I Bernardi/Atto IV
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ATTO IV
SCENA I
Bolognino servidore.
Io ho aspettato, ben tre ore, Albizo
e Fazio mie’ padroni; e ancor non tornano.
E’ bisogna che l’un altrove desini,
l’altro sie dietr’all’Aldabella. Possomi
ormai uscir di casa, che giá vespero
è sonato. Ma ben mi maraviglio:
che, portando la veste a colei, Albizo
mi disse pur, com’ave’ fatta l’opera,
di tornar qui, come gl’impose Fazio,
per pigliar i danar che s’hann’a spendere.
Gli è forza che l’abbia trovato ed abbia
fatto ’l bisogno. Vogli’ andar a intendere
quel che gli ha fatto, acciò che, bisognandoli,
gli possa dar aiuto. Ma oh! Tornano
ancor le genti a desinar, ch’i’ veggio
qua Alamanno. Gli è forse miglior ora
ch’i’ non pensava. Ma sia. Voglio intendere,
una volta, in che grado si truov’Albizo.
SCENA II
Alamanno giovane solo.
Oh come mi dispiacciono certi uomini
che, contro il voler tuo, talor ti tengono
a desinar con esso lor, credendoti
far cosa grata! I’ non son a disagio
mai tanto stato quanto questo spazio
di tempo nel quale il mie’ zio tenutomi
ha a desinar per forza. Se piú giovane
fusse stato, i’ gli are’ detto alla libera
quel ch’i’ avev’a far: che son certissimo
m’arebbe dato una buona licenzia;
che simil cose ogni di non accaggiono,
anzi, forse, mai piú potrommi abattere
a una tal ventura. Oh sorte pessima!
Ben m’abbattei in mie* padre, che sforzassimo
far, a punt’oggi, questa cerimonia
di visitar el zio perché tenessimi
a desinar! Oh se fussi possibile
ch’i’ fussi a tempo! So pur che la lettera
cortesemente fu presa; e, se Cambio
gli ara dat’agio, so ch’ara il debito
fatto del contrasegno. Ma io veggiolo,
per Dio! Oh gran ventura! I’ ti ringrazio,
Amor, che tu mi fa’ me’ ch’i’ non merito.
I’ vogli’ entrar in casa, che certissimo
son che Cambio non vi è; ch’el contrasegno
levato avrebbe. Ma ’l vedrò; che l’uscio,
se gli è ’n casa, non sará aperto. Vedemi
alcun che mi conosca? No. Ben passaci
dimolta gente. Oh Dio! Come mi guatano
costor! Che fo? Vogli* entrar alla libera;
che, quando si sta in dubbio, a cose simili,,
si dá maggior sospett’a que’ che veggono.
SCENA III
Albizo giovanetto, Bolognino servidore
.
Albizo. Conosco or, Bolognin, per sperienzia
che non si può trovar pena piú aspera
che quella che gli antiqui imaginaronsi
ne l’inferno patir, fra gli altri, Tantalo:
ch’era assetato; ed ave’ la freschissima
acqua presso alle labra; e ’mpossibile
gli era il gustarne.
Bolognino. Lasciam ir le favole.
Che dice il vecchio?
Albizo. Che ha mutat’animo,
quant’al mandarm’a Viterbo; e ch’i’ mettami
a ordin, che diman vuol che si publichi
el parentado.
Bolognino. E l’Aldabella?
Albizo. Escludemi
di casa, se io prima non li annovero
se’ scudi d’oro che io ho promessili.
Bolognino. Ha ella in casa la Spinetta?
Albizo. Havvela.
Bolognino. Caviannela per forza.
Albizo. Deh! Caviannela.
Bolognino. V’appiccheresti, ch? Ah! Sono agevoli
queste ta’ cose a dire; e poi difficili
a farle. Ma dite un po’: non potrebbesi,
stasera, al buio, andarvi? e far ogni opera,
con cenni fuori, che ella, conoscendovi,
v’aprissi l’uscio? e poi con voi venissene,
benché Aldabella non voglia?
Albizo. Potrebbesi.
Ma ella n’ara fatto, intanto, copia
a un altro; il qual seco ara menatola.
Bolognino. Non si mena una si presto. E poi, s’amavi,
non sarie per andar.
Albizo. Troppo è voltabile
la donna. E poi sol ama chi promettete
e chi le dona.
Bolognino. Cotesto è verissimo.
Ma che partito s’ha a pigliar?
Albizo. Consigliami,
Bolognin mio.
Bolognino. Per Dio, che poco ordine
ci veggio.
Albizo. Ah Dio!
Bolognino. Orsú! Non perdiam l’animo;
ch’agli audaci è fortuna favorevole,
non a’ timidi. Ora è la casa libera.
Non sapete industriarvi, che non manchino
dieci ducati?
Albizo. In che modo?
Bolognino. Oh! Intendetelo
da voi.
Albizo. T’ho’nteso. I’ vo’ mandar a vendere
tanta roba ch’i’ facci questo numero
di danari.
Bolognino. Ve’ che pur intendestila!
Albizo. Ma e’ ho a mandare?
Bolognino. Mandate la coltrice,
non potend’altro.
Albizo. E se, ’ntanto, il mie’ vecchio
giugne in casa?
Bolognino. Andrá mal. Ma ingegnatevi
di spedir presto: ed io, arrivandoci,
mi sforzerò, con qualche nuova favola,
mandarlo in qualche luogo, per darvi agio;
perché, s’a punto in sul fatto non còglievi,
modo non mancherá di scapolarcene.
Poi, non avend’altro, direm d’essere
stati imbolati. E, di poi, egli pensivi.
Albizo. Per Dio, questo mi piace. Sii! sii! Faccisi.
Va’ per duo figli.
Bolognino. Andrò. Ma vedete, Albizo,
non riuscendo netta, non riversisi
la broda a dosso a me; che penitenzia
non vo’ far de’ peccati d’altri.
Albizo. Credi tu
ch’i’ lo facessi mai?
Bolognino. Voi siete giovane
e saresti scusato. Io sarei il perfido
ch’are’ fatto e detto. E sai? Punisconsi,
e’ nostri par, senza misericordia.
Albizo. Io lo so; ma non dubitare. Spacciati!
Va pe’ facchin, adesso; ma prim’aprimi
l’uscio.
Bolognino. Oh! Gli esce di casa a punto Cambio.
Non vo’ vi veggia entrar in casa.
Albizo. Piacemi
cotesto aviso. Aspettiam che ei partasi
di qui; poi enterrò: si che non abbia
de’ nostri affar a dar ragguaglio al vecchio.
SCENA IV
Cambio vecchio, Bolognino servidore, Albizo giovanetto.
Cambio. Vedi che pur le golpi anco si pigliono!
I’I’ho serrato dentro nella camera
terrena; e le finestre ho tutt’a nottola
suggellate. Or vogli’anch’a l’uscio mettere
il chiavistello e serrarlo benissimo
a chiave. E, se li scappa poi, tignimi!
Bolognino. Oh! Che pensier è ’l suo? E’ serra l’uscio
a chiavistello?
Albizo. Certo, debbono essere
le donne fuori.
Bolognino. O forse vuole andarsene
con Dio. Chi sa?
Albizo. A posta sua. Pensivi
a chi tocca.
Cambio. La chiave è tutta ruggine;
e debole anco, per ciò che l’adopero
di rado; e servirammi malagevolemente.
Pur, proverrò. Sare’ ben ugnerla
un poco, e poi lavorerebbe meglio.
Oh! oh! Ce l’ho pur messa. È un miracolo!
E tanto ho fatto che potut’ho svolgere
e la stanghetta nel suo buco mettere;
ch’el bucinello sta forte. Or escine,
se tu puoi; ch’i’ tei perdono. Or vò’subito
cercar di chi m’aiuti finir l’opera:
che, s’i’ posso ottener che elli sposila,
vadia con essa po’ a suo’ post’a Genova;
ch’i’ sarò allor di tutti e’ pensier scarico.
Albizo. Pure ha voltato il canto. Or apri l’uscio,
ch’i’ entri.
Bolognino. Ecco ch’i’ apro. Che Dio prosperi
questa tuo’ impresa.
Albizo. Or va’, ch’in casa aspettoti.
SCENA V
Gianni servidore solo.
Per mie’ fé, che i vecchi han proprio il diavolo
nell’ampolla. Non puossi esser si cauto,
nelle faccende, cHe non se n’accorgino.
Non mi mandò senza cagion a Fiesole
il padrone: non giá perché rendessimi
il conto il fattor, che necessario
non era or questo; ma acciò che levassimi
di qui e non potessi, in questa pratica
della Lucrezia, a Alamanno porgere
aiuto. Che ara e’ fatto? Io dubito,
da un canto, che non sia stato timido;
da l’altro, spero ben, per ciò che sogliono
gl’innamorati far cose del diavolo.
Ma oh! L’uscio è ’nchiavistellato. Che diavolo
vorrá dir questo? Oh! oh! Qui son le luia
serrate a fatto. Gli hanno forse sgombero.
Chi sa? Io non so ’ntender questa storia;
e, se io non ritrovo il vero, ispasimo.
Vogl’ire a casa, per ciò che possibile
è trovarvi Alamanno che raccontimi
il tutto; e, se non vi è, io delibero
tanto di lui cercar ch’io ritruovilo.
SCENA VI
Fazio vecchio, Bolognino servidore con dua facchini.
Fazio. Ve’ che feci pur ben, a tór la lettera
di questo ladroncello, a far quest’opera!
Che mi è stato un gran mezzo ch’i’ recuperi
i mia danar: che, come gli Otto veddero
10 scritto di suo’ man, come trovavasi
dumila scudi mia, mandaron subito,
senza pensarvi sii, un lor famiglio
a l’osteria, per essi; e me li dierono
che non mancava un quattrino. E a lui fecero
comandamento che al loro uficio
comparissi: che non credo che faccia.
Piú presto, penso, se n’andrá in dileguo
colle trombe nel sacco. Ma non portami.
Vadia or dove gli par; solo bastami
aver el mio riavuto. E’ fu ottimo
consiglio, questo; e piú breve e piú facile.
Il resto lascerò or far a Cambio.
Me ne vo’ ir a casa, acciò che mettali
in luogo salvo; ch’a dosso mi pesano.
Ma vegg’io Bolognin che dietro menasi
dua facchini. Egli è desso. Che disegno
fa costui?
Bolognino. Or siam a casa. Muovetevi.
Ma oh! oh! Tornat’a dietro.
Facchino primo. Che diavolo
avesti?
Facchino secondo. Che cos’è?
Bolognino. Sii via! Partitevi,
che non ho piú di vo’ bisogno.
Facchino primo. Pagami,
se vuo’ mi parta. Non è ragionevole
levarne di mercato, e poi mannarcene
senza pagar.
Facchino secondo. Ti credi fare strazio
di noi? No, no! Dacci quel che promessone
hai, che, altramente, non ci è ordine.
Non vo’ star forte, intenni?
Fazio. Che combattono
costor insieme? Bolognino!
Bolognino. Andatene,
che vi pagherò poi.
Facchino primo. Tu vuo’ la baia,
nch vero?
Fazio. Bolognino!
Bolognino. Oimè, diavolo!
Partitevi, di grazia. Messer!
Facchino secondo. Pagami,
e partirommi.
Facchino primo. Non vo’ tante chiachiere
né tanti cenni.
Bolognino. Eh via! che motteggiomi
con esso voi.
Facchino secondo. Che motteggi?
Fazio. Che vogliono
questi facchin?
Bolognino. La lor improntitudine
fa che d’intorno non posso spiccarmeli.
Fazio. Che ha’ tu a far con lor?
Bolognino. Non ho bisogno.
Vedete che io davo lor licenzia;
ma son impronti. Andate via.
Facchino primo. Favole!
Non penso d’andar via, se non paghimi.
Fazio. Se tu non ha’ bisogno, perché levili
di mercato? a che fare?
Facchino secondo. Messer, toltoci...
Tu accenni?
Bolognino. Che accenno?
Facchino secondo. ... ha acciò portassimo
duo fasci.
Fazio. Che fasci?
Facchino secondo. Pur accennimi?
Duo fasci, si.
Bolognino. Burlavo.
Fazio. La vo’ intendere.
Perch’ha’tu tolto i facchin?
Bolognino. Deh! Lasciateli
andar. Ve lo dirò.
Fazio. Che t’importa essere
qui lor? Di’ su! che vo’ la cosa intendere.
Bolognino. Gli arò poi a pagar.
Fazio. Non porta.
Bolognino. Cambio...
Fazio. C’ha Cambio?
Bolognino. ... mi pregò che io menassili
a lui.
Fazio. Che ne vuol far?
Bolognino. Credo che sgomberi.
Ma non son stato a tempo, che servitosi
debb’esser d’altri ed ito via; che l’uscio
ha serrato a chiavistello (ponetevi
mente) e le finestre ancor (guardatevi)
sono serrate tutte.
Fazio. Oh! Che domine
vorrá dir questo?
Bolognino. Non so.
Fazio. Che accadutoli
può esser, ch ’un partito cosí subito
ha preso?
Bolognino. La pazzia l’ha tócco.
Fazio. Or mandali
via. Da’ lor qualcosa; e poi rendere
te li fará’da lui. Ma io dubito
non ci sia altro.
Bolognino. Che altro?
Fazio. Ov’è Albizo?
Bolognino. Oh! Ve l’avev’a dire. Egli aspettavi
al «Diamante», che ha un grandissimo
bisogno di parlarvi.
Facchino primo. Ora spacciatene.
Non fa per no’ star qui.
Fazio. Orsú! Accordali.
Facchino secondo. Chi n’ha pagar, messer?
Fazio. Ehi, dico! Escine;
da’ lor licenzia. E po’ ne va’ da Albizo;
di’ ch’i’ sarò or lá.
Bolognino. Oh! Gli era meglio
ch’andassi ora.
Fazio. Perché?
Bolognino. Non so la causa.
Ma vi voleva subito; e ciò imposemi
ch’i’ vi dicessi: che forse qualch’opera
avete a far.
Facchino primo. Chi ci paga?
Bolognino. Aviatevi,
che vi pagarò io.
Fazio. Fa’ quel che dicoti.
Non ti dar tanti impacci; ch’or ir voglione
in casa.
Bolognino. Oimè! ch’e’ vi troverrá Albizo,
che fardello fará con suo’ man proprie.
Senio spacciati!
Facchino secondo. Non bisogna fingere.
Pagaci, prima, e poi teco lamentati
quanto ti par.
Bolognino. Oh Dio! Che rimedio
sará il nostro?
Facchino primo. Pagaci. Pur forbice!
L’è quella bella.
Bolognino. Che vi venga il canchero!
Andatevi con Dio. Su! Levatemivi
dinanzi, ch’orama’ m’avete fracido.
Facchino secondo. E a te venga lo mal di san Lazzero!
Bolognino. Non vi vo’ pagar, dico.
Facchino primo. E co’ diavolo
fará’non ne pagare?
Bolognino. Ignorant’asino!
Facchino primo. E chiami asino me?
Facchino secondo. Dalli del cercine.
Or, cosi.
Facchino primo. Vo’ ch’empari a voler dondolo
de’ fatti nostri.
Bolognino. Ah! S’i’non fussi a l’uscio
del padron...
Facchino primo. Che faresti?
Bolognino. I’ vogl’irmene;
che, stando qui, sarebbe doppio scandalo.
Vi troverrò altrove.
Facchino secondo. Vo’ che trovici
allo «Frascato».
Facchino primo. Di calcagni pagaci!
Facchino secondo. Orsú! Quest’altra volta farem meglio.
Andiamone con Dio. Pazienza!
SCENA VII
Messer Rimedio, Girolamo ciciliano vecchi, Gianni servidore.
Messer Rimedio. La prima cosa, i’ vo’ ch’alia «Graticola»
andiam e domandiam con diligenzia
di lui; che, se per sorte ivi troviamolo,
state sicuro ch’i’ gli farò mettere
le man a dosso.
Girolamo. O messer Rimedio,
certamente io arò con voi tropp’obligo.
Messer Rimedio. Non vogli’ obligo alcun, che troppo increscemi
di voi. Vienne anco tu, Gianni.
Gianni. Eccomi.
Messer Rimedio. Quest’è la nostra strada.
Girolamo. Oh, per Dio! Eccolo
di qua.
Messer Rimedio. Qual è?
Girolamo. Colui e’ ha quella femina
con esso seco.
Messer Rimedio. Oh! Costui è un publico
ruffian. Io non ne vo’ piú. Aspettiamolo.
SCENA VIII
Bernardo Spinola, Spinetta fanciulla, Messer Rimedio,
Girolamo, Gianni.
Bernardo. Non temere, Spinetta; e non piangere:
che tu ha’ avuta una sorte grandissima,
che io t’abbi trovata. Meglio abbatterti
non ti potevi. Sta’ pur in proposito
di dir ch’i’sie tuo fratel. Questo è ottimo
partito ed ancor piú onorevole
per te.
Spinetta. Cosí farò.
Bernardo. Io son da Genova
venuto per maritarti; e a quest’Albizo
ti darò, se egli ti vorrá.
Messer Rimedio. Lasciateli
prima parlar a me; né cosí subito
vi scoprite.
Girolamo. Si ben.
Gianni. I’ farò il mutolo.
Messer Rimedio. Non dico a te; non ha’ a parlar tu. Giovane,
dove ne vai con cosí bella femina?
Bernardo. Qui presso, gentiluom. Perché voletelo
cosi saper?
Messer Rimedio. Per ben. Che apartieneti,
se ti piace?
Bernardo. Quest’è una mia sirocchia,
che gran tempo è ch’i* non la vidi; ed oggi
l’ho ritrovata.
Messer Rimedio. Onde sei?
Bernardo. Di Cicilia.
Messer Rimedio. Di qual cittá?
Bernardo. Palermo.
Messer Rimedio. Come chiamiti?
Bernardo. Giulio Fortuna.
Messer Rimedio. E ’l padre tuo?
Bernardo. Girolamo.
Messer Rimedio. Che fai in questa terra?
Bernardo. Adesso stomici
per mio sollazzo. E giá ben fui essule
da casa mia; ma or son fatto libero
e poss’ir dove i’ voglio.
Messer Rimedio. E la sirocchia
com’ha nome?
Bernardo. Spinetta.
Messer Rimedio. Or vo Girolamo,
che dite contr’a questo?
Girolamo. Che gli è un pessimo
assassino e un baro; ch’attribuiscesi
il nome del mio figliuolo che uccisomi
ha.
Bernardo. Che mi dite voi? Non vo’ rispondere
come meriteresti; ma sol dicovi
che io son udoi da ben.
Messer Rimedio. Non puoi essere
uomo da bene, se attribuisciti
il nome d’altri.
Bernardo. Come attribuiscomi
il nome d’altri? Io dico che son Giulio ^
Fortuna, da Palermo, e di Girolamo
figliuolo.
Girolamo. Mio figliuol non sei tu.
Bernardo. Sommelo,
cotesto, perché tu non se’ Girolamo
Fortuna.
Girolamo. Cosí non fuss’io, povero
me!
Bernardo. E ben pover! Guarda se sa fingere!
Come se, altra volta, non avessimi
parlato e detto che eri da Trapani!
Ma tu non mi trapanerai.
Girolamo. Io dissilo,
si, ma per iscoprir me’ le tuo’ trappole.
Bernardo. Trappole son le tua.
Messer Rimedio. Io dubito
ch’e’ non sien duo ribaldi.
Bernardo. Questa giovane
chiarirá il tutto; che, se sei Girolamo,
saresti ’l padre suo.
Messer Rimedio. Riconoscetela
voi, Girolamo? Guardate.
Bernardo. Si; guardala
bene.
Girolamo. Oh Dio! Io riconosco l’aria.
Questa è la mia figliuola, certo.
Bernardo. Proprio
tua figliuola? Ve’, se fa le stimite!
E quanto egli ha penato a riconoscerla!
Messer Rimedio. V non so che mi dire.
Bernardo. Oh! Discostati
un po’; non tante carezze.
Messer Rimedio. Lasciatemi
parlargli un po’ da me a lei.
Bernardo. Parlateli
quanto vi piace.
Girolamo. Si ben.
Messer Rimedio. Dimmi, giovane:
è questo il padre tuo?
Spinetta. Non so giá dirvelo;
perché, quando lo persi, io ero piccola.
Messer Rimedio. Che fu di lui?
Bernardo. Or questo ben desidero
ch’ella vi dica.
Messer Rimedio. Lasciate rispondere
a lei.
Bernardo. Di’ sii! E’ par che tu ti periti.
Qui non è alcun che t’abbia a far ingiuria.
Spinetta. Affogò, el poveretto.
Bernardo. Orsú! Non piagnere,
che ha’ trovato el fratello. Ch’altro intendere
volete?
Girolamo. Tu ne menti.
Bernardo. Anzi, tu mentine,
baro!
Messer Rimedio. Di grazia, lasciate il combattere,
s’el ver volete trovar.
Girolamo. Non desidero
giá altro.
Bernardo. Né anch’io.
Messer Rimedio. Dunque, lasciatemi
parlar quietamente.
Girolamo. Contentissimo
son io.
Bernardo. Ed io.
Messer Rimedio. Dimmi un po’: vedestilo
affogar, tu?
Spinetta. Veddi la nave propria,
o v’era, andar in fondo.
Bernardo. Dunque, essere
non può giá qui.
Messer Rimedio. Che dite or voi, Girolamo,
a questo?
Girolamo. Dico che vedde somergere
una fusta ove io fui, che verissimo
è questo; ma di quella giá cavatone
ero stato.
Bernardo. Oh! Gli ha trovata la gretola
ond’uscir.
Messer Rimedio. Per mie’ fé’, ch’i’ son in dubbio
a chi mi debba di questi duo credere.
Bernardo. Ascoltate, gentiluomo, di grazia.
Gli è, in questa terra, un altro testimonio
che, bisognando, proverrá il medesimo.
Girolamo. Sará un tristo; ch’e’ ribaldi sogliono
favorirsi l’un l’altro.
Bernardo. Tu ribaldo
sei, dico, e un truffatore.
Messer Rimedio. Ecco a combattere?
Girolamo. E chi sará costui?
Bernardo. È un mio fedelissimo
servidor che fu anco di Girolamo
mio padre.
Messer Rimedio. Non sará fuor di proposito.
Gli è ben che noi l’udiamo.
Girolamo. Come chiamasi
questo tuo servidor?
Bernardo. Piro si nomina,
piamontese.
Girolamo. E Piro è vivo?
Bernardo. E trovasi
in questa terra.
Girolamo. Orsú! Piro producasi:
e, se non mi conosce per Girolamo
Fortuna, siemi fatto quel ch’i’ merito;
ma, se dice giá mai che ei sia Giulio
mie’ figliuol, i’ vo’ certamente credere
non esser piú ch’i’ son.
Bernardo. Questo fia facile.
Girolamo. Si. Ma non sará Piro, poi.
Bernardo. Veggasi.
Messer Rimedio. Veggasi: e’ dice ben.
Bernardo. Orsú! Lasciatemi
ir con mie’ sorella.
Girolamo. Questo non piacemi.
La mie’ figliuola vo’ i’ qui. Tu vattene
dove ti pare.
Bernardo. E tu ritener credimi
la mie’ sorella? Non fie ver; non usansi
questi modi, in Firenze. Domandatela,
gentiluom, se vi piace, se fratello
gli sono; e i’ son contento al tutto starmene
al detto suo.
Messer Rimedio. Che di’, fanciulla?
Spinetta. Dico
di si; ch’è mio fratel.
Bernardo. Che testimonio
altro volete?
Girolamo. Io son tuo padre?
Spinetta. Dubito
di questo, che non posso riconoscere
mie’ padre.
Girolamo. Né manco puo’ riconoscere
il fratello. Ti sei lasciata svolgere,
meschina te! perché tu non consideri
che fine sará ’l tuo.
Messer Rimedio. Orsú! Non piagnere.
Girolamo. L’ha ragion. I’ ancor tener le lagrime
non posso.
Bernardo. Non facciam qui tante storie.
Lasciatem’ir pel servidor.
Messer Rimedio. Ascoltami,
fratel. I’vo’ che tu ti lasci svolgere
a me e che ti attenga al mio consiglio,
r vo’ che tu mi lasci questa giovane,
o tuo’ sorella o altri che sia (odimi),
qui, in casa mia: che si stará con mogliama,
e non con altri, in fin che questo dubbio
sia resoluto se tu se’ quel Giulio
che tu ci di’ e se questo è Girolamo
che tu nieghi e che egli afferma d’essere;
e, se tu ara’ ragion, io promettoti,
da gentiluomo ch’i’ sono, di renderla
a te proprio. Che ne di’?
Bernardo. Che quietomi,
se piace a lei.
Messer Rimedio. E tu che di’?
Spinetta. Ahi misera
me! Io farò quel che vi piace.
Messer Rimedio. Or vattene
qua in casa.
Bernardo. Va’ pur: che io sarò subito
qui con Piro; ed alfin sará’lietissima.
Messer Rimedio. Gianni, chiama le serve, che la menino
su. s,
Gianni. Olá, Pasqua! Mena questa giovane
dalla padrona, su, nell’anticamera.
Messer Rimedio. Or va’ via a tuo’ posta. E fa’ che menici
qui il servidor, che si ritruovi il bandolo
di questa matassa. E noi aspettiamoti
qui fuori.
Bernardo. Ecco ch’i’ vo.
Messer Rimedio. E voi, Girolamo,
siate contento a questo?
Girolamo. I’ vi ringrazio
e contento ne sono; ma i’ dubito
che non verrá altramente.
Gianni. Deh! Lasciatemi
dir duo parole.
Messer Rimedio. Dinne venti, e spacciati.
Gianni. Padron, non bisogn’altro testimonio,
a provar che quel tristo non è Giulio,
che Alamanno vostro, ch’amicissimo
gli è.
Messer Rimedio. E a chi?
Gianni. A Giulio, dico.
Girolamo. A Giulio
mio figliuolo?
Gianni. A Giulio di Girolamo.
Messer Rimedio. È dunque in questa terra?
Gianni. E conoscetelo.
Ma che dich’io? Gli è a Roma, ora.
Messer Rimedio. Dov’abita,
poi ch’il conosco?
Gianni. Con Fazio Ricoveri.
Messer Rimedio. E chi sta altri, con Fazio Ricoveri,
che un genovese?
Gianni. Cotestui è Giulio.
Messer Rimedio. Che di’ tu «Giulio», pazzo? che domandasi
Bernardo.
Gianni. Ben, be’, padron: domandatene
pur Alamanno; che, benché egli chiamisi
Bernardo, gli è quel ch’i’ vi dico. Statene
sopra di me.
Messer Rimedio. Perché non lo dicevi
allor che c’era colui?
Gianni. Io volsivi
obidir. Vo’ m’imponesti ch’i’ stessimi
cheto. Io stetti.
Girolamo. Deh! Cerchiam, di grazia,
di questo vostro figliuoli che struggermi
sento.
Messer Rimedio. Si bene. Gianni, va’ via. Cercane
a casa il mio fratello; e, non trovandolo
ivi, va’ po’ ne’ luoghi dov’è solito
usar; e, se lo truovi, di’ che subito
venga in piazza o in mercato, che saremoci.
Gianni. Sta bene.
Messer Rimedio. Io vogli’ ora ch’andiamone
a trovar questo Fazio; e da lui intendere
potremo il tutto.
Girolamo. Andiam, ch’i’ v’ho tropp’obligo.
SCENA IX
Albizo giovanetto, Bolognino servidore.
Albizo. È egli nella via? o altri vedemi
uscir di casa, che possa po’ dirgnene?
Non veggio alcun. Oh che sorte grandissima
è stata questa! O Bolognin carissimo,
per che cagion innanzi non mi capiti,
acciò che teco si fatta letizia
possa un poco sfogar? Oh! Per Dio, eccolo;
eccol che viene.
Bolognino. I’ non fu’ mai coll’animo
tanto sospeso né con tanto dubio
quant’i’ son or, non sapendo quel ch’Albizo
s’ha fatto.
Albizo. Di me parla.
Bolognino. E, perché Fazio
ha voluto la chiave, fa ch’i’ dubiti
di qualche mal.
Albizo. Che mal? che va benissimo.
Bolognino. Oh padroni Siate qui, ch? come avvennevi?
trovòvi Fazio a far fardel?
Albizo. Non credere
ch’i’ sie, ne’ fatti mie’, si poco cauto.
Com’i’ sentii la chiave in l’uscio mettere,
imbucai sotto ’l letto; ch’era in camera
per apostar quel ch’i’ potessi in pegno
mandare. E quivi mi messi: con animo
di starvi tanto ch ’e’ partissi, e poscia
seguir il fatto mio.
Bolognino. Che fatto?
Albizo. L’opera
che far disegnavamo. Ma proveddemi
la fortuna di meglio assai.
Bolognino. Che «meglio»?
Albizo. Tanti scudi ch’a pena posso muovermi
con essi a dosso. La borsa, le maniche,
il petto anco n’ho pieno.
Bolognino. Eh! La baia
volete meco.
Albizo. Te voglio la baia?
Cerca anco qui; e qui.
Bolognino. Oh! Che miracolo
è questo?
Albizo. Amor vuol farmi felicissimo
sopr’ogni amante.
Bolognino. Ditemi, di grazia,
come facesti averli; ch’i’ strabilio.
Albizo. Non tei vo’ dir, se prima non promettimi
di noi dir mai.
Bolognino. Dunque, di me si dubita?
Albizo. Che so io? L’è cosa d’importanzia.
Bolognino. Eh! che m’avete stracco!
Albizo. Orsú! Vo’ dirtelo;
i’ son contento. Or odi. E’ tornò el vecchio,
con una borsa piena, pur con animo
di riporla, pens’io, nello scrittoio.
Ma, come fu con essa giunto in camera,
s’accorse non aver le chiave (e credomi
l’avessi fuor lasciate in qualche fondaco
o in qualche banco dove spesso bazzica):
e, per non ritornar fuor con quel carico
di quella borsa, per certo credendosi
ch’en casa non fussi persona, messeli,
cosi come gli ave’, sotto la coltrice
del letto e, senza far altro, di camera
s’uscí; e, tratta la chiave de l’uscio,
a cagion che da altri non potessesi
aprir, lo tirò a sé ed andò subito
fuor, da l’uscio di dietro. Io, che sentitolo
avea toccar il letto, come giovane
desideroso di veder e ’ntendere
quel che ave’ fatto, alzai dipo’ la coltrice
e trova’ quella borsa piena.
Bolognino. O Albizo,
che sorte è stata questa!
Albizo. E, resolutomi,
senza pensarvi piú su, di servirmene
a’ mia bisogni, ne cavai...
Bolognino. Che? l’anima?
Albizo. ...l’anima, tu l’ha’ detto; e riempiegnene
di rena.
Bolognino. Oh! To’ quest’altra!
Albizo. E serra’ l’uscio
come l’ave’ lassato; ch’empossibile
è che ma’ pensi ch’uom alcuno abbiali
possuti aver.
Bolognino. Mi piace. Ma che numero
sono? Ditemi ’l vero.
Albizo. Oh! Son un numero
grande! I’ non gli ho contati; ma ben passano
dumila scudi.
Bolognino. Voi siete richissimo.
Or non bisogna cercar di piú trappole
per far danar.
Albizo. No; che ce n’è dovizia,
ringraziato sia Dio.
Bolognino. Non maraviglia
che mi tolse la chiave. Di non perderli
temea; che gli è avvenuto. Ma che diavolo
ha egli a dir, se non li truova?
Albizo. Pensivi
egli. Facciam i fatti nostri.
Bolognino. Faccinsi.
Albizo. Andiamo alla Aldabella; ch’i’ delibero
che si contenti.
Bolognino. Andiamo.
Albizo. E tu la mancia
arai, non dubitare.
Bolognino. Io non ne dubito;
basta a me che siate contento.
Albizo. Credolo.
Ma non perdiam pivi tempo. Andiam via subito;
ch ’a dirti il vero, io non credo mai vivere
tanto ch’i’ veggia la Spinetta e parligli.
Bolognino. Andiam, ch’orma’ presto l’arete in braccio.
Ma sta’ ! Ecco di qua quella stregaccia
dell’Aldabella.
Albizo. L’è dessa. Che domine
vuol dire, che l’è cosí fuori? Io dubito
di qualche male.
Bolognino. Sempre que’ che amano,
ancor che siano in possession, temano.
Albizo. La viene in qua. Aspettiamla.
Bolognino. Di grazia.
SCENA X
Aldabella, Albizo, Bolognino.
Aldabella. Che ho io a dir, or, come io trovo Albizo?
Che la Spinetta, lasciandosi svolgere
alla prima, n’è ita con quel giovene?
Di grazia. Che scusa troverò io che li cappia,
per la qual io gli possa dare a credere
di non l’aver tradito? Ma oimè! Eccolo.
Bisogna far del cuor ròcca. Or aiutati,
lingua, se mai valesti; ch’a proposito
è ora. Io voglio in molta angoscia fingermi
e far l’afflitta. Oh me meschina! Oh povera
me! Come farò io? e con che animo
ho io andar inanzi al mio caro Albizo?
Albizo. Ella si duole.
Bolognino. E’ par che la vi nomini.
Albizo. Stiamo ascoltar.
Aldabella. Come potrá ei credere
che la non abbia avuto pazienzia
d’aspettarlo?
Albizo. Oimè!
Aldabella. Questo disordine
ha fatto ei col suo si lungo indugio.
Albizo. O Bolognino, io son morto.
Bolognino. Oh rea femmina!
Costei ve l’ha appiccata.
Albizo. Oh sorte pessima!
Aldabella. Ma eccolo qua appunto. Dio vi consoli.
Bolognino. Si; che tu l’hai con le tue divine opere
in modo concio che n’ha un grandissimo
bisogno.
Aldabella. Or to’ or questa! Io son causa,
dunque, d’ogni suo male?
Bolognino. Tu, si: hottelo
saputo dir, ribalda?
Albizo. Dove trovasi
la mia Spinetta?
Aldabella. Io credo che debbe essere
tornata a casa.
Bolognino. Dice anco «debbe essere»!
Albizo. Come «tornata a casa»? Adunque, avetela
lasciata andar, senza aspettarmi?
Aldabella. Albizo,
non ho potuto far altro, io.
Bolognino. Credolo.
Aldabella. Poi che l’ebbe aspettato con disagio
dua o tre ore, gli venne una fregola
di tornarsene a casa che il fistolo
non Parebbe tenuta.
Bolognino. È da credere!
Albizo. Ehi, mona Aldabella! Io so che vo’ me la
avete fatta netta!
Bolognino. Va’ ! Vergognati,
poltrona!
Aldabella. Adunque, voi pensate, Albizo,
ch’i’ ne l’abbia mandata?
Albizo. Io son certissimo
che voi n’avete fatto ad altri copia.
So come sete fatta.
Aldabella. Oh! Questo vienmisi
per la mia fatica?
Bolognino. Anzi, verrebbesi,
piú presto, una cavezza.
Aldabella. Tant’è, Albizo,
di cosí fatta moneta si pagano
e’ mie’ servigi, ch?
Albizo. E che servigio
m’avete fatto?
Bolognino. Si, padron: pagatela
de’ suo’ servigi.
Aldabella. Dice «che servigio» !
Chi fece alla Spinetta voltar l’animo
a’ fatti vostri? chi la fece uscirsene
di casa per venir con voi?
Albizo. Che giovano
coteste cose?
Aldabella. Essendo voi sollecito,
si come dovevate, vi giovavano,
Albizo, pur assai. Ora doletevi
de’ casi vostri.
Albizo. Ah Dio!
Aldabella. Ma potrebbesi
ancora a tutto rimediar.
Bolognino. Potrebbesi
il mal che Dio ti dia!
Aldabella. Non vo’ rispondere
a te, per ora.
Albizo. E come potrebbesi
rimediar, ora?
Aldabella. No, no. Io son la pessima
e la ribalda!
Albizo. Dite su, di grazia.
S’ella è tornata a casa, che rimedio
ho io?
Bolognino. Eh! Non li date piú udienza,
padron. Andianne con Dio. Lasciatela
nella malora, la ruffiana.
Albizo. Taci tu.
Aldabella. S’i’ sono una ruffiana e le mie opere
non fanno piú per voi, dunque lasciatemi
andare; non mi date piú molestia.
Albizo. Udite, mona Aldabella.
Aldabella. Lasciatemi
andar, dico.
Albizo. Udite un po’, di grazia.
Aldabella. Non voglio udir chi sempre piú m’ingiuria
con le parole.
Albizo. Orsú! Perdonatemi,
s’i’v’ho ingiuriata. La doglia incredibile
ch’i’ ho al cuor m’ha fatto uscir dell’ordine.
Abbiatemi per iscusato.
Bolognino. Oh povero
giovane!
Albizo. State a udire; voltatevi
in qua. Orsú! Non si può ricorreggere
questo errore?
Aldabella. Puossi: e per tal causa
era fuori.
Albizo. Per quale?
Aldabella. Voleva irmene
verso la casa; e veder se possibile
era parlarli di nuovo e fare opera
che la tornassi.
Albizo. E ciò saria possibile?
Aldabella. Saria; ma vo’ m’avete in modo torbida
fatta la fantasia ch’io sto in dubbio
di quel e’ ho a far.
Albizo. Deh, madre mia! Fidatevi;
che non vi sarò ingrato.
Aldabella. Si! si! Datemi
parole pur assai.
Albizo. Tenete: eccovi
fatti. Or andate.
Bolognino. Oh che li venga il canchero!
De’ tradimenti ha premio.
Albizo. E, se non bastano
questi, ve ne darò piú.
Aldabella. Ogni piccola
cosa mi basta. Io voglio andar. Ma, o Albizo,
farete, per un’altra volta, intendere
a cotestui che con piú riguardevole
modo favelli altrui; e questo massime
colle donne da bene. E riturisi
quella boccaccia; ch’ognun non fia facile
a sopportar, com’io, che a ciò sforzami
l’amor ch’i’ porto a voi.
Albizo. La penitenza
gli farò fare.
Aldabella. Io vo. E voi lasciatevi,
poi, riveder.
Albizo. Umbé?
Bolognino. Deh possa nascerli
tutti e’ mali! Ella v’ha straziato e fattovi
il peggio e’ ha potuto, e voi donatili
avete i danar vostri! Or, se avessi vi
fatto quel che dovea, che aresti datole?
La vita, mi credo io.
Albizo. La vita e l’anima.
Bolognino. Sta bene.
Albizo. Ma che ne credi?
Bolognino. Il medesimo.
Albizo. Della Spinetta, dico.
Bolognino. Ch’abbia fattane
copia ad un altro ed a voi nuove trappole
vadia tendendo.
Albizo. E’ potrebbe pur essere,
come la dice, che ella ritornatasi
fussi a casa il padrone.
Bolognino. Potrebbe essere;
ma non lo credo: benché, il mio credere,
o no, importa poco. Aspettiam l’esito
di questa cosa.
Albizo. Bolognin, dch! Seguita
un po’ le sua pedate e considera
tutto quel ch’ella fa; ma con riguardo,
ch’ella non se ne accorga. Io, intanto, voglione
andar a casa Silvio acciò che posivi
questi danar che m’hanno stanco.
Bolognino. Credolo,
senza il giuriate.
Albizo. E di poi farai d’essere...
oh! dove poss’io dir, che non ritrovici
mio padre?... di lá d’Arno, in Santo Spirito.
Bolognino. Tanto farò.
Albizo. Oh infelice Albizo!
Come si tosto si è ogni mia gioia
conversa in doglia! Che partito prendere
debbo io adesso? Aspetterò se opera
alcuna fa costei o se mi strazia,
si come io ho paura. E poi, per ultimo
rimedio, me n’andrò dinanzi a Noferi,
narraròlli ogni cosa e gitterommegli
nelle braccia. Potrebbe di me increscerli
di sorte che, come padre, tal opera
farebbe che sarei alfin felicissimo