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rismo, lontani dal governo della cosa pubblica; o, comunque, in condizione di evidente inferiorità ed impotenza. Di guisa che — come bene osserva il Palamenghi — il governo dell’Italia unita fu quello del piccolo e ordinato Piemonte, il quale non aveva, per fatalità storica, potuto sentire e vivere in pieno la tragedia del Risorgimento, al modo istesso della Sicilia, per esempio, della Lombardia, del Veneto o dell’Emilia.

In tale stato di cose, era fatale che la prevalente politica del tempo fosse di molta circospezione, di molta cautela e di mani, non solo nette, ma nettissime. Del resto, gli uomini della Rivoluzione, quelli senza i quali nessun Cavour, sia detto col dovuto rispetto, e nessun Piemonte sarebbero stati capaci di fare l’Italia unita ed indipendente, tenuti quasi a vile ed osteggiati sempre nelle loro idee di grandezza e di potenza della giovane Patria italiana, erano soltanto una minoranza. Sfuggiva alla mente dei moderati, certamente anch’essi necessari in qualsiasi governo anche il più rivoluzionario, che il Risorgimento era stato originato dall’invincibile fascino della potenza romana antica, alla quale si erano costantemente ispirati tutti i nostri grandi dal Mazzini al Crispi, dal Pisacane al Manin, dal Settembrini all’Abba. E con la potenza e la grandezza di Roma, la grandezza spirituale ed intellettuale del Rinascimento, che aveva avuto la potenza di incivilire il semibarbaro mondo dell’epoca.

Roma era stata la Stella polare e la segreta aspirazione della invincibile schiera dei martiri e dei santi della Patria: Roma, faro del mondo alle genti, Roma nella quale — a detta di un grandissimo storico tedesco — non si sta senza un’idea universale. L’idea universale c’era, bastava soltanto aver fede in essa ed affrontare gli eventi con estremo vigore e con virile sopportazione.

I moderati non potevano credere, pur amando l’Italia, a