lotta fu epica ed il valore dimostrato in quel frangente dagli Italiani restò leggendario, perchè, quando dopo il combattimento vennero i rinforzi, trovarono i 500 eroi giovinetti tutti allineati, come fossero schierati per una parata.
Tutti caddero morti per più ferite; solo un’ottantina, gravemente feriti, erano sfuggiti al massacro, perché creduti morti dal nemico vittorioso, ma ammirato di tanto sublime eroismo. Gli eroi di Dogali, tuttavia, avevano fatto pagare cara la pelle al nemico, che ebbe circa un migliaio tra morti e feriti.
Sull’episodio di Dogali, le più belle pagine scritte da Italiani sono certamente quelle di Alfredo Oriani; pagine in cui rivivono e rivivranno gli eroismi immacolati di coloro che, accerchiati da ogni parte, sopraffatti dal numero, accettano eroicamente il combattimento contro le orde abissine e, anche feriti, anche moribondi trovano la forza eroica di presentare le armi ai loro compagni che, nell’adempimento del loro sacro dovere, avevano ammonito che, moralmente, l’Italia era grandissima nazione degna d’impero e di potenza.
L’episodio di Dogali valse a scuotere l’anima della nazione e la bamboleggiante illusione degli inetti governanti: il ministero Depretis-Di Robilant cade e viene, dopo la morte del Depretis, per unanime consesso del popolo, chiamato al governo Francesco Crispi, che pure aveva avversata l’impresa del Mar Rosso, troppo lontano dall’Italia, in cambio del Mediterraneo troppo vicino.
La Camera votò sùbito un credito di cinque milioni, portati, poco dopo, a venti, perchè il generale Robilant aveva detto: «Quando una volta la nostra bandiera s’innalza in qualche sito, se l’onore nazionale è impegnato, non la si ammaina più».
Relatore del disegno di legge e presidente della Giunta fu Francesco Crispi, il quale raccomandò il credito con queste parole:
«Il fatto doloroso nel quale il parlamento è chiamato ad intervenire, ci dispensa da ogni considerazione. Nella vita della nazioni sorgono momenti difficili in cui il sentimento del dovere s’impone. Ci asteniamo adunque da ogni esame retrospettivo del passato, limitandoci per ora di provvedere alle presenti esigenze.»
Il Crispi, salito al potere, sostituì il generale Genè col generale San Marzano; mentre — come si disse — il credito di 5 milioni fu portato a 20. Ma, prima che il San Marzano giungesse in Africa, era stato chiamato in colonia il colonnello Saletta, diventato nel frattempo generale.
Dopo lo scacco di Dogali, furono inviati in Africa dei rinforzi in numero di circa 2.100 uomini.
Il generale Saletta si diede a tutt’uomo a riorganizzare le truppe che erano diventate più numerose. E, poichè Ras Alula stette inattivo, egli ebbe il tempo di munire fortemente Massaua, collegandola in pari tempo con un cavo telegrafico ad Assab e Pèrim. Finalmente, con decreto del 14 luglio 1887, venne costituito il Corpo speciale d’Africa, la cui entità era di 5 mila uomini e quattrocento quadrupedi: era ormai palese che indietreggiare non si poteva, nè si doveva più, mentre s’incominciava a dimostrare almeno ridicola l’affermazione del Robilant, il quale, al deputato De Renzis, nella seduta del 24 gennaio 1887, aveva risposto:
«Non mi pare che convenga e non conviene certamente attaccare tanta importanza a quattro predoni che possiamo avere tra i piedi in Affrica»
Ormai nessuno s’illudeva più che ci potesse esser pace: si corse, dunque, alle armi.
Nei cinque mesi che seguirono venne costruita la linea ferroviaria da Massaua (arsenale marittimo di Abd-el-Càder) a Saàti, lunga 27 chilometri.
Il 27 febbraio 1888, intanto, re Giovanni aveva dichiarato la guerra santa con l’intento di sterminare «dapprima gli Italiani e dopo i Dervisci». Egli, con un forte esercito, era sceso per attaccare le posizioni italiane; ma, poichè esse erano fortificate a dovere, pensò bene di astenersene, per evitare, in caso di sconfitta, la ritirata disastrosa del suo esercito. Così, il 29 marzo, mandò un suo ufficiale, che consegnò una lettera al San Marzano. Ne riportiamo i brani più salienti:
«Se Dio mi dà la forza, voi da una parte ed io dall’altra, potremo combattere quei dervisci selvaggi e li distruggeremo, allargando il nostro paese. Ciò sarebbe preferibile. Io sono cristiano come voi; siamo fratelli; la discordia nostra serve solo a far ridere gli altri.
«....Io sono re, ed anche Umberto è Re e se sopra di noi ci fosse qualcuno che ci comandasse, io sarei quello che avrei diritto di porgere lagnanze. Io dico questo perchè voi siete venuti a combattere nel mio paese, io non sono andato nel vostro.
«Adesso io non sono venuto per combattere con voialtri; son venuto perchè mi hanno detto che il paese è stato invaso; sono venuto per custodire le mie frontiere. Ritornate dunque nel vostro paese, restiamo ciascuno nel nostro. Il porto di Massaua sia aperto come era prima: che i poveri ed i negozianti che sono da voi e da noi possano liberamente guadagnarsi il loro pane. La risposta mandatemela presto.
Scritta dal campo di Ailet, 26 marzo 1888.»
Il San Marzano comunicò la lettera a Roma per avere istruzioni; infatti egli, dopo averle ricevute, rispose al Negus, chiedendo:
1° Riconoscimento da parte dell’Abissinia del protettorato dell’Italia sulle tribù degli Assaorta e sugli Arabi Habàb.
2° Possesso incontestato dell’Italia su Saàti e Uaà con tutto il terreno retrostante sino al mare e con altrettanto avanti per una giornata di marcia. Ghinda rimarrebbe all’Abissinia; Ailet e la sua valle all’Italia; il confine dovrebbe a suo tempo venire segnato di comune accordo con colonnette sul terreno.
«S. M. — diceva egualmente la lettera — il mio Augusto Sovrano dice ancora che, avvenuto l’accordo su queste due condizioni, egli è pronto a stipulare un trattato di amicizia e di commercio con Vostra Maestà per facilitare gli scambi fra l’Italia e l’Abissinia con vantaggio comune...»
Al che Re Giovanni rispose, per lettera, che la riconciliazione era impossibile.
«Come potrei concedere il paese che i re miei avi governarono? Cristo li diede a me. Dove dobbiamo incontrarci perchè il sangue cristiano sia sparso? Io mi trovo in un posto e voialtri in un altro; che cosa ci può incontrare? E però da quest’ora non verrà più il mio messo e che il vostro non venga più da me».
Comunque, il Negus — come si disse — si era ritirato, temendo che, a cagione di un insuccesso, potesse essere esautorato dinanzi ai suoi vassalli. Del resto — secondo l’Antonelli — re Giovanni era sceso sin presso la costa perchè l’esercito suo era talmente affamato da gridare abiet, voce che serve a chiedere giustizia ad oltranza, fino a che il signore non si degni di ascoltare tale querela.
E poi — dicevano i soldati abissini — «noi possiamo affrontare un esercito di uomini, ma non un esercito di Dio che viene dal cielo».
Volevano essi alludere al pallone che il San Marzano aveva fatto inalzare per spiare meglio le mosse dell’esercito nemico. Inoltre, avendo Ras Alula mandato alcuni suoi uomini sotto le mura del nostro forte per sparare alcune fucilate, essi si videro accecati in piena notte da uno sfolgoranto sole..... di luce elettrica. Il timore panico tu tale che non ardirono più sparare una fucilata.
In tal modo il nemico, non sicuro delle sue forze, si rifiutava di combattere restaurando indirettamente il prestigio dell’esercito italiano. «La ferita di Dogali — scrive il Palamenghi — non aveva avuto il balsamo della vendetta, però l’onore delle armi era salvo» (pag. 109).
Contro il sennato parere del Minghetti, il Mancini aveva lasciato insoluta la questione giuridica del nostro possesso di Massaua: e dire che egli era giurista di grido!
Salito al potere, Francesco Crispi cercò di porre riparo ad un sì instabile ed equivoco stato di cose, pur dovendosi far notare come, personalmente, egli avesse avversata la ricerca delle chiavi del Mediterraneo fuori del Mediterraneo: infatti — da statista di razza e da uomo dall’intuito lucido e penetrante — pensava come il campo di lotta dell’Italia unita era il Mediterraneo, almeno in un primo tempo; salvo poi a lanciare lo sguardo oltre quel mare, che l’apertura dell’istmo di Suez aveva ancora una volta reso uno dei massimi bacini di attrazione civile ed economico del mondo.
Ma — comunque — non conveniva disfare quel che era stato così male imbastito dai suoi predecessori, anche perchè l’Italia non ne subisse disdoro alcuno dinanzi alle potenze e veruna deminutio capitis, specialmente nei confronti del più agguerrito ed organizzato popolo africano, anche se soltanto africano.
Avvenne, adunque, che, volendo il Crispi sistemare giuridicamente la posizione giuridica del recente possedimento italiano, si trovò ostacolato dalle pretese della Francia, la quale pare abbia avuto per mira costante di ostacolare un benchè minimo ingradimento dell’Italia. Ad ogni modo, a noi preme narrare possibilmente sine ira et studio in che modo si svolsero i fatti.
La Francia pretendeva di conservare il diritto alle Capitolazioni e l’Italia, governata saggiamente dal Crispi, pretendeva, a maggior ragione, che fossero abolite. Così, per tagliar corto alla lite, egli deferì la questione al tribunale delle Potenze, sostenendo che la Francia non aveva diritto a chiedere la conservazione delle Capitolazioni, perchè Massaua e regioni adiacenti, essendo in possesso di una potenza civile e cristiana, potevano e dovevano reggersi secondo le leggi della civiltà e della Cristianità europee. Naturalmente, Francesco Crispi ebbe causa vinta, per modo che il recente acquisto coloniale italiano ebbe la sua sistemazione giuridica, meno, s’intende il riconoscimento dell’Egitto, vassallo della Turchia, e di questa stessa nazione, la quale amministrava direttamente l’antistante costa araba.
Ma la Porta, ora non più Sublime, non aveva per nulla rinunziato ai diritti di sovranità su l’Algeria e la Tunisia, anche dopo che queste due regioni nord africane erano cadute in mano della Francia: del resto, era ormai destino del cadente e decadente impero osmanlico di lasciarsi defraudare da tutti e di protestare sempre, sino a sazietà, proprio come quei tali soldati abissini, che gridavano instancabilmente abiet al loro Negus Negàst. Così, al momento di varare l’atto per la libera navigazione sul canale di Suez, la Turchia, in un articolo addizionale, dichiarava solennemente che: «le ministre des affaires étrangères constate que ni l’esprit, ni la lettre de l’article 10 de la Convention n’implique une renonciation quelconque, de la part du gouvernement impérial de Sa Majesté le Sultan, à ses possessions situées sur la côte occidentale de la Mer Rouge».
Le quali esplicite dichiarazioni volevano senz’altro dire che la Turchia non riconosceva il fatto compiuto della nostra occupazione di Massaua. Saputo ciò, il Crispi fece conoscere all’ambasciatore Blanc l’opportunità che dinanzi a tali proteste, certamente caldamente patrocinate dallo stesso ambasciatore francese a Costantinopoli, Goblet, la Turchia dichiarasse esplicitamente a quali diritti di sovranità intendesse non rinunziare, dato che essa ne vantava tuttora in Algeria in Tunisia, in Libia.
Il colpo — come si può agevolmente osservare — era tanto magistrale che lo stesso ambasciatore di Francia fece di tutto per dissuadere la Sublime Porta a non insistere nelle richieste di cui sopra: in tal modo, il Crispi aveva definitivamente scongiurato ogni attacco diplomatico da parte di qualsiasi nazione, proprio come, in breve tempo, aveva rialzato il prestigio dell’esercito italiano, specie nei confronti degli Abissini, che stanno adesso in ottimi rapporti anche con l’Italia di Mussolini.
La convenzione per la navigazione nel canale di Suez fu, quindi, firmata senza atto addizionale, il 29 ottobre 1888.
Il Negus — come s’è visto — aveva dichiarato la guerra santa in tutto l’impero contro Dervisci ed Italiani. La notizia era stata confermata da Sir Gerard Portal il quale era andato in missione da lui, a nome della Regina Vittoria, ossia per indurlo a riconoscere senz’altro i recenti acquisti fatti dagli Italiani. Ma il Negus fu irremovibile: si dovette, quindi, pensare a combattere. Fu per questo che il Corpo speciale d’Africa era forte, sul finire del 1887, di 20 mila uomini, ivi compresi 5 mila uomini tra indigeni ed irregolari.
Visti fallire tutti i tentativi pacifici, e riuscita vana ogni pressione amichevole presso il Negus, gli Italiani cercavano di approfittare di ogni occasione per sfruttarla a vantaggio. Proprio ora, Menelìch, re dello Scioa, pretendente al trono d’Abissinia, aveva fatto capire all’Antonelli di essere disposto ad allearsi con l’Italia contro il Negus, purché gli fossero fornite armi, ed armi moderne. Infatti, sul finire del 1887, gli vennero consegnati in dono mille fucili. Menelìch incominciò a raffredarsi con Negus Giovanni e si avvicinò all’Italia.
Tale avvicinamento, transformatosi poi in vera e propria alleanza, sarebbe dovuto costar caro all’Italia, sempre per l’insipienza di coloro che, in frangenti difficilissimi, non ebbero sempre la forza delle estreme decisioni.
Menelìch era figlio naturale del primogenito Sahle Sellasié, re dello Scioa e «dei più saggi principi — dice il Martini fra quanti ne ricorda la storia dell’Etiopia». Il maggior figlio di lui, Ailù Malacòt, poco più che quindicenne, ubriaco di idromele e di arachi, possedette la più brutta delle schiave della madre, Egigaió. La quale partorì un bambino a cui fu imposto il nome di Menelìch.
Si narra che un monaco, tenuto in conto di profeta, avesse predetto a Sellassié che il primogenito del suo primogenito avrebbe conquistato il trono dell’Etiopia.
Dunque, Menelìch, re dello Scioa, si ribellava a Giovanni, alleandosi con gli Italiani, col preciso intendimento di cingere la corona di re dei re. Nel settembre del 1887, quando il Negus aveva già stabilito di «gettare a mare gli Italiani,» Menelìch si era fatto mediatore di pace tra l’Italia e l’Etiopia. Anzi, in una lettera, scritta dall’Antonelli al Crispi, da Addis Abebà, il 29 ottobre dello stesso anno, si rileva che il Menelìch amava tanto l’Italia da sentirsi «quasi Italiano». Ma, d’altra parte, «o per amore o per altra ragione che qui non è il caso di dire, sono legato all’Imperatore con un giuramento di amicizia e di fedeltà». E — come diceva — trovandosi «nella più penosa delle situazioni» non voleva tuttavia restare «inoperoso». Voleva la pace per il bene di tutti. «Se l’Italia e l’Imperatore aderiscono alla mia proposta, per le trattative difinitive invierò io stesso i miei ambasciatori in Italia, ed il mio nome sarà grande nella storia del mio paese.
«Se poi o l’uno o l’altro rinunzierà alla pace, io so quello che debbo fare. Non darò mai il mio appoggio a chi vuol la guerra per forza.»
La guerra «per forza» era stato il Negus a volerla e, quindi, il conte Antonelli ne aveva approfittato per trascinare Menelìch dalla parte dell’Italia, tanto più che lo stesso Antonelli sapeva benissimo che i sentimenti di Menelìch verso il Negus erano quanto mai ostili.
Così, quando re Giovanni aveva ingiunto al suo vassallo Menelìch di prepararsi alla guerra, questi aveva risposto dichiarando la sua neutralità: era un vero e proprio atto di ribellione, di cui doveva giovarsi l’azione dell’Italia nei confronti dell’Imperatore d’Etiopia.
Ma se Menelìch, dietro gli stessi suggerimenti dell’Antonelli, si era ribellato indirettamente al suo signore, non era tanto forte, d’altra parte, da contrastare seriamente ad un tentativo di castigo, che fosse venuto da parte del Negus, appena costui fosse riuscito, in un modo o nell’altro, a mettersi d’accordo con gli Italiani. Nell’intento di dissuadere l’Imperatore a castigare esemplarmente il vassallo fedifrago, era, adunque, necessario che quest’ultimo fosse tanto armato e tanto forte da dissuadernelo.
Così, tra l’Antonelli e Menelìch, fu convenuto che, mentre questi si obbligava a sostenere gli Italiani contro gli assalti del Negus, quegli, a nome dell’Italia, gli avrebbe fornito 5 mila fucili Remington.
Il Menelìch, appunto perchè doveva essere convinto del diniego del Negus, fece un’offerta di mediazone, la quale, benchè potesse sembrare ambiziosa, fu tuttavia accettata. Ma tale accettazione non ebbe sèguito, perchè il Negus non intendeva retrocedere di un passo: gli Italiani dovevano restare confinati a Massaua, se volevano ottenere la pace dell’Abissinia. Ma il re d’Italia aveva fatto rispondere, a sua volta, che anche lui voleva la pace ma «dopo che la iniqua aggressione dello scorso anno abbia avuto soddisfacente riparazione».
Si sa come il Negus aveva risposto.
Menelìch, in data del 14 marzo 1888, faceva solenne promessa che, sebbene il Negus si fosse già mosso per attaccare gli Italiani, essi potevano fidarsi di lui, perchè non aveva nessuna intenzione di prestargli aiuto. La situazione era incerta, perchè l’Antonelli sapeva bene quale fede prestare alle parole di tutti gli Abissini, compreso lo stesso Menelìch, che, pur trovandosi ormai compromesso, avrebbe potuto da un momento all’altro cambiare opinione.
Ma, saputo che Menelìch desiderava armarsi, ad ogni buon fine, contro le eventuali sorprese del Nègus, scrisse a Roma perchè fosse accolto il desiderio del re dello Scioa, il quale chiedeva al re d’Italia l’invio di 10 mila fucili Remington e 400 mila cartucce Vetterli. Questi fucili dovevano essere spediti ad Assàb da dove Menelìch li avrebbe fatti ritirare; ma il Governo italiano avrebbe dovuto anche anticipare metà del denaro occorrente per il loro trasporto a dorso di cammello. Se fosse riuscito ad avere tuto questo, l’Italia non avrebbe avuto più nulla da temere ed i morti di Dogali sarebbero stati vendicati, senza spendere molti milioni.
Il Crispi, informato di tutto ciò e rassicurato dall’Antonelli stesso sulle buone intenzioni del Menelìch, telegrafò in questi termini:
«In massima accetto l’alleanza e darò armi ed aiuti da concertarsi. Però voglio garenzie tali da assicurarmi che il re Menelìch non potrà, in qualsiasi circostanza, mancare ai suoi impegni. Le garenzie dovrebbero essere di territorio e di ostaggi. Circa i territori si concorderà un progetto.»
L’Antonelli, dopo l’incontro del 29 giugno ad Antoto, partì per Roma dove fu concertato che Menelìch avrebbe dovuto stipulare con l’Italia un trattato di amicizia e di commercio, che sarebbe andato in vigore allorché, dopo sconfitto re Giovanni, egli si sarebbe proclamato Negus Neghàst. L’Italia avrebbe ottenuto il possesso dell’Asmara ed un territorio di confine su un ciglio dell’altopiano.
Ma gli eventi precipitavano. Il Negus, avendo rifiutato di combattere contro gli Italiani, si era rivolto contro i Dervisci: Menelìch, adesso, temeva fortemente per la sua vita e per il suo regno, tanto più che i Mahdisti avevano veramente invaso il territorio abissino, incendiando, Ambacierà è saccheggiando Belesa. Il segretario di Menelìch, Iùssef Negussiè, faceva anche lui grandi premure, per timore che il Negus, tornando in settembre, avrebbe attaccato lo Scioa in ottobre.
L’Antonelli, nel frattempo, tornato nello Scioa, aveva portato a Menelìch il trattato da stipulare, una lettera di re Umberto ed una di Francesco Crispi ed anche dei doni. La lettera del Crispi era di questo tenore:
«I territori che il mio Re domanda non sono chiesti allo scopo di fare annessioni, ma bensì per avere un confine ben tracciato con l’Abissinia, e per mantenere i nostri soldati in luoghi meno caldi di Massaua».
Il Negus si era veramente diretto allo Scioa; ma, a causa di un’epidemia scoppiata tra le sue truppe, fu costretto a ritirarsi, differendo la lotta, senza rinunziarvi, tanto che l’Antonelli in data 20 febbraio 1889, scrisse che era conveniente aiutare sempre più il re dello Scioa, perchè «le condizioni dell’Abissinia sono tali che questa guerra, sebbene ritardata, non può mancare... Dalla parte dello Scioa abbiamo un Re amico che, se continueremo ad aiutarlo, ha tutte le possibilità di guadagnare il trono del re dei re e ci ricompenserà largamente di quanto facciamo oggi per lui».
Tutto ormai era stato concluso ed il Menelìch, rispondendo a re Umberto ed al Crispi, faceva loro sapere che l’Antonelli sarebbe prossimamente partito alla volta di Roma unitamente ai suoi stessi inviati, col trattato firmato, soggiungendo che «i territori che S. M. domanda non ho nessuna difficoltà ad accordarli, se è stabilito da Dio che quei paesi dovranno un giorno appartenermi».
Ma le cose sarebbero dovute andare assai per le lunghe se un evento imprevisto non fosse venuto a capovolgere la situazione: il Negus Giovanni, combattendo contro i Dervisci a Metemma, ferito gravemente, era spirato lo stesso giorno, ossia il 10 marzo 1889. Conosciuta tale notizia, Menelìch preparò il suo esercito per invadere gli Uollo-Galla, dove si sarebbe dovuto proclamare re dei re.
Infatti, non avendo il Negus Giovanni lasciato nessuno erede, fu relativamente facile a Menelìch di proclamarsi Nègus Neghàst, con l’aiuto dell’Italia, e poter così realizzare il suo sogno. Intanto, l’Antonelli era riuscito a fargli firmare il trattato che fu detto di Uccialli (2 maggio 1889), nel quale, in virtù dell’articolo 17, l’Italia otteneva il protettorato sull’Etiopia. Questo articolo era del seguente tenore: «S. M. il re dei re d’Etiopia consente di servirsi del governo di S. M. il re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze e governi».
In quanto ai territori, Menelìch aveva mantenuta la sua parola; ma il comando militare italiano, accortosi che il territorio richiesto era insufficiente ad una eventuale ed efficace difesa, chiese ed ottenne tutto lo Hamasièn, anzichè quello settentrionale soltanto. Così, senza colpo ferire, l’Italia conquistava un vasto territorio ed otteneva la preponderanza negli affari d’Abissinia; cosa quest’ultima, che non poteva andare a genio a molte potenze interessate, non diciamo gelose.
Il nuovo imperatore d’Abissinia inviò in missione in Italia Maconnèn, il quale, dopo aver ottenuto un prestito di un milione di talleri (4 milioni di lire), consentì al Crispi che fosse fatta una rettificazione dei due territori, prendendo a base il possesso attuale. Questa convezione addizionale, firmata a Napoli il 1 agosto 1889, non piacque a Menelìch il quale veniva apertamente accusato dagli altri Ras e Negus di vendere il Paese all’Italia; ad ogni modo, l’Antonelli riuscì ad ottenerne egualmente l’approvazione.
Menelìch, adunque, era amico dell’Italia e tale si sarebbe sempre conservato, se si fosse agito con discernimento e tatto. Se non che, il generale Baldissera, che aveva sostituito il San Marzano, fu a sua volta sostituito dal generale Orero, al quale il primo ministro italiano aveva commesso di tenere alto il nome ed il prestigio dell’Italia. Il che non voleva affatto dire che bisognasse urtare la suscettibilità degli Abissini, con atti inconsulti e con spedizioni militari, più o meno brillanti, ma inutili e dannose al prestigio ed al buon nome italiano, appunto perchè non richieste da inderogabili necessità militari o politiche.
Infatti — non si sa bene perchè — l’Orero intrapprese di sua iniziativa una marcia su Adua, con 4.500 fucili. Quest’azione riuscì, ma le conseguenze furono incalcolabili; sia perchè l’Italia incominciò a prestar fede a quanto avevano detto il Robilant ed il Minghetti, certamente in buona fede; sia perchè gli Abissini del Tigrè, che ancora non avevano voluto riconoscere il nuovo imperatore, incominciarono a sospettare che veramente l’Italia avesse comprata l’Etiopia, per il tradimento di Menelìch.
Il Tigrè, quindi, si tenne volutamente lontano dalle influenze italiane, temendo di intenzioni malevole dell’Italia verso di esso.
L’Orero, non potendo essere punito, trovandosi tuttavia a disagio, chiese ed ottenne il rimpatrio: il 4 giugno 1890, gli succedeva il deputato Gandolfi, generale.
La Colonia Eritrea. — L’Italia, in meno di cinque anni, era riuscita a vincere molte difficoltà, fondando la sua prima colonia, che, per volere di Crispi, con decreto 1 gennaio 1890, fu chiamata: Colonia Eritrea. Questa colonia, ormai sicura entro confini quasi ben definiti era d’uopo servisse a qualche cosa, anche nel campo economico; in quanto che la giovane nazione italiana sentiva urgente ed assillante il bisogno di nuove terre e di nuovi sbocchi.
Fu, pertanto, inviata da Crispi una Commissione di cui faceva parte anche Ferdinando Martini, quello stesso che era stato per l’abbandono del territorio. Questa Commissione, al suo ritorno in Italia, pur non alimentando eccessive illusioni, si pronunziò a favore della conservazione dell’acquisto, dicendo che, anche dal lato agricolo, ci sarebbe stato da fare. Furono, quindi, mandate subito in Eritrea venti famiglie di contadini, alle quali fu dato del terreno in ragione di venti ettari ciascuna; fu loro pagato il viaggio, assicurato un anno di vitto e ceduti arnesi da lavoro e bestiame. Tra le clausole principali c’era quella che, «sino alla liberazione del fondo, la direzione dei lavori ordinari e straordinarii, la ripartizione e l’avvicendamento delle colture sarebbero stati riservati alla persona indicata dall’ufficio di colonizzazione». Insomma; l’organizzazione civile era posta su solide basi; tanto che, se non fossero sapravvenute le disgrazie, non irreparabili del 1895-96, le cose sarebbero potute procedere molto meglio di come non procedettero, per molti anni, anche se Ferdinando Martini facesse, in sèguito, tutto il possibile per rialzare le sorti della Colonia Eritrea.
La quale, nata da un’errore iniziale, fu tuttavia quella che spinse l’Italia a maggiori ardimenti e — come si disse — a prendere parte attiva all’incivilimento ed all’attrezzatura economica dell’Africa, terra d’avvenire per gli Europei di oggi e di domani, che non sanno bene, né sapranno, nel futuro anche immediato, dove riversare l’eccesso della loro produzione industriale e l’esuberanza del loro altissimo grado di civiltà, sia pur meccanica ed industrialistica.
Ma, tornando alla Colonia Eritrea, conviene considerare che l’Italia, fatto il passo, anche se falso, non potè retrocedere e fu, al pari di tutte le altre potenze, indissolubilmente legata all’Africa.
La battaglia di Adua e la caduta di Crispi. — Nel gennaio del 1891, il ministero Crispi era caduto, subentrando ad esso quello del Rudinì. Questo cambiamento sarebbe dovuto nuocere moltissimo all’Italia nella sua ulteriore affermazione in Etiopia.
Gli amici falsi o i nemici dell’Italia, numerosi alla Corte d’Etiopia, incominciarono a soffiare nel fuoco, tanto che Menelìch, il quale stava tutt’ora battagliando con Mangascià, signore del Tigrài, che non aveva voluto riconoscere, auto-proclamazione di Menelìch all’impero, l’avvenuta il 26 marzo 1889, tanto da annullare l’articolo 17 del trattato di Uccialli, il quale, essendo perpetuo — come si disse più sopra — non poteva essere denunziato senza l’esplicita volontà delle due alte parti contraenti.
Ma la prima lite sorse a proposito della delimitazione dei confini sulla linea Marèb-Belesa-Muna, tanto più che il generale Baldissera aveva occupato il Seraè e l’Acchelè Guzài.
Circa il trattato, Menelìch insinuò che c’era errore di traduzione e che il testo amarico anzichè dire consente diceva può; ma tale insinuazione era puerile, perchè la traduzione del predetto trattato era stata fatta direttamente dall’interpetre-traduttore di Menelìch stesso. Il governo italiano, durante la permanenza in Italia del cugino e segretario di Menelìch, Maconnèn, aveva notificato a tutte le Potenze, che ne avevano preso atto, l’avvenuta ratificazione del trattato, mediante il quale l’Etiopia consentiva a farsi rappresentare dall’Italia con gli Stati esteri.
Crispi fece rispondere a Menelìch che il trattato era quello che era e che, in quanto ai confini, poichè quelli concessi non erano difendibili, occorreva che l’Italia avesse delle garanzie.
Nell’intento di definire tali questioni, il conte Antonelli fece ritorno presso Menelìch, dove dovette sùbito accorgersi che l’ambiente era ostile. Con tutto ciò, Menelìch concesse quasi tutto il confine richiesto dal generale Gandolfi e, in quanto all’articolo 17 del trattato, si rimase d’accordo che esso dovesse rimanere immutato; se non che il Negus diede a firmare all’Antonelli il testo amarico nel quale era esplicitamente detto che l’articolo 17 si riteneva cancellato. Avvenne la rottura ed il conte, indignato, volle restituita la firma che gli era stata tanto ingannevolmente carpita. La sciagura volle che Crispi, per il voto sfavorevole del 31 gennaio, abbandonasse il governo. Anche l’Antonelli, com’era da aspettarsi, perdette ogni ascendente nel nuovo Governo, e fu gran male, perchè nessuno meglio di lui era in grado di conoscere Menelìch e la psicologia della gente abissina, sebbene il Traversi, per esempio, non la pensi perfettamente in questo modo, certo non del tutto a torto.
L’Antonelli era partito assieme al conte Salimbeni; e, trovandosi a Aden, aveva scritto una lettera al Pisani-Dossi, in cui gli spiegava come eran procedute le cose con Menelìch, a proposito del trattato ed a proposito del confine. Si mostrava d'altronde fiducioso, purché il Governo avesse saputo «approfittare dell’impressione che à fatto su Menelìch la nostra partenza per esigere che se vuol riprendere le trattative mandi lui alla costa un suo Capo di fiducia.
«Menelìk si trova imbarazzatissimo e se si persuaderà che l’Italia può adirarsi seriamente contro di lui, diventerà umile e condiscendente come lo fu sin qui.
«Oggi è stato un eccezionale colpo di testa che non è nella natura di Menelìk ed una nostra dimostrazione può farlo pentire.
«Quello che sapratutto è da evitarsi è che Menelìk non creda che può fare quello che vuole coi rappresentanti del Re d’Italia, rimediando con lo scrivere lui stesso al nostro Re».
Dunque, l'Antonelli era — come Crispi — per una politica di fermezza e di prestigio.
Ma così non la pensarono i componenti il ministero Giolitti-Brin, i quali si affrettarono con voluttà cieca a disfare quanto era stato egregiamente fatto dai loro predecessori immediati. Di guisa che tutto fu quasi irremediabilmente compromesso per l’avvenire. La cosa più grave, in ogni caso, non fu l’invio di due milioni di cartucce a Menelìch bensì le rivelazioni diffamatorie al riguardo di costui, comparse nel Libro Verde.
Menelìch aveva nel frattempo assunto il titolo di Menelìch II. Ravvedutosi della brusca rottura delle trattative con l’Antonelli, aveva scritto a re Umberto in termini molto ossequiosi, senza però accettare quanto era stato solennemente sancito dai trattati. Da quel momento, quindi, la prudenza consigliava che si apparecchiasse per la guerra, poiché la pace non era possibile dignitosamente ottenerla.
Nel frattempo Italia ed Inghilterra si erano accordate sui limiti delle rispettive frontiere dell’Eritrea e del Sudàn ed avevano comunicato alle Potenze quanto era tra loro intervenuto: Menelìch II, dal canto suo, si era premurato di far conoscere pure alle Potenze i confini del suo impero indipendente, includendovi territori tutt’ora occupati dall’Italia. Il dissidio era giunto ad un punto che ben poteva dirsi incomponibile: infatti, il 21 febbraio, era avvenuto il combattimento di Halàt, in cui gli Abissini, sempre superiori di numero, ebbero la peggio, fuggendo precipitosamente davanti l’incalzare delle truppe italiane vittoriose. Alla fine dell’anno 1891. per intercessione di Mangascià, che, desiderando scalzare Menelìch, cercava gli appoggi dell’Italia, il generale Gandolfi riuscì a firmare un effimero patto di pace e di amicizia con Ras Alula e Ras Sebath. Il Tigrài restò in mano al Mangascià il quale riconobbe il confine Marèb-Belesa-Muna.
Con decreto 28 febbraio 1891, il generale Gandolfi era stato sostituito dal Baratieri già vice governatore da colonnello, ed ora promosso generale.
La rivolta mahdista non tendeva a cessare.
Il Mahdi, Mohàmmed Ahmed, era morto nel 1885; il suo successore, o Calìfa, Abdullàhi, non era all’altezza della situazione: quindi, benchè l’impero di lui fosse vasto circa due milioni di chilometri quadrati ed avesse una popolazione presunta di 10 milioni di anime, era evidente che, cessato il fanatismo sul quale era fondato, esso dovesse dissolversi; comunque, era vero che fino ad ora tutti erano stati tenuti in iscacco: Egiziani, Abissini, Inglesi. Gli Italiani soli erano riusciti a tenerli in rispetto, infliggendo loro due importanti sconfitte; la prima ad Agordàt, la seconda a Sarobetì. Ma sembrò ad Abdullàhi essere possibile ottenere anche sugli Italiani una clamorosa rivincita. Apprestò, quindi, un esercito di oltre 10 mila uomini, che pose agli ordini del proprio cugino Ahmed Alì.
Il quale si diresse sul forte di Agordàt, luogo della prima sconfitta: la Colonia Eritrea, in quel tempo, era tanto tranquilla che lo stesso governatore, il generale Baratieri, si trovava in licenza in Italia.
Il colonnello Arimondi, appoggiato al forte, benchè avesse un esercito assai inferiore di numero, accettò coraggiosamente il combattimento, che fu accanitissimo e con esito incerto per ambo le parti: ma, in un ultimo disperato assalto, gli Italiani ebbero ragione del fanatico valore degli attaccanti e li sbaragliarono, riportando, così, una delle più belle e più significative vittorie africane del secolo scorso. Lo stesso comandante mahdista morì combattendo e la stessa fine fecero quasi tutti gli emìri.
I Dervisci, volti in fuga precipitosa, lasciarono in mano degli Italiani 73 bandiere una mitragliatrice e oltre 700 fucili; i vincitori, invece, ebbero un centinaio di morti e poco più di feriti. Ma gli assalitori lasciarono sul terreno più di mille morti, mentre perdettero altri mille uomini tra feriti e prigionieri.
Questo glorioso fatto d’armi era avvenuto nel 1893, proprio quando al ministero Giolitti era subentrato di nuovo quello di Francesco Crispi: il popolo italiano aveva di nuovo aperto il cuore alla speranza. La sconfitta subita dai Dervisci era stata così tremenda che il Calìfa non ardì di ritornare alla riscossa, accontentandosi di fortificarsi in Càssala, sua base d’operazioni contro il territorio italiano.
Il Baratieri, tornato in Eritrea, al principio del 1894, pensò di occupare la località suddetta, dato che essa veniva inclusa nella nostra sfera d’influenza. Ottenutone il consenso da parte del Governo, il Baratieri, radunato un esercito di circa 2.500 soldati, il 12 luglio, mosse da Agordàt in direzione di Càssala, presidiata da un migliaio di nemici. Il 17 luglio, avvenne il combattimento, in cui il nemico, sorpreso, oppose un’accanita resistenza sino a tanto che, sopraffatto dallo slancio aggressivo delle truppe italiane, si diede a precipitosa fuga, abbandonando armi, munizioni, viveri, bandiere: in una parola, tutto.
Questa seconda clamorosa vittoria ottenuta con perdite insignificanti, dimostrò ancora una volta che l’esercito italiano era ben degno dei caduti di Dogali, quelli del tenente colonnello De Cristoforis. La notizia, giunta in Italia, colmò di giubilo Governo e Paese: Cassala fu annessa all’Eritrea.
Mentre avvenivano queste cose, si ribellava all’Italia l’Acchelè-Guzài; e Menelìch, nel maggio 1893, denunciava alle potenze il trattato di Uccialli. Ritornato al potere il Crispi, con sottosegretario agli Esteri l’Antonelli, si intavolarono nuove trattative col Negus Neghàst, pel tramite del colonnello Piano. Menelìch non volle sapere del protettorato, sebbene l’Italia avesse ceduto intorno alla questione dei confini.
Mangascià, che si teneva al corrente dei fatti, temendo che il Menelìch avesse il sopravvento, defezionò, cercando in tal modo di farsi perdonare dal suo signore le trascorse malefatte. Ma Menelìch, mentre trattenne a corte Ras Alula per essere stato nemico degli Italiani, cacciò via Mangascià dicendogli che, se voleva essere da lui perdonato ed ottenere l’investitura del Tigrài, era necessario che cercasse di cacciarne gli Italiani coi quali tramava a danno della integrità dell’impero.
Mangascià, perchè aveva perduta la fiducia nell’Italia, col pretesto di preparativi contro i Dervisci, apparecchiò contro quest’ultima, facendo contemporaneamente ribellare Bahtà Agòs. Il quale fu clamorosamente sconfitto dal maggiore Toselli a Halài: a sèguito di questa vittoria, venne pacificato l’Acchelè-Guzai. Ma Mangascià restava ostile tanto che bisognava diffidare di lui.
Il Baratieri, saputo che Mangascià aveva accolto i ribelli di Bahtà Agòs, intimò che fossero consegnati; il Ras tigrino non rispose ed il generale italiano si preparò alla lotta. Ci furono proposte di pace da parte tigrina proposte alle quali il Baratieri non prestò ascolto, tanto che i due eserciti si scontrarono a Coatìt, dove avvenne un sanguinoso combattimento, in cui i contendenti mostrarono molto accanimento e non poco accorgimento: i Tigrini, tuttavia, furono costretti a ritirarsi, sia a cagione delle gravi perdite subìte, sia per difetto di munizioni. Il Baratieri allora, approfittando della ritirata di Mangascià, lo inseguì sino a Senafè, cannoneggiandolo, in guisa che il Ras fuggì precipitosamente sconfortato ed impaurito.
La campagna del 1894-95 contro l’Abissinia finiva, adunque, a totale vantaggio dell’Italia. Ormai, pur troppo, si avvicina a grandi tappe l’urto violento e tragico fra l’Italia e l’Abissinia; urto che avrà il suo sanguinoso e memorando epilogo nella infelice ma gloriosa battaglia di Abba Garima, comunemente detta di Adua.
Il Baratieri, dopo la vittoria riportata su Mangascià, fece occupare l’Agamè da un’alleato dell’Italia, Agòs Tafari e, di lì a poco, egli stesso occupò Adigràt. Occupata la quale, il 3 aprile 1895, entrava in Adua accoltovi festosamente dalla popolazione. Il generale italiano, per dare maggiore risalto a tale pacifica occupazione, si recava poco dopo in visita ad Axùm, città santa dell’impero salomonide. Le sue intenzioni sarebbero state quelle di annettere alla Colonia Eritrea tutto il Tigrài; ma il Governo non era di questo parere, vuoi perchè Menelìch si era fatto più minaccioso, vuoi perchè non si volevano nè, forse, si potevano affrontare nuove gravi spese.
Tuttavia, essendosi recato in Italia per prendere accordi col Governo, ottenne quanto chiedeva ed il Tigrai fu senz’altro annesso alla Colonia Eritrea. Così, tutto sembrava si fosse acquetato, allorquando si venne a sapere dei preparativi di guerra nello Scioa.
Menelìch si apprestava alla guerra, incoraggiato dagli aiuti di armi, che continuavano ad affluire in Etiopia, attraverso i porti della Somalia francese di Oboch e Gibuti. L’Italia fece delle giuste rimostranze, allegando a sua difesa che il trattato di Uccialli, ad onta della denunzia fatta dall’Etiopia, era tutt’ora valido, essendo perpetuo. Ma non pensandola così la Russia e la Francia, in data 20 aprile 1895, partì da Roma un invito alle Potenze firmatarie dell’Atto di Bruxelles, in cui l’Etiopia, in virtù dell’articolo 17 del trattato di Uccialli, si era fatta rappresentare dall’Italia. Migliore appoggio di questo alla tesi italiana non poteva esserci.
Il Governo italiano accusò Menelìch, il quale continuava a trafficare gli schiavi «percependo ufficialmente la tassa di un tallero» per ogni schiavo esportato. Stando così le cose, non era più possibile consentire che Menelìch continuasse ad importare armi nel suo territorio, poichè egli non poteva esser considerato un monarca cristiano e civile.
«Ora — continuava la protesta — è precisamente in vista d’impedire la tratta che le Potenze, convenute a Bruxelles, hanno statuito di restringere l’importazione delle armi da fuoco e si sono impegnate non solo a reprimere il traffico umano nei loro possessi, ma a prestare i loro buoni uffici alle potenze che a scopo puramente umanitario compiono in Africa una missione analoga...... Ora, il Governo Italiano è responsabile verso le potenze che hanno conosciuto il suo protettorato sull’Etiopia, dell’osservanza dell’atto di Bruxelles in quei territori; e perciò mentre provvede da parte sua ad impedire che Menelik continui a violare l’Atto medesimo, è in istretto dovere di richiamare l’attenzione delle Potenze firmatarie su questa condizione di cose, perchè — anche indipendentemente dallo stato di ostilità di Menelik contro l’Italia — dette potenze, col divieto dell’introduzione di armi e munizioni verso l’Etiopia, facciano rispettare quelle disposizioni internazionali della cui inosservanza Menelìk si è valso e si vale per aprire alla tratta regioni in cui si è dall’Europa voluto abolirla».
Inghilterra, Germania ed Austria-Ungheria accettarono; la Francia si limitò a dire che bastavano le istruzioni date al governatore di Obock, «le quali — dice il Palamenghi — venivano sistematicamente violate». Alla Francia tenne bordone la Russia, che fece finta di non sentire, tanto che una missione etiopica, ricevuta ufficialmente a Pietroburgo, ebbe accoglienze clamorose ed armi e doni dallo stesso Zar.
I documenti, circa gli appoggi effettivi dati dalla Russia e dalla Francia a Menelìch, sono numerosi e tutti chiarissimi; chi ne avesse voglia potrebbe prenderne visione — a meno che non l’abbia fatto sin qui — nel libro, del Palamenghi-Crispi. Del resto, i lazzaristi francesi, cospiranti a danno dell’Italia nella Colonia Eritrea, furono espulsi, con decreto del 22 gennaio 1895.
In un tale stato di cose, e data l’esaltazione del Baratieri, il quale, illuso, forse, dalle precedenti vittorie, non era riuscito a farsi una esatta cognizione della potenza del nemico, si maturarono gli eventi, che condussero alla battaglia di Adua. La quale, accettata coraggiosamente, non fu da lui sennatamente prevista. Lui che, essendo sul luogo, era il vero arbitro della situazione. Ma il Governo non s’illudeva affatto sull’entità delle forze che il Negus avrebbe potuto mettere in campo, poichè l’Antonelli, quando Menelìch era soltanto re della Scioa, le aveva calcolate a circa 190 mila combattenti da poter mobilitare, in caso di estremo pericolo. Aggiungasi a ciò che tutti i capi abissini, o quasi, erano contro l’Italia, a cagion della loro mala fede, ma anche per l’incerto e spesso contradittorio procedere di questa Nazione. Inoltre, l’Italia non aveva ancora raggiunta una sufficiente maturità politica che le permettesse di resistere con ciglio asciutto agli eventuali colpi della sventura. Per farla breve, tra quella che il Palamenghi chiama incoscenza del Baratieri; tra l’impossibilità in cui si trovava il Governo di agire efficacemente e con esatta cognizione di causa, a tanta distanza; tra le non floride finanze; tra le campagne anti-africaniste della nuova demagogia; tra l’ostilità palese od occulta di alcune potenze e tra tutta quanta l’ostilità dell’Abissinia, caso quanto mai raro nella storia di quel paese, non c’era proprio da aspettarsi se non una sconfitta, sia pur gloriosa e fatta pagare a carissimo prezzo al nemico.
Le forze opposte, erano così squilibrate che ogni valore leggendario sarebbe dovuto soccombere dinanzi alla strapotenza del numero: come, infatti, avvenne il primo marzo 1896.
Il Governo italiano, presentendo quasi la minacciosa tempesta che s’addensava sull’Italia africana, tempestava con telegrammi il Baratieri, perchè comunicasse se gli occorrevano rinforzi: egli, tentennando, rispondeva che, ignorando le intenzioni dell’invasore, non poteva precisare. Ma l’invasore, questa volta, non poteva certamente pensare a ritirarsi come aveva fatto, pochi anni prima, il Negus Giovanni.
Nella battaglia di Adua, in cui rifulse il valore veramente eroico, seppur sfortunato, dei soldati italiani, gli Abissini erano oltre 100 mila e gli Italiani, che poterono prendere parte alla battaglia. meno di 15 mila: uno contro sei! Era troppo, anche ammettendo che i servizi logistici fossero potuti funzionare regolarmente. Ora, in Africa, ovunque si vada, la questione logistica è di capitale importanza. E, tanto per limitarci all’Etiopia, diremo che gli Inglesi di Sir Roberto Napier, in una spedizione contro il re Teodoro, avevano condotto con loro 41 mila uomini, ventimila cavalli, settemila buoi, seimila cammelli e quarantaquattro elefanti per l’artiglieria. E tutto questo imponente corpo di spedizione per un esercito di cinquemila uomini e due cannoni.
Invece, alla vigilia della battaglia di Abba Garima, l’arrivo dei rinforzi, mandati, data l’urgenza, senza discernimento, ossia scegliendoli da questo o da quell’altro reggimento, da questo o da quell’altro corpo d’armata, non fece altro che peggiorare la non buona situazione logistica dei quindicimila Italiani, che, date le forze nemiche, sarebbero dovuti essere almeno cinquantamila. A proposito dei servizi logistici, basta un esempio a dare l’idea delle difficoltà: di tremila cammelli che occorrevano alle truppe operanti da Adi Caiè in avanti, ne esistevano soltanto duemilatrecento, ridotti più tardi a soli millesettecento. Dunque, la battaglia di Adua, conviene ripeterlo, non poteva non essere sfavorevole alla imprevidente giovane nazione, generosa ed impulsiva come tutti i giovani. Essa espiò le colpe della sua immaturità politica e sociale. Colpe, senza dubbio, collettive e singole, spiegabilissime, d’altronde, in un popolo propenso sovente ad accasciarsi per poco, ad esaltarsi per meno ancòra.
Gli eventi precipitarono e non fu possibile al Baratieri stesso, «sempre nemico del peggio», non comportarsi come si comportò, cioè da valoroso, anche se lo si volle accusare di averli precipitati, dopo che ebbe saputo della sua imminente sostituzione col generale Baldissera e, forse, in relazione allo stesso telegramma del Governo che chiamava i combattimenti immediatamente precedenti la battaglia di Adua, una «tisi militare, non una guerra: piccole scaramuccie nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero dinanzi al nemico; sciupio di eroismi senza successi...»
Ora questo telegramma, che è del 25 febbraio 1896, doveva — secondo noi — essere accolto dal Baratieri con beneficio d’inventario, perchè il Governo, che aveva ripetutamente offerti rinforzi senza essere richiesti dal Baratieri, aveva pur ragione di rimproverargli che non si poteva essere sempre inferiori di numero dinanzi al nemico», e che, quindi, si trattava di vero e proprio «sciupìo di eroismi senza successi».
Tutti coloro i quali vollero e vogliono scagionare il Baratieri per incolpare il Crispi, se si fondano su questo telegramma, ànno torto, perchè la ragione, in questo caso, sta dalla parte di chi, pur essendo lontano, per misura di prudenza, non voleva più oltre scherzare con la dea fortuna, dea quanto mai capricciosa e cieca. Si dica piuttosto che, essendo giunte le cose agli estremi, nessuno singolarmente ebbe torto della sconfitta, ma che questa deve essere attribuita, più che altro, a difetto di maturità e di organizzazione della giovane nazione italiana.
Si disse più sopra che gli Abissini erano oltre centomila; anzi, secondo il Pollera, essi erano circa 120 mila. La battaglia, che Aldo Valori chiama giustamente una serie di combattimenti slegati, fu terribile e sanguinosa. Gli Italiani, dopo essersi battuti da leoni, lasciarono sul campo 4.000 morti con 1.600 Indigeni circa; ebbero inoltre 500 feriti e 1.700 prigionieri. Il rapporto tra i morti ed i feriti dice chiaramente del come si erano battuti gli Italiani in quel giorno infausto ma glorioso. Gli Abissini, da parte loro, ebbero 7.000 morti e più di 10.000 feriti. Diffusasi in un baleno la notizia di tanta immeritata sconfitta, in Italia, anzichè comprimere il dolore, si inscenarono dimostrazioni ostili contro il Ministero, unico e solo reo di tanta guerra e iattura. Ma il Governo era deciso a continuare ad oltranza, tanto più che i rinforzi erano partiti e stavano per giungere a destinazione.
Infatti, quando il Baldissera, sotto il falso nome di Commendator Baccalario, giunse a Massaua, il tre Marzo, il corpo di spedizione ammontava già a 41 mila uomini, il cui morale era altissimo; si sarebbe potuto correre alla riscossa, se il Ministero Crispi non fosse sciaguratamente caduto. E la vittoria sarebbe potuta di nuovo arridere alle armi italiane perchè un fatto certo è che il Negus non ardì avanzare, pur sapendo che la sconfitta inflitta agli Italiani era stata grave e penosa; ma Menelìch non ignorava che i rinforzi non sarebbero potuti mancare.
Ma la discordia, che sempre partorì discordia, fece sì che la sconfitta venisse accettata come definitiva, tanto da indurre l’Italia a riscattare i prigionieri con denaro: atto veramente indegno di una Nazione che avesse avuta piena la coscenza delle sue azioni. Invece, c’era taluno, come un Turati, che, alla vigilia della battaglia di Adua, faceva voti perchè l’Italia fosse sconfitta e per sempre in Africa.
L’Italia non fu sconfitta in Etiopia; sconfitti furono i vari partiti che, per bramosia di potere e per libidine di comando, anzicchè inoculare nel popolo la speranza e la fede della rivincita, lo depressero e lo avvilirono ai propri occhi ed a quello del mondo intero. Perchè l’immeritata sconfitta gravò sull’Italia fino alla guerra libica, cioè fino al momento in cui lo spirito eroico della Nazione non ebbe il sopravvento sulla politica rinunciataria, tentennante contradittoria sempre, vile qualche volta, dei Governi che s’alternarono al potere.
Francesco Crispi, abbandonandolo, ebbe l’animo spezzato, perchè egli confidava nella bontà fondamentale del popolo italiano e nell’eroismo di esso.
Alla Contessa Ersilia Caetani-Lovatelli, che presiedeva un comitato di dame, scrisse tra l’altro: «il pensiero è gentile, ma non può essere pratico. Quando l’Italia era spezzata in sette Stati, ed i barbareschi esercitavano la tratta anche sulle nostre spiagge, i nostri padri, costretti dalla loro impotenza, costituirono la società per la redenzione degli schiavi. Oggi siamo una nazione di 32 milioni di uomini e ben altro è il metodo da seguire per esplicare i nostri doveri e per farci rispettare. I nostri fratelli, fatti captivi ad Abba Garima, aspettano ansiosi un esercito liberatore, e le donne italiane, come al 1848, al 1860, dovrebbero ispirare coraggio per organizzare la vittoria... Scrivo a Lei, che so avere animo virile, affinchè consigli alle sue gentili compagne a mutare scopo al Comitato».
Il Comitato, infatti, aveva per fine l’aiuto materiale e morale alle madri italiane, orbate dei loro figli, caduti gloriosamente ad Abba Garima.
Occupazione di Càssala e suo abbandono. — Càssala, come si disse più sopra, era stata occupata brillantemente nel luglio del 1894. Tale occupazione era stata provocata dal fatto che i Dervisci la tenevano saldamente per servirsene come base d’operazioni contro gli Italiani della Colonia Eritrea. Ma Càssala, in base al trattato Hewett, l’avrebbero potuta occupare gli Abissini stessi.
Comunque, fatto sta che, durante il primo ministero Crispi, si erano intavolate trattative con l’Inghilterra per definire tale possesso, il quale era assai agognato dagli Inglesi, possessori in potenza, più che in atto, di tutto il Sudàn. Certo essi sostenevano che avevano in animo di salvaguardare gli interessi degli Egiziani e, per tanto, lasciavano in facoltà dell’Italia di occupare temporaneamente o meno la località in questione, salvi restando i diritti dell’Egitto ossia quelli dell’Inghilterra.
Le trattative, quindi, non approdarono per le eccessive pretese dei delegati inglesi del contegno dei quali ebbe sentitamente a lagnarsi col Salisbury Francesco Crispi, che anche in tale questione non voleva fare gli interessi altrui a spese dell’Italia.
Caduto il primo ministero Crispi, i suoi successori si affrettarono a rinunziare a Càssala in favore dell’Inghilterra, la quale aveva permesso che l’Italia, in caso di bisogno, sconfinasse nel Sudàn, a patto di restituire gli acquisti, quando fosse stato possibile all’Inghilterra di prenderne effettivo possesso. Erano state proprio queste giuste richieste, che avevano spinto il Crispi a protestare a nome d’Italia. Ma, senza l’atto inconsulto del Rudinì, il quale ebbe la dabbenaggine di considerare Càssala come «territorio addizionale» da restituire, a suo tempo, agli Egiziani, l’Italia era libera da impegni, tanto più che non si era potuto raggiungere l’accordo con l’Inghilterra. Adesso, invece, la situazione era compromessa, a meno di non voler stracciare il trattato, che è del 15 aprile 1891.
Càssala, adunque, senza l’esplicita volontà del nuovo ministero Crispi, fu occupata spontaneamente dal Baratieri, il quale, evidentemente, aveva pur ragione di farlo, affinchè il nemico non diventasse sempre più insolente, anche dopo la grave sconfitta da lui stesso subita in Agordàt.
Non meraviglia, quindi, che ad onta del predetto trattato, il Governo italiano si affrettasse ad annettere Càssala alla Colonia Eritrea. E ciò anche perchè non era ben precisato il giorno in cui quella nazione sarebbe stata in grado di riceverla dalle mani dei nuovi occupanti.
Ad ogni modo, nessuno che ci abbia seguito fin qui con benevola attenzione, può dubitare che, se Crispi fosse stato al potere, Càssala non sarebbe stata ceduta agli Inglesi, senza compenso alcuno, nè materiale nè morale: e l’Inghilterra, col suo grande buon senso ed anche per spirito di equità, avrebbe certamente rimediato, in qualche modo, addivenendo ad una transazione equa ed accettabile per entrambe le nazioni, i cui interessi in quei territori erano sempre stati comuni.
Càssala, adunque, conquistata ai Dervisci, nel 1894, fu ceduta agli Inglesi senza risarcimento alcuno, il 19 dicembre 1897, quando il Crispi, non più al potere, non poteva menomanente difendere gli interessi d’Italia.
Il generale Dal Verme, incaricato dal Di Rudinì di tale cessione, fece capire a Lord Cromer come «l’Italia non aveva alcun obbligo di abbandonare Càssala agli Inglesi». Ma, a queste parole, l’astuto delegato britannico, rispose senz’altro che voi Italiani «avevate fatto tanto per avere Càssala ed ora che ci siete, avete tanta premura di andarvene».
La risposta non poteva essere, al tempo stesso, più tagliente e più beffarda.
Ma — vien fatto di esclamare: all’on. Di Rudinì non bruciava il cuore per il sangue sparso dai soldati italiani e per le lagrime cocenti versate dalle madri italiane?
Ben a ragione, Cesare Cesari, a proposito dell’abbandono di Càssala, così si esprime:
«E ben lungi da ogni mira di rivendicazione, Càssala non potrà rimanere per l’Italia che un ricordo di gloria e nello stesso tempo di mestizia, perchè per essa caddero molti dei figli migliori e perchè una politica più ponderata e meno disinteressata avrebbe forse cambiata l’occupazione provvisoria del 1894 in una stabile residenza dopo il 1897, o rappresentato, quanto meno, un pegno di alto valore ben altrimenti compensato e compensabile» (pag. 94).
La Somalia Italiana. — L’attuale Somalia Italiana, territorio vasto circa due volte l’Italia, ebbe inizi quanto mai modesti e pacifici, perchè non è affatto vero che il Crispi fosse megalomane e guerrafondaio. Uomo di stato di alta levatura, preferiva ingrandire la patria sua, con pacifiche combinazioni e con accordi ancora più pacifici. Ma è certo che, impegnato che fosse l’onore nazionale, andava diritto con ammirevole energia e costanza, ben sapendo che, solo così, una nazione grande può guardare coraggiosamente e fiduciosamente l’avvenire.
La Somalia, che — come dice il Virgili — «È rimasta una delle grandi macchie bianche sulla carta geografica dell’Africa, sino al 1888», era già stata idealmente conquistata dall’Italia, perchè gli esploratori maggiori e migliori di quella terra africana erano stati gli Italiani.
Il ministro Mancini aveva per primo, avvalendosi dell’opera dell’esploratore Antonio Cecchi, intavolato trattative col Sultano di Zanzibar, Saìd Bargàsc, che era sovrano di una parte della costa della Somalia. Le trattative erano a buon punto, quando il Mancini abbandonò il potere; il successore di lui, Depretis, che aveva assunto l’interim degli Affari Esteri, prese atto dell’offerta di quel Sultano per la cessione all’Italia di alcuni porti del Benàdir ma, di concreto, non si potè far nulla, forse per gelosia dei consoli di Germania e d’Inghilterra.
Tuttavia il capitano Cecchi aveva firmato, per conto del Governo italiano, un trattato di commercio col predetto Sultano. Questo trattato, da lui ratificato nel 1885, fu a sua volta ratificato dal Parlamento italiano, un anno dopo.
Il sultano Saìd Bargàsc, temendo che la costa dei Somali, di sua pertinenza, cadesse in mano di qualche altra nazione europea, il 23 ottobre 1886, inviò dal console italiano a Zanzibàr, Filonardi, il suo medico e confidente, Dott. Gregory, il quale aveva il mandato di offrire all’Italia, mediante compenso, la rada di Chisimaio e la regione del Giuba alle identiche condizioni fatte in precedenza al Cecchi.
Fra evidente che Saìd Bargàsc voleva difendersi dalla Germania, la quale mirava ad acquistare influenza, non soltanto commerciale, nei territori costieri della Somalia.
Ma la rivalità non sorse soltanto fra Italia e Germania bensì anche con l’Inghilterra. I consoli di queste due nazioni, infatti, protestando contro il Sultano, ottennero da lui una rinunzia a quanto aveva precedentemente offerto all’Italia. Ma il console d’Italia confermò tuttavia la validità dell’impegno, non Nota indirizzata al Sultano, in data 11 novembre 1886.
Fin qui, adunque, non si era venuto a capo di nulla. Ma venne Francesco Crispi, la cui concezione coloniale — come s’è pur visto fin qui — era pacifica. Egli, quindi, cercò di rimettere a posto le cose.
Morto, nel marzo 1888, il sultano Saìd Bargàsc, furono riprese le trattative col successore e fratello di lui, Saìd Calìfa. Il quale, avendo ricevuto le felicitazioni del Re d’Italia, sconvenientemente non rispose a tale atto di pura cortesia. Di esso approfittò il Crispi, inviando nelle acque dell’Oceano Indiano la R. nave «Archimede» col capitano Cecchi. Il sultano, dietro le giuste rimostranze del Cecchi, chiese le debite scuse al Governo italiano, ma disse di non poter consentire nella concessione dei territori, sostenendo che Inghilterra e Germania vantavano dei diritti, per precedenti accordi col defunto Sultano.
Allora Francesco Crispi si adoperò per avere la rinunzia delle pretese accampate dai Tedeschi; cosa che ottenne agevolmente da parte del Bismark, il quale accettò anche l’invito di convincere il Salisbury, ministro inglese, a fare altrettanto per ciò che si riferiva agli interessi inglesi.
Il Salisbury, infatti, fece pressioni presso la Compagnia britannica dell’Africa orientale, la quale, per bocca del suo direttore, concedeva, in cambio di Chisimaio, i porti di Brava, Merca, Mogadiscio ed Uarscèich (Benàdir=porti, in indiano), stabilendo il fiume Giuba come confine tra i possedimenti italiani ed inglesi.
Ma, contemporaneamente, avendo il Sultano di Obbia chiesto il prottettorato dell’Italia, Crispi si affrettò a concederlo, valendosi dell’opera del Cav. Filonardi, console italiano di Zanzibàr. Anche il sultano dei Migiurtini, Osmàn Mahmùd, col consenso di Alì Iùssuf, sultano di Òbbia, chiese il protettorato dell’Italia sul tratto di costa da lui dipendente, da Ras Auàd sino alla vallata del Nogàl (Ras Beduìn). Tali concessioni erano costate all’Italia 1800 talleri all’anno da pagare al Sultano dei Migiurtini, e 600 talleri da pagare a quello di Òbbia.
Francesco Crispi, avendo notificati alle Potenze tali protettorati, in data 16 maggio 1889, mise anche sotto il prottettorato italiano i tratti di costa, riconosciuti come proprietà del Sultano di Zanzibàr. Anche ciò fu communicato alle potenze, in data 15 novembre dello stesso anno.
Ci furono, naturalmente, proteste da parte della Compagnia germanica; ma non ebbero sèguito, perchè i diritti che essa accampava su quei territori erano puramente economici ed agricoli, non esistendo nessun vincolo politico che potesse validamente contrastare al protettorato della Italia. Il 24 maggio 1891, dopo che il Filonardi occupò Atol, cui impose il nome di Itala, venne firmato a Roma un protocollo fra l’Italia e l’Inghilterra per delimitare le loro rispettive zone di influenza in quella parte dell’Africa orientale. L’Italia ottenne il protettorato dal Capo Chil alla foce del Giuba, che proprio in quel tempo si andava esplorando.
Finalmente, nell’agosto del 1892, il Sultano di Zanzibàr concedeva al Governo italiano l’amministrazione dei porti del Benàdir: Brava, Merca, Mogadiscio ed Uarscèich, con un retroterra di circa dieci miglia marine. Ma l’Italia ne prese possesso soltanto nel maggio del 1893.
La concessione aveva la durata di venticinque anni, rinnovabile poi per altri 50. L’Italia s’impegnava a versare per essi la somma di L. 270 mila, pari a 160 mila rupìe. Cotesta amministrazione fu assunta dalla Società Filonardi; il governo inglese ne prese atto.
La Società Filonardi vivacchiò per alcun tempo ed avrebbe fatta una triste fine, se al ministero Giolitti-Brin non fosse succeduto quello del Crispi il quale — come si è visto — era stato il vero creatore se non l’iniziatore della Somalia Italiana, di questa colonia indubbiamente ricca relativamente alle altre possedute dall’Italia; con tutto ciò che essa è costata meno assai di tutte le altre, in sangue e in danaro. Mercè il tempestivo intervento di Francesco Crispi, nel febbario del 1896, furono gettate le basi per la costituzione della Società anonima commerciale del Benadir (Somalia Italiana), la quale sorse a Milano quattro mesi dopo la battaglia di Adua. Appena costituitasi, i suoi dirigenti inviarono al Crispi la seguente lettera.
«Primo sentimento doveroso di questa amministrazione così costituita è di rivolgere un rispettoso saluto a V.E. al di cui alto appoggio è dovuta l’iniziativa dell’intrapresa. Possa il principio di colonizzazione da noi inaugurato dare quei soddisfacenti risultati che tutti ci ripromettiamo e che l’E. V. ha intuito allorchè se ne rese propugnatore.»
Abbiamo voluto riportare questo scritto perchè esso, anche per la data, indica chiaramente che, per l’Italia d’allora, fu gravissima l’abdicazione del Crispi dopo Adua. Certo egli vedeva molto lontano; forse, perchè credeva più fermamente degli altri nei destini della Patria italiana. La quale deve a lui, unicamente a lui l’attuale influenza che, se non è cospicua nel campo economico coloniale, lo è certamente in quello della civiltà e della politica di oggi e di domani.
Conclusione. — Il lettore che ci à benevolmente seguìto fin qui, attende senz’altro una conclusione circa quelli che noi, a ragion veduta, abbiamo chiamati i primi passi dell’Italia in Africa.
Obbiettivamente e serenamente parlando, si deve senz’altro ammettere che l’Italia di allora non era certamente matura per una grande, organica, fattiva espansione coloniale, per motivi evidentissimi. Perchè, in verità, l’Italia dell’immediato Risorgimento era troppo debole, troppo giovane, troppo inesperta per concretare piani imperialistici di espansione in Africa; tanto più che, oltre all’inesperienza ed al resto, essa non era florida in finanze. Dunque, era fatale che essa, venendo a competere con nazioni molto più agguerrite, potenti, astute ed immensamente più ricche, soccombesse.
Ma un modo di ragionare siffatto sarebbe unilaterale e non corrispondente alla verità storica. Infatti, se fosse vero questo, l’Italia avrebbe dovuto sempre soccombere, dinanzi a qualsiasi impresa coloniale; il che è falso, come lo dimostrano chiaramente i fatti e gli acquisti; i quali ultimi — tutto sommato — non furono disprezzabili.
Ad ogni modo, un fatto è certo; ed è che se Francesco Crispi avesse avuta la possibilità e l’energia di sbaragliare i suoi numerosi nemici ed avversari, che combattevano per un’Italia dimessa e quasi accattona, le cose sarebbero procedute ben diversamente. Perchè i vari partiti, che si avvicendavano al potere, essendo sempre gli uni contro gli altri armati, dimentichi spesso dei più vitali e supremi interessi della Nazione, non fecero altro che impedire di raccogliere migliori frutti dai non pochi e gravissimi sacrifici dovuti sopportare dalla giovane Nazione.
I primi passi dell’Italia in Africa furono tentennanti e quanto mai incerti. Una maggiore compattezza civile ed unitaria con una più alacre coscienza coloniale della Nazione avrebbero certamente permesso al Crispi ed ai suoi pochissimi fedeli di far figurare meno sciattamente l’Italia, nel coro delle grandi potenze coloniali del mondo.
I risultati conseguiti fecero, tuttavia, sì che la giovane Nazione, entrata volente o nolente in Africa, la costrinsero in sèguito a non disinteressarsi dei fatti e dei mutamenti che avvennero in essa. L’opera di civiltà dell’Italia in Africa non è stata poca nè sarà certamente minore in avvenire, avendo essa tutti i requisiti indispensabili per una sua ulteriore affermazione di potenza civile nel mondo africano.
Colpe di uomini singoli, colpe di partiti, contrasto di volgari interessi più che di grandi sublimazioni ideali, negazione di ogni eroismo, debolezza della compagine nazionale contribuirono moltissimo a tarpare le ali al grande volo dell’Italia risorta ed affermatasi, pur attraverso mille difficoltà e contradizioni, nazione vitale. Adua non segna se non un tappa, dolorosa quanto si vuole, ma non definitiva nel fatale cammino d’Italia. La marcia interrotta è stata ripresa e continuerà sempre più, perchè l’Italia d’oggi, fatta esperta degli errori del passato, vuole è può partecipare sempre meglio all’incivilimento dell’Africa.
Ferdinando Martini, nel 1900, fece murare una lapide nel forte di Càssala, ad imperituro ricordo di quegli Italiani, caduti nella conquista di essa, immacolati alfieri dell’ideale italiano ed europeo nelle selvagge terre africane. In questa lapide, i caduti sono chiamati «Antesignani Europaei Cultus et Humanitatis». Ed in verità essi combatterono colà e caddero proprio per l’ideale europeo ed umano.
Dopo la battaglia di Adua, in cui — per dirla con la stesso evidente esagerazione ma non con lo stesso compiaciments di un Francese illustre, il Pinon — «la fortune coloniale de l’Italie sombra, avec l’armée de Baratieri, dans une irrémédiable déroute», anzichè spingere — come pur inconsciamente fecero — il popolo italiano sobrio, eroico, entusiasta e prolifico a gridare il «via dall’Africa!», bisognava incitarlo ad esclamare con latina concisione e fede incrollabile: «Italia vivit? Certe vincet». Ma vincerà, non solo per il suo esclusivo bene, ma anche per il bene dell’umanità intera, la quale per elevarsi dalla sua bassa e pestifera animalità, à bisogno del contributo di tutti i suoi membri: l’Italia fu è sarà ben degna di assumersi una parte sempre più gravosa nell’ulteriore e fatale incivilimento del mondo africano1.
G. Macaluso-Aleo.
Note
- ↑ Communication faite au Congrès d’Histoire Coloniale de Paris, de 1931. — Nous rappelons que les opinions exprimées dans la Revue le sont sous la responsabilité personnelle de leurs auteurs et n’engagent aucunement la rédaction.