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diceva può; ma tale insinuazione era puerile, perchè la traduzione del predetto trattato era stata fatta direttamente dall’interpetre-traduttore di Menelìch stesso. Il governo italiano, durante la permanenza in Italia del cugino e segretario di Menelìch, Maconnèn, aveva notificato a tutte le Potenze, che ne avevano preso atto, l’avvenuta ratificazione del trattato, mediante il quale l’Etiopia consentiva a farsi rappresentare dall’Italia con gli Stati esteri.

Crispi fece rispondere a Menelìch che il trattato era quello che era e che, in quanto ai confini, poichè quelli concessi non erano difendibili, occorreva che l’Italia avesse delle garanzie.

Nell’intento di definire tali questioni, il conte Antonelli fece ritorno presso Menelìch, dove dovette sùbito accorgersi che l’ambiente era ostile. Con tutto ciò, Menelìch concesse quasi tutto il confine richiesto dal generale Gandolfi e, in quanto all’articolo 17 del trattato, si rimase d’accordo che esso dovesse rimanere immutato; se non che il Negus diede a firmare all’Antonelli il testo amarico nel quale era esplicitamente detto che l’articolo 17 si riteneva cancellato. Avvenne la rottura ed il conte, indignato, volle restituita la firma che gli era stata tanto ingannevolmente carpita. La sciagura volle che Crispi, per il voto sfavorevole del 31 gennaio, abbandonasse il governo. Anche l’Antonelli, com’era da aspettarsi, perdette ogni ascendente nel nuovo Governo, e fu gran male, perchè nessuno meglio di lui era in grado di conoscere Menelìch e la psicologia della gente abissina, sebbene il Traversi, per esempio, non la pensi perfettamente in questo modo, certo non del tutto a torto.

L’Antonelli era partito assieme al conte Salimbeni; e, trovandosi a Aden, aveva scritto una lettera al Pisani-Dossi, in cui gli spiegava come eran procedute le cose