I Bernardi/Atto V
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ATTO V
SCENA I
Giulio detto Bernardo, con un garzon d’un prestacavalli
con una bolgia.
I’ son, da Roma a qui, venuto in undici
di, e con gran fatica, che lasciargnene
dovea pel camin: che mai piú bestia
ho cavalcato peggior; ch’oltre al pessimo
passo ch’avea, ha avuto anco le vivole,
che fu per scorticarsi. E, per tal causa,
sono tre giorni stato senza muovermi
su l’osteria, che si fatto disagio
giá mai non sopportai. E massimamente
con questi danar che cucitomi
ho in questo giubbone: che, se pesano,
Dio tei dica egli! E, s’a doppio pagassime,
non la torre’ ma’ piú. Forse che egli
non me l’ha fatta costar? Ma ecco Fazio,
padron. Vogl’irli incontro e far il debito
mio. Tu, intanto, aspetta un poco. Or vengone.
SCENA II
Fazio, Giulio detto Bernardo, Garzone.
Fazio. Non è possibil mai ch’i’ stia coll’animo
in pace infin a tanto ch’i’ non metta
in cassa i danar che sotto la coltrice
ho ascosti, non potendo in lo scrittoio
riporli; che lasciato avea nel fondaco
del mio cugin le chiavi, ove una lettera
scrissi a Roma. E sol per questa causa
me ne vo or a casa.
Giulio. Messer Fazio,
voi siate il ben trovato.
Fazio. Oh Bernardo!
Tu se’ qui, ch?
Giulio. Voi vedete.
Fazio. Ah! ah! Vedi,
ch’i’ t’ho fatto sbucar!
Giulio. Che «sbucar?»
Fazio. Credimi
e’ ho trovato la via.
Giulio. Non posso intendere
quel che volete dire; e maravigliomi
assai.
Fazio. Ed io di te mi maraviglio.
Ladroncello! A questo mo’ si trattano
i padroni?
Giulio. Che v’ho i’ fatto?
Fazio. Dicemi
anche «che v’ho i’ fatto»!
Giulio. Deh! Di grazia,
parlate chiaro.
Fazio. Ecco che chiaro parloti.
Tu se’ un ladro.
Giulio. E si fatta accoglienza
mi fate?
Fazio. Te la fo come tu meriti.
Giulio. Dunque, merito questo pel servizio
che io v’ho fatto?
Fazio. E ben fatto servizio!
Ti so dire.
Giulio. Vogliate o no, servitovi
ho pur.
Fazio. Ve’ con che faccia anco rimprovera
e’ servigi! Assassino! ladro publico!
Giulio. V vi dirò il vero, Fazio: io dubito
che vo’ non siate in voi. Che cose ditemi?
Fazio. I’ sono stato in me d’avanzo. Bastati?
Pazzo era io quando di te fidavomi.
Ma non è ben che ’n parole multiplichi
con esso teco. Fa’ che mai piú capiti
dove io sia. E sia per sempre dettoti.
Giulio. Dunque, mi date una buona licenzia?
Fazio. Tu m’ha’ inteso.
Giulio. Sta bene. Ed io pigliola;
che so che non mi mancherá ricapito.
Ma mi duol ben di non saper la causa.
Fazio. Non piú.
Giulio. E non piú sia.
Fazio. Bernardo, mozzisi
qui. Va’; fa’ e’ fatti tuoi. Piú non si stuzzichi
questo fastidio ch’abastanza amorbaci.
Giulio. De’ danar vostri che s’ha a fare?
Fazio. Lasciane
la cura a me. Non pigliar tanti carichi
né tant’impacci; che, com’ho saputoli
ritrovar, cosí ancor guardar sapròmmeli.
Giulio. Dunque, eran persi?
Fazio. Orsú! non piú! Levatimi
dinanzi, che oramai tu m’hai fracido.
Giulio. I’ me n’andrò, io.
Fazio. Va’, che mai piú tornici.
Tu l’ara’ a far con altri. Ora bastami
aver il mio. Vogl’ir a far quell’opera
che ho disegnata; e non vo’ qui combattere
con questo tristo. So che gli ara a essere
agli Otto; e quivi vo’ che si giustifichi.
Giulio. Io non so se costui s’è pazzo o se si
ha beuto troppo o gli umor malenconici
gli danno noia. Gli è montato in collera
con esso meco senza alcuna causa;
e, benché sia, sopr’ogn’altro uomo, misero
ed avaro, non par che stimi un picciolo
e’ sua dumila scudi. Che miracolo
è questo? I" resto amirato. Ma pensivi
egli; io gli terrò tanto che ei chieggali.
Olá, garzoni Non star piú a disagio.
Tornatene a bottega colla bolgia;
che vi sarò adesso. Intanto serbala.
Garzone. Sta ben; cosí farò.
Giulio. Oh! Ecco Cambio
Ruffoli. I’ vo’ veder se accoglienzia
mi fa come costui. Vogl’ir incontroli.
SCENA III
Cambio vecchio, Giulio detto Bernardo.
Cambio. S’i’non avessi tanta diligenzia
usata in serrar in quella camera
quel ribaldo, e di poi serrato l’uscio
da via a chiavistello, io certissimamente
direi che costui che incontromi
viene fusse egli. Oh come è simile
a lui! Ma che dich’io? Gli è quel proprio.
Che cosa è questa?
Giulio. Dio vi salvi, Cambio.
Cambio. Se’ tu Bernardo che sta qui con Fazio?
Giulio. Sono, al comando vostro.
Cambio. I’ mi trasecolo.
O chi t’ha aperto?
Giulio. Che «aperto»?
Cambio. L’uscio
di casa mia.
Giulio. Oh! oh! Questa fía simile
a quella di Fazio. Che dite d’uscio
di casa vostra?
Cambio. Si, tristo malvagio!
L’uscio. Lo vo’ saper, se non ch’un occhio
ti caverò colle mie man. Sii! Dimelo,
dico. Di’ su!
Giulio. Istate a dietro, Cambio;
ch’i’ non arò rispetto allo esser vecchio.
Cambio. I’ non ti parrò mica vecchio. Dimelo,
ladroncello!
Giulio. Che v’ho io a dir, Cambio?
Cambio. Chi t’ha aperto quell’uscio, ove serratoti
avea? Dimelo, su!
Giulio. Lasciam la collera
un po’, di grazia. I’ vi voglio rispondere
a ciò che domandate. Be’, che uscio
è quel ch’è stato aperto?
Cambio. Si! Fa’ el semplice,
brutto ribaldo!
Giulio. Pur montate in collera.
Cambio. Ve’ dove son condotto! Anco mi strazia,
questo gaglioffo! Ma la s’ha a decidere
altrove. Vo’ veder se è ragionevole,
che un tuo pari sia uom di tant’animo
che m’entri in casa ed ogni vituperio
pensi di far.
Giulio. Che di’ «far vituperio»?
Cambio. Bernardo, Bernardo, s’i’non mi vendico,
mie’ danno!
Giulio. Cambio, i’ non v’ho fatto ingiuria,
ch’i’ sappia; ch’i’ torn’or da Roma.
Cambio. Somelo,
come te, quando tornasti.
Giulio. Io dubito
non m’abbiate con altri còlto in cambio.
Cambio. Si, ch’i’ non ti conosco, ladro publico!
Giulio. E’ mi dice anco ladro.
Cambio. Ghiotto! adultero!
truffatori baro!
Giulio. Èvene piú?
Cambio. Tristo! asino!
furfante!
Giulio. Io non arò, po’, pazienzia.
Io son da me’ di te, vecchio disutile!
che altro non ha’ in te che la superbia.
Cambio. Non so chi mi si tien...
Giulio. I’ vo’ levarmeli
dinanzi e voglio, a questa volta, vincere
me stesso.
Cambio. Tu se’ stato piú che savio
andar via, traditor! che ’n tanta collera
montavo ch’i’ facevo qualche scandalo.
Orsú ! La vo’ sfogar colla Lucrezia
e con quella ribalda della Menica.
Ma l’uscio è pur serrato e sta fortissimo.
Come sta questo fatto? Io sto in dubbio
s’i’ mi son vivo o non sogno o farnetico.
Son io al mondo o son nell’altro secolo?
Son io Cambio o un altro? Che miracolo
è questo? Costui è fuor, e non ha l’uscio
aperto. Vo’ veder se quel di camera
anco è serrato; e, se egli è, credere
vo’ certamente che costui sie ’l diavolo.
SCENA IV
Bernardo Spinola, Piro servidore.
Bernardo. Qui disson d’aspettare; e li lasciammola,
in quella casa.
Piro. Che fo? picch’io l’uscio?
Bernardo. Non picchiar, che sare’ propri’ un dibattersi.
Non ci saria aperto, non essendoci
lor. Fie megl’ir in piazza e, ’ntanto, intendere
per che cagion mi cita questo Ufficio
e perché e’ mie’ danar mi toe.
Piro. Intendetelo,
che questo importa. Ma chi favorevole
vi fia? che non avete alcun, ch’i’ sappia,
che sia per voi.
Bernardo. Io ho la giustizia
e la ragion dal mio.
Piro. Non è bastevole,
oggidí.
Bernardo. Si, è ben, dove è un principe
di questa sorte. Andiam pur, ch’i* non dubito
che mi sia fatto torto; e, se rimedio
non arò altro, voglio a lui ricorrere.
SCENA V
Noferi vecchio, Piro servidore, Bernardo Spinola.
Noferi, Nelle faccende, sempre fu di savio
atto mutar consiglio, ove torna utile.
I’ ho la mia figliuola offerta a Fazio;
or non gne ne vo’ dare. E la causa
è, la quale è di non poca importanzia,
ch’i’ credo che Spinetta, che partitasi
è di casa, ne sia ita con Albizo
che so che n’era innamorato. Abbila
piú presto che la mia. S’i’ muto or animo,
non sará chi mi riprenda, sapendosi
questo fatto. Or è ben ch’i’ truovi Fazioe
che io, si come è ragionevole,
gliel dica, acciò ch’e’ possi ad altro attendere.
Piro. E’ mi par aver visto questo vecchio
un’altra volta. Padron, i’ sto in dubbio
se gli è quello, sapete? che giá dissivi
che ebbe la Spinetta. Gli è quel proprio;
gli è desso certo.
Bernardo. È desso?
Piro. Senza dubio;
lo riconosco.
Bernardo. Falli riverenzia
e, come si convien, datti a conoscere;
che ci sará un buon mezzo a convincere
le cause che abbiam.
Noferi. Molto mi guardano
questi duo forestier.
Piro. Iddio salvivi,
padron mio.
Noferi. E te ancor. Ma non conoscoti.
Bernardo. Non è gran fatto, essendo piú di dodici
anni che noi vedesti.
Piro. Ricordatevi
voi di Piro che, collo amiraglio
delle galee del viceré di Napoli,
fu a Livorno allor che noi lasciammovi
la povera Spinetta?
Noferi. Ah! ah! Or ricordomi
di te. Tu se’ quel Piro, ch?
Piro. Quel proprio.
Noferi. Voi siete e’ ben venuti. Ma dispiacemi
avervi a dir cosa che non piccolo
dispiacer vi dará. Oggi, in sul vespero,
non vi so dir da che spinta, partitasi
Spinetta è di mia casa; e non m’immagino
dov’esser possa.
Bernardo. Lo sappiam benissimo.
La fu sviata da un certo Albizo,
sotto coverta di tòrla per moglie.
Noferi. Ah! ah! Vedi che pur davo in bersaglio!
E’ l’ha sviata Albizo Ricoveri?
Tolghila. I’ non lo vo’ giá, io, per genero.
Bernardo. Che dite?
Noferi. Eh! Io dice’ meco medesimo
un’altra cosa. Ma dove ritrovasi,
la pazzerella?
Bernardo. In quella casa trovasi.
Noferi. In casa messer Rimedio Bisdomini?
Bernardo. Non vi so dir, in ver, come si nomini;
ma l’è quivi, una volta.
Noferi. Si, ch? Ditemi:
come, cosi, v’è ella?
Bernardo. Noi medesimi
ve l’abbiam messa; che a caso trovammola,
com’altra volta vi dirò per agio.
E ciò si fece a ’stanza di quel vecchio
che è padron della casa: perché trovasi,
in questa terra, uno il qual die’ essere
il padre suo; e noi sappiam certissimamente
che egli è morto, che veduto
fu affogar in mar.
Piro. Cogli occhi propri
il vedd’io.
Noferi. E cosí ella continovamente
diceva.
Bernardo. E, ’nfin che si giustifichi
che gli è un baro e non il padre, piacqueci
di lasciarla; per ciò che uomo nobile
e da bene ne parve.
Noferi. Gli è certissimamente;
e non vi fará torto. E prometto vi
di prestarvene aiuto. Ma dch! Ditemi:
che avete a far con lei?
Bernardo. Er’amicissimo
del fratello: e (per dire a voi il proprio
vero) i’ vo dicendo ad ognun d’essere
suo fratello; che è piú onorevole
ed a me ed a lei.
Noferi. Di questo lodovi.
Piro. Fratel si chiama e piú che fratel amala;
ch’è qui sol per suo amor e ave’ portataci
la dote per maritarla.
Noferi. Non piacemi
quel dire «avea». Èssi mutato d’animo
per questo?
Bernardo. No; ma nata una disgrazia
è: che dumila scudi, che portatoci
avea, come dicea, per questa causa,
mi sono stati tolti.
Noferi. Come domine
tolti? e da chi?
Bernardo. Qui, da un vostro Uficio.
Noferi. Che fia moneta sbandita?
Bernardo. No, diavolo!
Era tutt’oro.
Noferi. Questo non può essere;
ch ’a Firenze non s’usan questi termini.
Bernardo. Cosí è la veritá. E, se io colpevole
sono d’alcun error, ch’i’ possa incorrere
in tutti e’ mali.
Noferi. Non giurate.
Bernardo. Potendone
aiutar in tal caso, v’arem obligo.
Ecco il comandamento; che mi citono.
Noferi. Questo è degli Otto.
Bernardo. Si; gli Otto si chiamano.
Noferi. Venite meco in piazza. I’ vogl’intendere,
prima, della Spinetta: ch’amicizia
grande tengo con quel messer Rimedio
che l’ha in casa, che, or or, ivi veddilo
con quel baro; e, poi, dell’altra causa
vi promett’anco esservi favorevole.
E state, gentiluomo, di buon animo,
che non vi fia fatto torto.
Bernardo. Io confidomi
in Dio e nella ragione.
Noferi. Venitene
con esso meco, ch’ai tutto delibero
esservi buon amico.
Bernardo. Io vi ringrazio
e fonne capital.
Noferi. Venite, dicovi;
non temete.
Bernardo. Andiam, Piro.
Piro. Andiam. Non dissivi
che, trovando costui, d’ogni pericolo
saremmo fuori?
Bernardo. Dio ne ringrazio.
SCENA VI
Cambio vecchio solo.
Oimè! oimè! Gesú! I’ spirito.
Come può star questa cosa? In nomine
Patris et Fili... Certo, quest’è opera
di Setanasso. Quest’è un miracolo
di sorte che, se tutti quanti gli uomini
che son in questo mondo mi narrassero
d’averlo visto, non saria possibile
ch’i* lo credessi mai. Pur, è verissimo;
ch’i’ lo tocco con mano. Altri ch’el diavolo
non lo può far. Gli è forza che gli spiriti
sappia incantar. Ma è però possibile
che gli abbin tanta forza e tanto possino
ch’uno esca ed entri a suo modo, d’un uscio
serrato, com’ha fatto questo pessimo
negromante? che or nella via veddilo
e parla’ gli; e, tornat’a casa, trovolo
serrato ove il lasciai. Ma ecco Fazio.
Vo’ conferir con lui questo miracolo.
Ma che domin ha ei, ch’anch’ei lamentasi?
SCENA VII
Fazio, Cambio vecchi.
Fazio. Oh sciagurato me! uh! uh! oh povero
me! Che dir debbo di quel che avenutomi
è? Non sará giá mai ch’il possa credere;
e pur è vero. Io non so s’i’ mi sogno
o so’ pur desto. Pensando alla perdita
che ho fatta, son pur desto benissimo;
e, quando io penso al modo, parmi un sogno.
Come sta questa cosa?
Cambio. Che disgrazia
t’è intervenuta, Fazio?
Fazio. Oh! Grandissima,
certamente; e cos’anco ch ’un miracolo
parrá a chi l’udirá.
Cambio. Un gran miracolo
ti voglio contare io che, senza il diavolo,
non si potrebbe ma’ fare.
Fazio. Una simile
cosa è la mia; ma con troppa mia perdita.
Io son disfatto, Cambio.
Cambio. Orsú! Narrami
che ti è avenuto; e di poi aparéchiati
a udir cose che dira’ incredibili.
E consoliamci l’un l’altro.
Fazio. Oh! Non possoti
giá consolar, per ciò che troppo truovomi
sconsolato.
Cambio. Or di’ sii! Ch’è accadutoti?
Fazio. Te lo dirò. Per mezzo della lettera
di quel ribaldo, dagli Otto mi furono
e’ mia danar, che non mancava un picciolo,
fatti rendere.
Cambio. E questa è la disgrazia
che tu di’, ch?
Fazio. Ascolta, ch’è grandissima.
Cambio. Or di’, via.
Fazio. Ben sai che io posili
(non gli potendo dentro allo scrittoio
ripor, com’io dove’, perché mancavami
le chiavi allor) cosi, sotto la coltrice
del letto mio, in quel gruppo medesimo
che quel tristo gli ave’ portati. Or torno vi
per riporli e, credendo i danar esservi,
vi truovo rena. E so pur che benissimo
e con mie proprie man serra’ la camera
in modo ch ’a nessun era possibile
entrar senza la chiave che aveami
messa nella scarsella; che, tirandosi
a sé l’uscio, non vi è poi altro ingegno
che alzi il saliscende.
Cambio. E non erano
alcuni in casa?
Fazio. No, dico: che mogliama,
la mia figliuola e la fante andarono
ieri in villa; e ’l servidore ed Albizo
ancora eran fuori.
Cambio. Altri potrebbevi
esser entrati?
Fazio. No, Dio! che l’uscio
trovo serrato e, ’n quel lato medesimo
del letto, esser il gruppo e nel medesimo
modo legato. Uh!
Cambio. Or ascoltami, Fazio.
Noi abbiam tutt’a dua a far con diavoli
ed abbiam poco rimedio.
Fazio. Che «diavoli»?
Che mi di’ tu? lo ho paura degli uomini,
io.
Cambio. Non tè ne far beffe. Cose simili
non posson far gli uomini. I’ vo’ dirti
or quel che è avvenut’a me: che, udendolo,
confesserai che sia cosa diabolica;
e, perch’abbiam a far con un medesimo,
dira’ anco la tuo’ cosa di spiriti
esser.
Fazio. Il raccontar questi miracoli
non ci to’ ’l mal.
Cambio. Gli è ’l ver; ma pur potrebbesi,
con conferirli, trovar il rimedio.
Fazio. Or di’ su!
Cambio. Ben sai che nella trappola
feci quel tristo incorrer in quel proprio
modo che noi disegnammo; ed, avendolo
prima serrato dentro a quella camera
terrena ove egli entrò, messi poi a l’uscio
un buono chiavistello.
Fazio. Ed io viddilo.
Cambio. E poi serrai colla chiave. E non valsemi,
che gli usci fuori.
Fazio. A punto vole’ dirti
ch’i’ l’ho veduto e gli ho parlato.
Cambio. E io simile‐
mente. Ma sta’ a udir quel ch’è mirabile.
I’ torno a casa; e nel modo medesimo
ch’i’ lo lasciai truovo, non solo l’uscio
da via, ma parimente quel di camera.
Che diresti tu qui?
Fazio. Forse che par veti
averlo dentro in casa.
Cambio. Come «parvemi»?
ch’el veddi entrar in casa co’ mie’ propri
occhi; e non sol in casa, ma anco in camera,
ch’ero sotto la scala. Ma ci è meglio.
Fazio. Iddio ci aiuti.
Cambio. No’ n’abbiam bisogno.
Odi pure. I’ m’accosto a l’uscio e chiamolo,
cosi, un po’ sotto boce; ed ei risposemi.
Fazio. Egli era forse un altro.
Cambio. I’ dico ei proprio;
che lo conosco, alla boce, benissimo.
Fazio. Be’: ’nfin apristu l’uscio?
Cambio. L’uscio? Die me ne
guardi! No, no. I’ vo’ questa suzzachera
lasciare ad altri.
Fazio. Dunque temi?
Cambio. Diavolo,
ch’i’ temo! Ti par caso questo, Fazio,
da non temer? E’ m’entrò allor un triemito
nell’ossa tal ch’i’ ne sto ben un secolo.
Cacasangue! I’ non vo’ scherzar co’ diavoli.
Che so io? Se n’uscissi qualche spirito
che mi facessi dietro qualche giachera,
ognun di me si riderebbe. Stievisi
quanto gli pare.
Fazio. Be’: ’nfin, che rimedio
sará il nostro? Debb’io questa perdita
soportare? e tu in tante tenebre
tener la casa tua?
Cambio. Vo’ ch’ai vicario
dell’arcivescovo andiamo e poniamoli
una querela per uom che ’l demonio
sappi, per arte, a suo’ posta costrignere.
Fazio. E che vuo’ tu che faccia in ciò ’l vicario?
Cambio. Come «che vo’ ch’e’ faccia»? È suo uficio.
Fazio. Ah! Tu di’ ben; egli è ver. Se ei giudica
i preti e’ frati, che peggio che diavoli
sono, e gli fa star, sua è la causa
di amenduo noi ch’abbiam a far co’ diavoli.
Andiam insieme.
Cambio. A dirti il vero, Fazio,
or i’ non posso: perché a Lippo Ruffoli
mio cugino ed a Coppo e ad altri ho detto
che sien qui acciò che, in tal caso, aiutimmi;
e, s’i’ venissi, e’ non mi tro verrebbero.
E però va’ da te; poi, bisognandoti,
verrò ancor io.
Fazio. Orsú! Voglio far subito
quel e’ ho da far per ciò che ben è battere
il ferro mentre è caldo.
Cambio. Or va’, ch’aiutici
Iddio.
Fazio. Cosí gli piaccia. Resta, Cambio.
Cambio. Da poi ch’i’ resto qui sol, vo’ rimettere,
a buon conto, il chiavistel ne l’uscio;
e poi tanto aspettar che costor venghino.
Sarebbon questi? Oh! Gli è messer Rimedio
e un altro. Gli è ben che io séguiti
il fatto mio; ch’i’ so che me non vogliono.
SCENA VIII
Messer Rimedio, Girolamo, Cambio vecchi.
Messer Rimedio. Questo m’ha detto un certo Lippo Ruffoli
suo cugino.
Girolamo. Di chi?
Messer Rimedio. Di questo Cambio,
che, come avete inteso, ha serratolo
in casa.
Girolamo. Oh grande Iddio!
Messer Rimedio. Deh! Rallegratevi;
che, come siete uscito del travaglio
della vostra figliuola (che quel giovane,
che dianzi stimavate un baro, avete vi
trovat’amico e certo di quelli ottimi),
anco di questo del figliuolo facilemente
uscirete, se vo’ disporrete vi.
però di fare quel ch’è ragionevole.
Girolamo. Ben: che vi par ch’i’ faccia? Consigliatemi.
Messer Rimedio. Che, senza farne parola, piacendoli,
gne ne diate per moglie: che, se è povero
uomo in questa terra, è molto nobile;
e la fanciulla è buona. Vo’ facciatelo
a ogni mo
Girolamo. Ditemi un po’: farestilo
voi, sendo nel grado mio?
Messer Rimedio. Senza dubio;
lo farei.
Girolamo. I’ non posso discostarmene.
Faccisi: i’ son contento.
Messer Rimedio. Or cosí piacemi.
Andiam, adunque, a tro vallo. Ma vedilo
che pensieroso si sta intorno a l’uscio.
Cambio. Ecco messer Rimedio in qua. Che domine
vorran da me?
Messer Rimedio. Il ben trovato, Cambio.
Cambio. I ben venuti.
Messer Rimedio. No’ vegnam con animo
di dirvi cosa, Cambio, che piacevole
vi sará alla fin; bench’el principio
dispiacer v’abbi dato.
Cambio. Io so’ solito
de’ dispiaceri e de’ piacer ricevere.
Dite pur quel che vi piace.
Messer Rimedio. Quel giovane
che voi avete serrato è figliuolo
di questo uomo da ben: il qual è nobile
e ricco a casa sua, che è di Cicilia.
Cambio. Come figliuol di costui? Che ditemi?
Non ho serrato io Bernardo Spinola
da Genova?
Messer Rimedio. Egli è il figliuol proprio
di costui.
Cambio. Non è Bernardo, ch?
Messer Rimedio. No, dicovi.
Giulio ha nome.
Cambio. Si, ch? Non maraviglia
ch’i’ l’ho veduto fuor. Ah! Non ci è diavoli,
adunque!
Messer Rimedio. Eh! Che dite voi di diavoli?
State in cervello.
Cambio. V sto in cervel benissimo.
Ma a che far m’è entrat’in casa?
Messer Rimedio. È giovane,
Cambio; e fatto ha cose da giovani.
Cambio. Son belle cose, queste! Andar entrando
ne l’altrui case! e dir cose da giovani
essere! Cose da ladri mi paiono,
piú presto, a dirle per suo nome proprio.
Girolamo. Non entrò per rubare, perdonatemi,
messer mio.
Cambio. Perch’entrò? per far qualch’opera
santa, ch? Non vo’ che verun m’usi vendere
picchi per papagalli. Siamo in essere
ch’el paternostro discerniam benissimo
da quell’altra faccenda.
Messer Rimedio. Udite, Cambio.
I’ vo’ che vo’ pognat’un po’ la collera
da parte ed ascoltate. No’ siam d’animo
di far cosa ch’alfin vi sará utile,
innanzi che partiamo, ed onorevole.
Cambio. Da tristo lato si è fatto.
Messer Rimedio. Ascoltateci,
di grazia. Non diss’io che, nel principio,
n’aresti dispiacer ma contentissimo
ne resteresti? che, talor, si semina
mal seme, che buon frutto poi ricogliesi.
Cambio. Be’: che pensiero è il vostro?
Messer Rimedio. Questo giovane,
per quanto puossi da noi comprendere
agli effetti, vuol ben alla Lucrezia
vostra figliuola; e sol per questa causa
dovette entrarvi in casa.
Cambio. Si, ch? Fannosi
queste cose? Oh ribaldo!
Messer Rimedio. Eccoci in collera.
Cambio. Son cose, queste, da non si commuovere,
messer Rimedio, ch? Come parrebbevi
ch’un forestier v’entrassi in casa, d’animo
di toccarvi l’onor?
Messer Rimedio. Certo, parrebbemene
male: ma l’uomo savio alfin s’accomoda
alle cose che accaggiono; e delibera,
de’ piú tristi partiti, a quel s’apprendere
che è miglior. Se costui è contentissimo
imparentarsi con voi, e non curasi
di dote alcuna, ed è uom ricco e nobile
a casa sua, perché far non dovetelo?
Cambio. Messer Rimedio, se gli è di quest’animo,
vo’ perdonarli.
Messer Rimedio. Che dite, Girolamo?
Girolamo. Che son per far ciò che messer Rimedio
vuole.
Messer Rimedio. E i’vo’, perché gli è ragionevole,
che Giulio vostro figliuol, poiché fatto
ha si fatto error, pigli per legittima
suo’ sposa la figliuola qui di Cambio
Ruffoli.
Girolamo. Io son contento.
Cambio. Ascoltatemi.
Di dote non s’ha a ragionar; sturisene
gli orecchi ognuno. Non dite poi...
Messer Rimedio. Intendesi
cotesto.
•Girolamo. Acconsentisco e ratifico
per Giulio mio figliuol.
Messer Rimedio. Buon prò vi faccia!
Qui non accade dir altro. Com’uomini
da ben che siete, avete fatto.
Girolamo. Andiamolo
a cavar di prigion, che tanto vivere
non credo ch’i’ lo rivegga.
Messer Rimedio. È credibile.
Andiamo. Sii! Aprite l’uscio, Cambio.
Cambio. Ecco ch’i’ l’apro.
Messer Rimedio. Da qui innanzi lascinsi
tanti sospetti.
Cambio. Non fien necessari.
Entrate in casa.
Girolamo. Sii, messer Rimedio!
Messer Rimedio. Orsii! Entriam, senz’altre cerimonie.
SCENA IX
Albizo giovane, Bolognino suo servidore.
Albizo. Da poi ch’i’ ti lasciai, ho trovato Noferi;
e me li sono aperto, per un ultimo
rimedio.
Bolognino. E de’ danari?
Albizo. Tutto ho dettoli.
Bolognino. Avete fatto male.
Albizo. Anzi, grandissimo
bene; per ciò che questa cosa propria
sará cagion ch’i’ l’abbia.
Bolognino. In fin, che dicevi?
Albizo. Che non si cura piú darmi l’Emilia.
Bolognino. Questo mi piace. E di Spinetta?
Albizo. Dissemi
che l’è in casa di messer Rimedio;
e che ci è il padre; e che l’è molto nobile;
e che questi danar son d’un da Genova
che me la fará aver, se amorevolemente
gne ne vo’ rendere.
Bolognino. E promessoli
avete?
Albizo. Si.
Bolognino. Starem a veder l’esito.
I’ non vo’ dir piú nulla, ch’el saeppolo
mio non ci aggiugne. Ma quando s’ha ’ntendere
la risposta?
Albizo. Egli vuol, prima, con Fazio
parlar ed anco con questo tal giovane.
E l’ho aspettare in piazza.
Bolognino. Perché stiamoci,
che non andiamo?
Albizo. A dirti il vero, i’ spasimo
di veder la Spinetta.
Bolognino. Eh! Gli è un perdere
tempo! Non si fare’ a finestre. Andiamcene:
che, se Fazio ci truova, forse scandalo
sarebbe.
Albizo. Tu di’ ’l ver. Di qui leviamoci.
SCENA X
Gianni servidore solo.
I’ ho cercato, con gran diligenzia,
quasi tutto Firenze; né ho possuto
Alamanno trovar. Ma, in quello scambio,,
ho trovato Bernardo (che or Giulio
s’ha a chiamar), il figliuol di Girolamo,
el qual stava con Fazio e da Genova
si facea per paura. Ed ho narratoli
com’è il padre in Firenze; e che trovatosi
è la sorella; e che Bernardo Spinola
suo amico ancor ci è; e che la taglia
gli ha levata e il bando: onde la mancia
ne ho spiccata. Or con gran desiderio
vorrei, prima di lui, trovar Girolamo
suo padre; ch’i’ are’ la mancia a doppio.
E, per questo, gli ho detto che, andandone
in piazza, è per trovarli; che lasciatoli
ho quivi. Ma mi penso che e’ siano,
piú presto, qui intorno. E, per tal causa,
ci son venuto; ed anco per intendere
qualcosa d’Alamanno: perché credere
non posso, noi trovando, ch ’e’ non abbia
fatto qualch’opera. Ma ben m’intorbida
la fantasia il chiavistel ch’en l’uscio
è stato messo. Ma oh! Non è ne l’uscio
piú. Ci è entrato gente! In fine, io dubito
di qualche male. Ma sta’ ! che la Menica
esce di casa. Vo’ parlarli e ’ntendere
qualche cosa da lei, se fia possibile.
SCENA XI
Menica fante, Gianni servidore.
Menica. Uh Signor! Che affanni e che scompiglio
è questo nostro! E, se messer Domenedio
non ci mette le mani, non veggio
che sien per esser d’accordo e la povera
figliuola si mariti a quel bel giovane.
Oh che ventura arebbe ella!
Gianni. Che domine
dice costei? che potrebbe mai essere
loro avvenuto?
Menica. Uh! uh! Mi cascò subito
il fiato, quand’i’ viddi aperto l’uscio
e che n’uscí Alamanno Bisdomini.
Gianni. L’ha nominato il mio padron. In fine,
vo’ dimandar di questo caso. Menica!
o Menica! Non odi, ch?
Menica. Che vuo’ tu?
Gianni. Vieni un po’ qua.
Menica. Oh! oh! A punto vengone!
Se tu lo credi!...
Gianni. Deh, Menica! Ascoltami
una parola sola.
Menica. Tu giá dettone
hai una; e basta.
Gianni. Buono! Tu vuo’ ’l dondolo
de’ fatti miei, ch, Menica?
Menica. Die me ne
guardi! I’ non vo* coteste cose. Proprio!
Gianni. Vo’ dir che tu mi strazi.
Menica. I’ non ti strazio;
ma ho altro che far che or attendere
a ciance.
Gianni. Non son ciance, alla fé.
Menica. O spacciati;
di’ sii ciò che tu vuoi.
Gianni. Che travaglio
è il vostro, in casa? Dimmi un po’.
Menica. Va’ cercalo.
Che ha’ tu a saper e’ fatti nostri?
Gianni. Importami.
Menica. O guarda un po’ come gli importa!
•Gianni. Menica,
per questa croce, che m’importa, credimi
ch’i’ non burlo. Ma non mi conosci tu?
Io son pur vicino.
Menica. Ah! Or conoscoti.
Tu se’ ’l garzon d’Alamanno Bisdomini,
nch vero?
Gianni. Madesi.
Menica. Sia col mal asino,
che ’l tuo padron è cagion d’ogni scandalo.
Gianni. Dimmi un po’: che è accaduto? e che scandalo
è questo?
Menica. Tel dirò; per ciò che io pensomi
che la cosa pur abbia aver buon termine.
Gianni. Di’ su! Ch’è nato?
Menica. Il tuo padron, ch’è un fístolo,
ci entrò oggi in casa; e ’l nostro Cambio,
che v’era, lo serrò in una camera,
credendo fussi un altro.
Gianni. O non veddelo?
Menica. Non, par a me. Ma non so ben contartela
a punto; perché siamo state al buio
serrate, piú di quattr’or’, la Lucrezia
ed io.
Gianni. Chi vi serrò?
Menica. Chi credi? Cambio.
Gianni. Possa serrar le pugna! In fine, seguita:
che fé’, serrato che l’ebbe?
Menica. Andossene
fuori.
Gianni. E poi?
Menica. Venne messer Rimedio
e un altro con Cambio.
Gianni. Era Girolamo,
certo, quell’altro. Be’, segui.
Menica. E, credendosi
che quel ch’era serrato nella camera
fussi figliuol di quell’uomo...,
Gianni. Or rinvengola,
questa cosa.
Menica. ...ne venneno con animo
che pigliassi per moglie la Lucrezia
senza aver altra dote.
Gianni. Chi?
Menica. Quel giovane
ch’era serrato: ch’alfin accordò visi
el padre; che cosí messer Rimedio
lo consigliò, per far piacer a Cambio,
mi pens’io. Cosí aprirno l’uscio;
e, fuor d’ogni credenzia, vi trovarono
Alamanno.
Gianni. Oh buono! Questo piacemi.
Menica. Oh! Ben sa’ che allor messer Rimedio
rimase bianco.
Gianni. E che disse?
Menica. Gridavalo
quanto e’ poteva. E par che ei discostisi
da quel e’ ha consigliato altri. A Cambio
non par ragione. E sono in sul combattere.
Gianni. Ben gne ne dará, si.
Menica. Oh! A Dio piaccia!
Gianni. Ma dove vai tu, ora?
Menica. Vo infin a’ Martiri,
accender questa candela e chiedere
lor questa grazia: che, se la Lucrezia
ha questo ben, la piú contenta femina
non sará ’l mondo; perché sempre l’animo
v’ha avuto, ma non vi credeva aggiugnere.
Gianni. Ella l’ara, s’Alamanno il delibera.
Ma voglio ir sii, che questa cosa intendere
vo’ bene. Addio.
Menica. Va’vi, di grazia. E pregalo
che facci si che la Lucrezia l’abbia,
per lo amore d’Iddio; che, non avendolo,
si morria di dolore.
Gianni. E’ desidera
Ma ei pensivi. piú d’aver lei che forse la Lucrezia
non brama d’aver lui. Ora vattene
con questo.
Menica. Oh! Tu ha’ tutta ricreatami,
che sia benedetto! Ma uh! Lasciami
seguire il mio viaggio, che Dio consoli
ognuno. Ma chi son questi? Oh! Gli è Fazio,
il padron di Bernardo. Oh! Se ei tornaci,
che dirá e’ ch’el suo amico carissimo
gli abbi tolto la dama?
SCENA XII
Noferi, Fazio vecchi.
Noferi. Qui non ci è altro che dir, una volt’Albizo
è stato quel che l’ha sviata e datali
la fede sua di tórla per legittima
sposa.
Fazio. E, s’è’lo fa, piú non mi capiti
innanzi.
Noferi. Fazio, i’ vo’ che, ’n questo, lasciti
consigliar. Tu se’ venut’a un termine
che può’poco far altro. Che rimedio
hai tu di quietare questo giovane
di cui ha’ ’n mano i danari?
Fazio. Avevogli;
non gli ho.
Noferi. E tanto peggio. Se accorditi
a questo, gne ne potrai render subito;
che fia la dota la somma medesima.
Fazio. V non posso pensar che que’ non fussino
i mie’ danar; che lo dice la lettera.
Noferi. L’è una burla, dico. E ciò chiarissimo
ti fia, come tu parli col tuo giovane;
che so che gli ha e’ tuo’ danar. Ma la collera
non dovette lasciarti il vero intendere.
So come tu se’ fatto.
Fazio. Or vien qua, Noferi.
S’almen i mie’ danar di Roma fussero
in esser, come vuo’ dir...
Noferi. Di ciò startene
sopra di me.
Fazio. ... i’ mi lascerò svolgere.
Noferi. Vo’ che lo facci, Fazio; ch’i’ promettoti
che gli ha in borsa.
Fazio. Chi?
Noferi. Giulio, el tuo giovane
che chiamavi Bernardo. E conterátteli
tutti.
Fazio. Iddio sa se son que’ propri
che ora in casa avea; che tolto m’abbia,
si come tien per certo Cambio Ruffoli,
con sua diavolerie.
Noferi. Che? Siete bestie
amenduoi, a dirti il vero, a credere
si fatte cose. Ma, per trarti il dubbio,
ti vo’ ancor dir piú lá. Se tu accorditi
a questo parentado amorevolemente,
come tu debbi, anco que’ propri
danar ch’avevi in casa ria possibile
riveggia in viso; con questo: che ridere
ne debba, perché l’è cosa piacevole.
Fazio. Dimmi chi me gli ha tolti; ed io promettoti
di far ciò che tu vuoi e perdonargnene,
sia chi si vuole.
Noferi. El prometti?
Fazio. Promettolo.
Noferi. Orsú! l’tei vo’ dire. Gli è stato Albizo.
Fazio. Albizo? Oh! Come fece?
Noferi. Era in camera,
quando gli riponesti.
Fazio. Oh! Io non veddilo.
Noferi. E’ v’era pure. E non per altra causa,
gli tolse, se non acciò che e’ fussero
un mezzo a farti a tal cosa conscendere.
E vuo’lo tu veder? che, come giovane
da ben che gli è, mi venne a trovar subito
e contòmi ogni cosa.
Fazio. Io perdonogli,
poich’i’ te l’ho promesso; ed anco accordomi
a questo parentado.
Noferi. Ora comendoti,
che tu fa’, Fazio, una cosa lodevole
da ognun che ’l saprá. Prima, l’è nobile,
l’ha buona dote, allevata benissimo
(e di questo ne son buon testimonio
io); ed è sorella di quel giovane
che t’ha servito fedelmente dodici
anni, al quale io, per aprirmiti
intrafatto, ho data la Emilia
mia.
Fazio. Si, eh?
Noferi. Tu ha’ inteso.
Fazio. Profizio!
Noferi. Ed a far questo m’han mosso tre cause:
la prima, ch’i’avea detto a l’Emilia
lei esser maritata; e secondariamente,
che egli avea di lei grandissima
voglia, che n’era innamorato, e chiesela;
terza, ch’i’truovo che gli ha una rendita
di secento fiorin, come per agio
intenderai.
Fazio. Tu ha’ fatto benissimo.
Noferi. E tu ancora.
Fazio. Io ne son lietissimo.
Non piú parole. Tu può’trovar Albizo;
e dir che venga a trovarmi e non dubiti.
Noferi. Farollo. Ma ecco qua a punto ’l mio genero,
il quale ha nome Giulio (e cosí chiamalo
per lo avvenire); e Bernardo Spinola
è seco. Or ci manca sol Girolamo,
il padre suo, che con messer Rimedio
lasciai, poco è. E’ ci han veduti e vengono
a noi.
Fazio. Aspettiamli.
Noferi. È ragionevole:
e che con lor ti scusi dello scandalo
che, per errore, è stato per nascere;
e delle parole ingiuriose ch’andarono
a torno.
Fazio. I’ lo farò: non dubitare.
Noferi. Si: duo parole simili non costano.
SCENA XIII
Giulio detto Bernardo, Bernardo Spinola,
Fazio, Noferi vecchi.
Giulio. Or vegg’io la cagion perché e’ dissemi
villania. Gli avea ragion. Perdonogli
ogni cosa; ch’e’ danar troppo dolgono,
massimamente a un vecchio. Ma eccolo
qua, con Noferi.
Bernardo. Giulio, i’ho ancor collera
con lui.
Giulio. Vo’ che la lasci, che tuo suocero
voglio ch’e’ sia ancor, un di.
Bernardo. O Giulio,
Die ’l volessi!
Giulio. Ne son per far ogni opera;
che, essendo contento io, or desidero
che sia contento anco tu.
Bernardo. Or facciamoci
loro incontro; e vediam se ei fa ’l simile
che dianzi.
Giulio. Non dubitar, ch’el mie’ suocero
la piglierá per noi.
Bernardo. Ben: io non dubito.
Fazio. Voi siate e’ ben trovati. Io scusomi
con ciaschedun di voi; che, credendomi
una cosa per un’altra, offesivi
oggi, e non poco, certo. Perdonatemi.
Chi è uomo erra.
Giulio. Non bisogna, Fazio,
far queste scuse meco. Poteatemi
dir ciò che voleate.
Bernardo. Ed io perdonovi
e vi ho per scusato; ma con patto
mi liberiate dagli Otto e bastivi
aver avuti e’ mie’ danar.
Fazio. Saranno vi
i danar vostri renduti; e all’uficio
degli Otto non penso sia necessario
comparir, sendo d’accordo.
Noferi. Anzi, piacemi
che vi si vadia e tutt’el caso narrisi;
ed, alla prima, ognun di voi fia libero.
Fazio. Cosí faremo.
Bernardo. Io al vostro consiglio
m’atterrò sempre.
Fazio. E a te, per non essere
ingrato de’ servigi da te fattimi,
Giulio, mi son pur or disposto d’essere
vostro parente. Digli il resto, Noferi.
Noferi. Fazio è contento ch’el suo figliuolo Albizo
sposi la tua sorella.
Giulio. I’ vi ringrazio
assai.
Fazio. Buon prò ci faccia.
Noferi. E qui lo Spinola
c’ha aver in ricompenso dell’oltraggio
che gli fu fatto, Fazio?
Bernardo. Io son benissimo
satisfatto e mi basta la suo’ grazia.
Fazio. Io son, Noferi, sempre paratissimo
di compiacerli in quel che sia possibile;
che le suo’ qualitá troppo mi piacciono.
Giulio. Potresti, Fazio, ben con vostro comodo,
farli un gran benefizio.
Fazio. Un benefizio?
Giulio. Un benefizio, messer si, grandissimo.
Fazio. Chieggami ciò che vuol.
Giulio. Perché e’ si perita,
lo dirò io. E’ vorrebbe la Livia
vostra figliuola per isposa.
Noferi. Odi tu?
Gli è da fare.
Fazio. Io ci penserò. Ma che animo
è il suo?
Giulio. Quel che vi piace.
Noferi. I’vo’ che l’abbia
a ogni modo, Fazio.
Giulio. Ed ei promettevi,
si come io, di pigliarsi per patria
questa bella cittá, che molto piacegli.
Noferi. Non è piú da pensarci.
Fazio. Andiam adagio.
Che dote vorrebb’egli?
Giulio. Niente. Bastagli
avere la fanciulla; e promettevi
ancora di dotarla, in quel medesimo
che vi diam noi.
Fazio. Io son contentissimo,
se gli ha cotesta voglia.
Bernardo. Io non desidero
altro.
Noferi. Oh come un avaro presto arrendesi
a l’utile! Or baciatevi.
Fazio. Io accettoti,
Bernardo, non solamente per genero
ma per figliuolo.
Bernardo. E io vo’, Fazio, simile‐
menteper un buon padre.
Noferi. Buon prò faccia
a tutti quanti noi.
Fazio. Troviam Girolamo,
ora, che sia di tanto ben partecipe.
SCENA XIV
Gianni servidore, Fazio, Noferi, Bernardo, Giulio.
Gianni. I’ vo volando. Ma, per Dio, eccoli
qui tutti insieme. E’ mi manda Girolamo
e il mio padron per voi.
Fazio. Dov’è Girolamo?
Gianni. Qui, in casa Cambio.
Noferi. Èvvi messer Rimedio?
Gianni. E Alamanno ancora, che la Lucrezia
ha preso per sua donna.
Giulio. Oh! L’ho carissimo.
Fazio. Si, ch? Buon prò gli faccia.
Giulio. Al mio ben essere
mancava questa nuova. Oh felicissimi
noi tutti!
Bernardo. Quell’era il suo desiderio,
ch?
Giulio. Si.
Noferi. Andiam da lor. Ma ci manc’Albizo
a far perfetta ogni nostra letizia.
Va’ via, garzon, per lui. Digli che subito
ne venga.