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tano, nell’Etiopia; ed, infine, la futura quanto prevedibile ostilità del Negus, che non s’era certamente disfatto degli Egiziani, per aver sulla costa gli Italiani, cristiani quanto si vuole, ma pur sempre invasori come qualsiasi altro. Vero è, tuttavia, che le relazioni degli Italiani con re Giovanni e con l’Etiopia non erano cattive, se è vero che il Massaia ed il padre Stella, erano riusciti, nel passato, a procacciarvi vantaggiose condizioni per l’Italia, specialmente per la colonia dello Sciòtel, di cui s’è accennato di sopra.

Se Massaua era stata occupata, vi rimaneva ancora il presidio egiziano di 180 uomini. Quindi, il primo pensiero del generale Genè, succeduto al Saletta ed all’ammiraglio Caimi, fu quello di spedire il detto presidio in Egitto, mentre i basci-buzùch, o irregolari, passavano quasi tutti al servizio italiano: naturalmente, la Turchia protestò vantando diritti di sovranità sulle coste africane del Mar Rosso.

Intanto, il Mancini s’era dovuto dimettere ed era stato sostituito dal Depretis, che assunse interinalmente, e per poco, il dicastero degli esteri, dicastero che, poco appresso, venne affidato al Di Robilant, gran diplomatico nei fatti europei, ma spreparato nei fatti africani.

La penetrazione in territorio etiopico doveva essere soltanto pacifica, com’era opinione quasi unanime della Camera italiana; ma, evidentemente, non si aveva un’esatta cognizione nè degli uomini nè dei luoghi. Tanto ciò è vero che il Mancini, interrogato sulla ubicazione di Chèren, dava una risposta poco convincente, col dire che: «a quanto pare sarebbe situata nel paese dei Bogos». Egli, fedele sacerdote della politica delle mani nette, si vantava di aver piantata la bandiera d’Italia su terre africane, senza spargervi una goccia di sangue, senza resistenze e conflitti, senza complicazioni e senza gravi sagrifici. Ma se il Mancini s’illudeva, il Minghetti, per esempio,