Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO III

SCENA I

Piro servidore, Bernardo Spinola vero suo padrone.

          Piro.  Bernardo, padron mio (se però lecita
          è la domanda), ditemi, di grazia:
          che vuol dir che vi partisti da Genova,
          giá fa un mese, e partisti con animo
          solo di cercar qui di quella povera
          figliuola della Spinetta ed, in cambio
          di venir qui, sendoci vicinissimo,
          vi voltasti poi a Roma d’ove quindici
          di siete dimorato senza causa;
          ed, or che siate qui, che giá si possano
          dir quattro giorni, mi par ch ’ogn’altr’opera
          piú presto facciate?
          Bernardo.  Poi che vuoi intendere
          tutti e’ mia affari, ancor che convenevole
          non sia, io son contento.
          Piro.  Perdonatemi,
          che questo mi fa dir l’amor grandissimo
          ch’i’ porto alla Spinetta; che mio carico
          mi par, sapendo io sol la sua disgrazia
          alla qual, com’i’v’ho detto, trovatomi
          sono.
          Bernardo.  Non piú. I’ so che se’ amorevole
          e son contento d’ogni cosa renderti
          buon conto. Vuo’ tu altro?
          Piro.  Per riprendervi
          giá non ve ne domando.

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          Bernardo.  Ascolta. Voglioti
          dire ogni cosa. E prima vo’ che sappia
          che Giulio, giá tuo padron, amicissimo
          mi è. Ed a Pisa facemmo amicizia
          quando ciascun di noi vi stette a studio,
          che è giá un tempo; benché di Girolamo
          suo padre non avev’io notizia
          perché mai non lo veddi. E, quando ’l tempo
          fu che gli ebbe bando di Cicilia
          con taglia dietro, al primo volo, a Genova
          se ne venne, a casa mia; e, lasciatimi
          mille scudi che avea, ch’i’ dessi a cambio
          per lui, si diparti; e qui in Italia
          mi disse di voler fermarsi, l’abito
          e ’l nome proprio e ’l casato mutandosi
          acciò non fussi conosciuto.
          Piro.  Piacemi.
          Bernardo.  E cosí fece. Ed hammi scrítto lettere
          pur assai, che l’ho avute tutte, dandomi
          aviso come era qui, benché dettomi
          non ha con chi si stia né come chiamisi:
          onde non gli ho mai potuto riscrivere,
          se non due volte che non so che uomini
          mi mandò a posta; né ancor notizia
          ebbi con chi e’ fussi, né del nome,
          perché di lor non si fidò.
          Piro.  Gli è cauto.
          Bernardo.  Ma io ho atteso, come fedelissimo
          amico suo, a levargli la taglia
          ed a far si ch ’e’ possa nella patria
          sua ritornar e riaver le rendite
          ch’ave’ perdute; ed allora promessoli
          avea venir qui dove trovavasi.
          Ora, per mezzo del principe Doria,
          l’ho ottenuto; ed apresso di me trovomi
          la patente come gli è al tutto libero
          da ogni pena.

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          Piro.  Oh come ricreatomi
          avete!
          Bernardo.  Sta’ pur a udire; lasciami
          finire.
          Piro.  Dite pure.
          Bernardo.  E, in un medesimo
          tempo o in circa, di corte mi furono
          mandate di questo fatto le lettere
          e tu a mia casa arrivasti, acconciandoti
          meco per servidori da cui notizia
          ebbi di sua sorella, che tutto erami
          ascosto. E cosí feci proposito
          venir di volo qua dove dua cause
          a un tratto, come odi, mi tiravono.
          E, quando a punto io sono in sul muovermi,
          ho lettere da Giulio el quale scrivemi
          esser a Roma: ond’io, per questa causa,
          prima che io venissi qui in Fiorenzia,
          presi la volta di Roma.
          Piro.  Or intendola.
          Bernardo.  Quivi, poi ch’i’ fu’ giunto, benché stessimi
          cheto, ne ricercai con diligenzia:
          dove non lo trovando, ferma’ l’animo
          di venir qui per quest’altro negozio
          della. Spinetta. Ed i danar, che ’n guardia
          ho dato a l’oste, che oggi ascendono
          a dumila ducati, son que’ propri
          che Giulio mi lasciò, e’ ho dato a cambio
          sempre per lui, tal ch ’a questo numero
          sono arrivati; e serviran, trovandola,
          per maritarla: il che piglierò animo
          di far, ancor ch’i’ non trovassi Giulio.
          Piro.  Or. dich’io, padron mio, che siete ottimo
          per lo amico e ogni cosa con prudenzia
          avete fatto.
          Bernardo.  Or, s’alquanto indugio,

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          il fo, ch’i’ vo cercando del continovo
          di Giulio; ed anco, a dirti il vero, io trovomi
          in un po’ di travaglio.
          Piro.  Oh! Quest’intorbida
          bene il tutto, padron. Ma che travaglio
          è il vostro?
          Bernardo.  Te lo dirò, po’ che apertomi
          son teco d’ogni cosa.
          Piro.  Dir potetelo
          liberamente, perché fidelissimo.
          mi tro verrete sempre.
          Bernardo.  Una non piccola
          passion, da tre giorni in qua, mi tribola.
          Piro.  Che passion? Avete forse lettere
          da casa vostra avute che contengono
          qualche fallimento, come son soliti
          spesso e’ mercanti?
          Bernardo.  No, Dio! Altro affliggemi
          Piro.  Che altro?
          Bernardo.  Amore.
          Piro.  Amor? Come è possibile
          che si tosto vi siate, qui in Fiorenzia,
          innamorato?
          Bernardo.  Ti fai maraviglia
          di questo, ch? che le piú belle giovani
          non ho ancor visto altrove?
          Piro.  È ella nobile
          o pure...?
          Bernardo.  Che ti pensi? Nobilissima:
          che altra non aria forza di muovermi.
          Piro.  Oh! Mi dispiace.
          Bernardo.  Oh! Perché?
          Piro.  Perch’ostaculo
          sará alla Spinetta. E poi dificile
          è ottenere quel che si desidera,
          quando è di nobil sangue.

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          Bernardo.  Si! difficile!
          Mi piacque. Non sai tu che ’l tutto è facile
          a chi vuole? Po’ io mi truovo in termine
          buono, oramai. I’ gli ho tal can da giugnere
          lasciato a spalle che poco può correre
          che la non resti in preda.
          Piro.  E chi?
          Bernardo.  Una femina,
          la piú suflciente che in Italia
          trovar si possa, che fa l’essercizio
          di rivendere spoglie. E promettemi,
          infra duo giorni, far colla sua industria
          ch’arò l’intento mio.
          Piro.  Deh! Abbiatevi
          cura, padron: che, ’n questa cittá, abita
          gente astuta e sottile; e molto agevolemente
          potre’ci un forestier incorrere
          in pericolo. Andate adagio a credere;
          e massimamente a donne.
          Bernardo.  Orsú! Lasciane
          la cura a me.
          Piro.  Ho voluto avertirvene.
          Bernardo.  Ha’ fatto bene. Ma oh! oh! Discòstati
          un poco. Ecco colei che questo carico
          s’ha preso. Vo’ poter seco alla libera
          parlar; che so mi cerca.
          Piro.  Ecco, discostomi.
          Deh! Ve’ figura ch’è questa! Ed ei credegli!
          Che s’i’ credo giá mai che tre pallottole
          accozzi in un bacin, ch’i’ possa rompere
          il collo! Or dich’i’ ben ch’Amore gli uomini
          acceca si che piú nulla discernono.

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SCENA II

Bernardo, Aldabella ruffiana, Piro servidore.

          Bernardo.  Buon di, madonna Aldabella.
          Aldabella.  Oh! Trovatovi
          ho a tempo! Dio vi dia il buon di e facciavi
          contento, messer mio.
          Bernardo.  Le vostr’opere
          piú contento e felice far mi possono
          ch’altro ch’ai mondo sia.
          Aldabella.  E farannovi.
          Bernardo.  Certo?
          Aldabella.  Si, certo, non essendo misero.
          Piro.  Odila cantare. Or costi proprio
          t’aspettav’io. L’è unguento da cancheri.
          Bernardo.  Ah madonna! Temete ch’i’ sia misero?
          Aldabella.  Eh! Mi motteggio.
          Bernardo.  Son libéralissimo,
          dove fa di mestier.
          Aldabella.  Ben lo dimostrano
          la cera e le parole vostre.
          Bernardo.  Avetemi
          voi a dir nulla?
          Aldabella.  Oh! Cose grandissime!
          Bernardo.  Dite, di grazia, ch’i’ mi struggo.
          Aldabella.  Livia
          piú ama voi e piú anco desidera
          con voi trovarsi, un giorno, che voi proprio
          non fate trovarvi con lei.
          Bernardo.  Io dubito
          non mi burliate.
          Aldabella.  Ah! Io non son solita
          burlar con vostri par.
          Piro.  To’ s’ella tiralo
          su bene! Oh povero uomo!

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          Bernardo.  Che? Desidera
          trovarsi meco? che a pena vedutomi
          ha?
          Aldabella.  Che? Non vi ha veduto? che, domenica
          mattina, fece, cosí lungo spazio,
          sempre a l’amor con esso voi?
          Bernardo.  E dettolo
          ha?
          Aldabella.  Manca!
          Bernardo.  Oh traditora!
          Aldabella.  Egli proprio
          me l’ha detto.
          Bernardo.  Che dite?
          Aldabella.  Che voi proprio
          ve ne accorgete pure che la spasima
          di voi. Ma vo’ volete un po’ la baia
          e vi piace il cianciar; che sollazzevole
          siete.
          Piro.  Oh! To’ quest’altra!
          Bernardo.  Questo lascisi
          un po’ da canto. E dite: che disegno
          fate voi, finalmente, che io abbia
          quel ch’i’ desidro?
          Aldabella.  Andavo or a conchiudere
          el tutto; e vi prometto, innanzi vespero,
          che l’arete.
          Bernardo.  Ehi, mia madre!
          Aldabella.  Di grazia,
          state discosto, ch’i’ non abbia biasimo
          per voi; che mi sarebbe malagevole
          andar poi pelle case delle nobili
          persone, come io fo: che mai tenutami
          non è porta.
          Piro.  Oh! Questo è ben da credere,
          certo; ma delle case delle publiche.
          Bernardo.  Ah! Dite ben: io errava. Vo’ fingere

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          comprar da voi qualcosa; e questa cuffia
          piglierò in man, mentre parlate. Or ditemi
          come volete far.
          Aldabella.  L’ha al monasterio
          di Santa Verdiana certa pratica;
          che vi è stata in serbanza. E fa proposito
          dir di volervi andar: ond’io, faccendogli
          compagnia, la merrò, in quello scambio,
          a casa mia; ed ivi, a vostro comodo,
          potrete esser insieme.
          Bernardo.  Ella acconsentevi?
          Aldabella.  Messer si.
          Bernardo.  La madre che dice?
          Aldabella.  Sentesi
          male; né potendo ir fuora, a me fidala.
          Piro.  Per Dio! La fida la lattuga a’ paperi,
          se gli è vero.
          Aldabella.  E per questo anco è ’mpossibile
          che la mandi la serva che continovamente
          gli sta d’intorno.
          Bernardo.  Bene.
          Aldabella.  Or gitene
          a far colezion, e poi verretene
          soletto lá.
          Bernardo.  Verrò !
          Aldabella.  Ma state. Uditemi.
          I’ mi sono scordata che bisognami
          aver la cioppa indosso, ed io l’ho ’n pegno;
          e, quel ch’è peggio, per ora non possola
          riscuotere.
          Piro.  Che ti dissi?
          Bernardo.  E che mancavi?
          Aldabella.  Per quanto io l’ho impegnata; che un picciolo
          non ho.
          Bernardo.  Quanti?
          Aldabella.  Duo scudi.
          Bernardo.  E duo scudi eccovi.

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          Piro.  Gli ha forte scudo: egli regge benissimo
          alle frecce. Ti so dire che passano
          le cose bene!
          Bernardo.  Accade altro?
          Aldabella.  Sarebbemi...
          ma mi perito a dirlo... necessario
          un fazzoletto, che l’ho qui da vendere;
          e per un scudo are’ lo, che vai dodici
          lire o piú.
          Piro.  State forte alle botte.
          Bernardo.  Eccovi
          un altro scudo.
          Piro.  E’ regge. Gli è acconcio
          come Dio vuol!
          Bernardo.  Volete altro?
          Aldabella.  Or non chieggovi
          altro. Andate a mangiar, e poi sollecito
          siate al venir a casa. E ricordatevi
          delle promesse fatte.
          Piro.  Diavol, empila!
          Bernardo.  Non mancherò. Ma debb’io mandar l’ordine
          per desinar?
          Aldabella.  Non fia fuor di proposito.
          Piro.  Buono! Questo mancava, ed ei ricordalo!
          Bernardo.  Orsú! Tutto farò. Addio.
          Aldabella.  Raccomandomi
          a voi.
          Bernardo.  Piro! su! vienne; che lietissimo
          sono.
          Piro.  E siate ancor molto piú scarico
          che dianzi.
          Bernardo.  Te ne avedi, ch?
          Piro.  Si, ma dubito...
          Bernardo.  Di che?
          Piro.  ...di male.
          Bernardo.  Eh! che sei una bestia.
          Vienne, che ti vo’ dir tutto per agio.

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SCENA III

Aldabella sola.

          Vedi che pur tanto ho saputo fíngere
          e cicalar ch’alia fin pur cavatone
          ho questi scudi! Ed ancor, se riescemi
          quello e’ ho disegnato, piú di quindici
          penso trarne da lui; ed un buon ordine
          arò per desinare. Di questi uomini
          mi giova aver per le man che si credono
          ciò ch’è lor detto. E’ son tre di che giunse
          qui: e, vista la figliuola di Fazio
          Ricoveri, ch’è uomo molto nobile
          e benestante, si dá ad intendere
          di lei cavarsi le sue voglie; come
          Firenze fussi tutto un luogo publico,
          come forse debb’esser la sua patria!
          Qui non bisogna abaiare. Io ben dettogli
          ho far gran cose. E, benché pratichissima
          sia nel mestiero e, con questo essercizio
          della rivenditora, mi sia lecito
          entrar per tutto, non però tant’animo
          ho, sapendo chi l’è, che io parlassigli
          cosa alcuna di lui. E ’l mio disegno
          era, poi ch’i’ avevo trattenutolo
          quattro o sei settimane, e anco cavatone
          qualche fiorin, per mostrar di conchiudere
          qualcosa, un giorno, porli a canto al buiouna
          mia cornar che spesso servemi
          in simil cose. E certo riuscitomi
          saria. Ma la fortuna favorevole
          m’è stata troppo: ch’i’ ho preso pratica
          d’una fanciulla della quale Albizo,
          fratel di quella proprio di cui spasima

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          questo bel cero, è innamorato; e pregami
          ch’i’gne ne faccia aver. E giá sviatola
          ho in tal modo che staman promessomi
          ha venirsene fuor, mentre si desina.
          E farallo da ver, perché la povera
          figliuola non ha qui persona e, dove
          la è, è fante; ed altro non desidera
          ch’uscir di quella casa: benché, nobile
          dice essere e che venne di Cicilia.
          I’ la vo’ dar a costui in cambio
          della sua innamorata. E son certissima,
          ancor che con lei stia, che per conoscerla
          non è: massimamente ch’i’ vo’ ch’Albizo
          suo amante mi porti quella propria
          cotta di ciambellotto che, domenica,
          aveva la sorella; che si piccolo
          fu ’l tempo che la vide che i’ penso
          che piú non la raffiguri. Ed il cambio
          non sará giá peggior; né ’l saprá Albizo
          mai, tanto la saprò far netta. Oh! Eccolo
          di qua, col servidor. Colla medesima
          ésca voglio pigliar oggi dua tortore.

SCENA IV

Albizo, Bolognino, Aldabella.

          Albizo.  Tutto gli ho detto. Ed ella anco promessomi
          ha, e al fermo; in caso pur che dieseli
          la sua mercede.
          Bolognino.  Credol. Senza premio
          non si direbbe un paternostro. Vedila
          lá, che viene alla volta nostra. Andiamole
          incontro.
          Albizo.  Andiam. A Dio piaccia che l’abbia,
          com’è l’usanza sua, fatta buon’opera.

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          Bolognino.  Non può una ruffiana far buon’opera.
          Albizo.  S’intende, buona per me; che non curomi
          del resto.
          Bolognino.  Deh! Ve’ come e’ passi annovera!
          Aldabella.  Die vi dia el buon di, Albizo.
          Bolognino.  E io rimangomi
          nelle secche, ch?
          Albizo.  Buon di.
          Aldabella.  Oh! Perdonatemi,
          ch’i’ mi pensai col saluto medesimo
          salutar anco voi.
          Albizo.  Si; che dependere
          da’ lor padroni e’ servidori sogliono.
          Bolognino.  No; che, mangiando voi, non potre’ empiermi
          però il corpo.
          Albizo.  Quando io in buon essere
          mi troverrò, stara’ anco tu benissimo.
          Bolognino.  Io lo so; e con lei burlava.
          Albizo.  Or ditemi
          un poco, mona Aldabella: in che termine
          è la mia cosa?
          Bolognino.  Or cosi. Questo importaci
          piú che le burle.
          Aldabella.  Ho fatta tutta l’opera
          che vi promessi.
          Albizo.  Che?
          Aldabella.  Ch’a l’ora dettavi
          sará a casa mia. Basta?
          Bolognino.  Ehi, gioia
          mia!
          Albizo.  Io vi resto obligatissimo.
          Aldabella.  Albizo, le parole non mi sogliono
          empiere il corpo.
          Bolognino.  Si: le donne vogliono
          fatti e non parole.
          Albizo.  Io paratissimo
          son darli fatti a ogni mò.

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          Aldabella.  Se datomi
          innanzi non mi è quel che promessomi
          è stato, non venite; ch’i’ son d’animo
          che ’n casa mia non entriate.
          Albizo.  Credetemi,
          ch’i’ non mi son per partir, non pagandovi
          quel e’ ho promesso.
          Aldabella.  Ciò non m’è bastevole.
          Se vo’ non vi partissi mai, debbomi
          restar con le man vote?
          Bolognino.  Di che dubiti?
          Hatt’egli infino a qui mancato?
          Aldabella.  Io dubito
          di quel che potrebb’essere.
          Albizo.  Il suo premio
          non gli ha mancar, s’i’ dovessi dar pegno
          la cappa e ’l saio e quanti panni trovomi.
          I’ non verrò senza danari.
          Aldabella.  Bastami;
          e cosí restiam d’accordo. Non dolghisi
          po’ persona.
          Bolognino.  Ah! Sara’ si cruda?
          Aldabella.  Fermisi
          questo, Albizo; e non piú ciancie.
          Albizo.  Fermisi.
          Che domin fia?
          Bolognino.  Guardate dal promettere,
          padrone, ch ’Aldabella non vuol chiachiere.
          Aldabella.  Io non le voglio, no.
          Albizo.  Né io dargnene
          voglio.
          Bolognino.  Orsú, adunque! Non piú perdasi
          tempo. Ognun pensi le promesse attendere.
          Aldabella.  Cosí si faccia. Ma ascoltate, Albizo,
          una cosa che importa, che scordatami
          era.

[p. 360 modifica]

          Albizo.  Che cosa?
          Aldabella.  La Spinetta chiedevi
          un po’ di vesta: che non è orrevole
          con quella gammurruccia, che sdicevole
          sarebbe a una fante.
          Albizo.  È ragionevole.
          Non gli son per mancare.
          Aldabella.  Sapete, Albizo,
          quel ch’i’ torre’ per ora? De la Livia
          vostra sorella il ciambellotto. E all’agio
          gne ne fate una nuova.
          Albizo.  Piacemi
          questo consiglio vostro.
          Aldabella.  Deh, si! Fatelo,
          Albizo. 
          Bolognino.  E sai che ora è a punto il comodo;
          che le son ite in villa.
          Aldabella.  Tanto meglio.
          Albizo.  Farollo a ogni modo. Promettetegnene
          pure.
          Aldabella.  Orsú, che gli è tardi! Rimanghisi
          a questo modo.
          Albizo.  A questo mo’ rimanghisi.
          Aldabella.  Or fatevi con Dio.
          Albizo.  Addio.
          Bolognino.  Al diavolo,
          piú tosto, che venir gli possa el canchero!
          Se non s’hanno i danar cosí di subito,
          come farem?
          Albizo.  Farem mal. Ma mi penso
          ch’i’ gli arò; che ’l mie’ vecchio pure imposemi
          ch’i’fussi qui a quest’ora, e conterebbemi
          tanti danari quanti bisognassero
          a quel viaggio e per mettermi a ordine.
          Bolognino.  Andiam, adunque, a casa. E fate subito
          di cavar quella veste; e portatela

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          a l’Aldabella; e tornate. E, venendoci
          il vecchio, io gli dirò che ei vi aspetti
          qui. Ma uscite di dietro, che Cambio
          Ruffoli vedo; che, se ei vedessivi
          con essa, lo farie subito intendere
          a Fazio.
          Albizo.  Tu di’ ’l ver: questo è il suo solito.
          Entriam in casa.
          Bolognino.  Ecco ch’i’ apro l’uscio.

SCENA V

Cambio vecchio solo.

          Chi ben serra ben truova. I’ ho serrata
          Lucrezia in una camera e la Menica
          con lei; e ho le chiavi meco. Or l’animo
          terrò quieto e, senza alcun pericolo,
          potrò far quel ch’i’ ho stimato essere
          il meglio, in questo frangente ove trovomi.
          Resta or ch’i’veggia Fazio e conferiscali
          quel ch’i’ ho fatto, e, per ciò far, andrommene
          in mercato dove sempre suol essere.
          Ma ecco a punto qua messer Rimedio
          Bisdomini. Non so se io lo richieggio
          d’aiuto in questa faccenda. E’ fia meglio
          pensar ad altri, per ciò che io veggiolo
          accompagnato; e non è ben si sappino
          però i casi mia da tutto ’l popolo.

SCENA VI

Girolamo ciciliano, Messer Rimedio Bisdomini vecchio.

          Girolamo.  Come i’ ho, gentiluomo mio, narratovi,
          la patria mia è Palermo di Cicilia,
          dove vivea contento, trovandomi

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          due figliuoli, un maschio ed una femina.
          De’ qual non so s’alcuno è vivo: che
          il maschio, ch’era maggior, che si nomina
          (s’è vivo) Giulio, per un certo scandalo
          ebbe bando e non so dove possa essere,
          che, ’n tanto tempo, non pure una minima
          novella ho di lui avuta; e la femina
          anco non so di certo dove trovasi,
          benché di lei ho pur qualche indizio.
          Messer Rimedio.  Dove pensate che sia?
          Girolamo.  Credo a Napoli.
          Messer Rimedio.  Come cosí a Napoli?
          Girolamo.  Dirovelo.
          Dopo ch’el mie’ figliuol si parti, un sedici
          mesi o cosi, sendo dagli aversari
          mia molto mal trattato e conti novamente
          portando non piccol pericolo
          di esser amazzato (oltre che perdita,
          per tal conto, ave’ fatta d’una rendita
          di secento ducati), fé’disegno
          al tutto di mutar patria: onde, preso li
          mia arnesi, con la detta picciola
          mia figliuola, per ciò che la mie’ donna
          giá s’era morta, imbarcai; con animo
          di pigliar una terra, qui d’Italia,
          qual piú mi fussi a grado, per mia patria.
          E, come io fu’ nel mar, ebbi contraria
          sorte: per ciò che, dopo gran pericolo
          _ d’una fortuna, fummo ben da quindici
          fuste di mori combattuti; e, ’n ultimo,
          fummo prigioni.
          Messer Rimedio.  Per Dio, fu ben pessima
          la sorte!
          Girolamo.  Udite pur.
          Messer Rimedio.  Dite.
          Girolamo.  Ma, subito

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          di poi, scontrammo le galee di Napoli
          ch’andavano in Ispagna. E, combattendoci,
          ebbeno in lor balia la fusta propria
          dove era la mia figliuola: onde stimomi
          che l’amiraglio la menassi a Napoli.
          Messer Rimedio.  Di vo’ che avvenne?
          Girolamo.  Son stato, piú d’undici
          anni, prigione a remare.
          Messer Rimedio.  Oh povero
          uomo! Ma come poi venisti libero?
          Girolamo.  Venni, mercé delle galee di Francia:
          le quali, dopo quel tempo che dettovi
          ho, preson tutte l’altre fuste; e poson me
          a Marsilia, ora è sei mesi, ove poveramente
          son dimorato. E, se non fussi
          che v’eran certi della patria mia,
          io la facevo molto male.
          Messer Rimedio.  Credovi.
          Girolamo.  Ed or son in cammin per ire a Napoli.
          Intanto, per la via, vo del continovo
          domandando in tutti e’ luoghi ove trovomi
          di questo mio figliuol.
          Messer Rimedio.  Ben fate. E, s’io vi
          posso esser in niente favorevole,
          richiedetemi pur; che, per Dio, increscemi
          de’ vostri affanni. I’ mi chiamo Rimedio
          Bisdomini; e colá, in quella casa, abito.
          E voi com’avete nome?
          Girolamo.  Girolamo
          Fortuna. Ma ben «trista», puossi aggiugnere;
          e direbbesi il ver.
          Messer Rimedio.  Or be’, Girolamo.
          Com’i’ v’ho detto, s’en conto alcun possovi
          far ben, io son parato.
          Girolamo.  I’ vi ringrazio,
          quanto so e posso. E, dimorandoci

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          tanto o quanto, e favore accadendomi
          o aiuto, non anderò ad altri.
          Messer Rimedio.  Fatelo.
          Girolamo.  Io mi vi raccomando.
          Messer Rimedio.  Iddio consolivi.
          Girolamo.  Questa è la via, s’i’ vo’ all’alberg’andarmene.

SCENA VII

Piro servidore, Bernardo Spinola padrone.

          Piro.  Voi avete, padron, con una furia
          mangiato ch’i’, per me, non posso credere
          che vi sia per far prò.
          Bernardo.  Lascia pur essere.
          Quando io ho a una cosa vòlto l’animo,
          non tengo conto del mangiare.
          Piro.  Veggiolo,
          cotesto. Ma mi par ch’error non piccolo
          pigliate: che, avendo a far quell’opera
          che mi dite, convien bene e con agio
          mangiar; per ciò che, nel vero, la bocca
          ne porta. Vo’ m’intendete.
          Bernardo.  Anzi, cercasi
          mangiar poco a tal cosa; che lo stomaco,
          che talor divien debol, possa facilemente
          digestire.
          Piro.  E io vorre’ empiermi
          il corpo molto ben; perché le bestie
          che rodon ben so che po’ ben camminano.
          Bernardo.  Tu sei una bestia e come bestia
          governar ti vorresti. Di ciò lasciane
          la cura a me.
          Piro.  Ben dite: che sa meglio
          e’ fatti suoi un matto che un savio
          quelli d’altri.
          Bernardo.  Cotesto è verissimo.

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SCENA Vili

Fazio vecchio, Bernardo Spinola, Piro servidore.

          Fazio.  Questo consiglio che m’ha dato Noferi
          non mi dispiace; che non ci è pericolo
          alcuno. I’ vo’ cercar con diligenzia,
          prima, queste osterie. E dica Cambio
          quel che li par, che cosí mi delibero.
          Bernardo.  Quand’io sono alla casa, tu può’irtene
          alla stanza; perché, nel ver, lasciandovi
          si grossa somma, non sto mai coll’animo
          posato.
          Piro.  Umbe’?
          Bernardo.  Cosí fa’; ed ivi fermati,
          tanto ch’i’ torni.
          Fazio.  Questo parmi un giovane
          el qual dell’osteria della «Graticola»
          veddi or uscir. Vo’ cominciar quest’opera.
          Domanderonne lui; che i gentiluomini,
          comunemente, altrui piú ’l vero dicono.
          Buon giorno, uomo da ben. Di grazia, ditemi:
          non vi vidd’io or or della «Graticola»
          uscire?
          Bernardo.  Come «uscir della graticola»?
          De l’osteria, volete dir voi.
          Fazio.  Intendesi
          ben l’osteria; che quella è la sua insegna.
          Bernardo.  Io non so giá se vo’ vedesti uscirmene.
          Ma n’uscii ben adesso.
          Fazio.  Si: io viddivi.
          Bernardo.  Non è gran fatto. Ma che domandarmene
          vi muove, gentiluomo?
          Fazio.  I’ vorre’ intendere

[p. 366 modifica]

          se egli vi è alloggiato alcun venutoci
          da Roma, che voi sappiate.
          Bernardo.  Alloggiatoci
          è, messer si.
          Fazio.  E sarebbe da Genova,
          per sorte, cotesto tale?
          Bernardo.  Da Genova
          è.
          Fazio.  Sapete voi dir com’e’ si nomina?
          Bernardo.  Sollo. Ma perché accade cosí intendere
          questo?
          Fazio.  Perché m’importa.
          Piro.  Padron, ditelo,
          per veder quel che vuol dire.
          Bernardo.  No: cerchilo
          da sé; non lo vo’ dir.
          Fazio.  Che dite?
          Bernardo.  Sonimene
          scordato né lo ritmo vo.
          Fazio.  A memoria
          ve lo ridurrò io: Bernardo Spinola.
          Ha cosí nome?
          Bernardo.  Bernardo si nomina,
          messer si; ed è ancor di casa Spinola.
          Ma perché ne cercate?
          Fazio.  Perché occorremi
          parlargli; e di cosa d’importanzia.
          Bernardo.  Io son, per dirvi, amico suo grandissimo;
          e da Roma venuto son continovamente
          con lui.
          Fazio.  Tanto meglio. Di grazia,
          fate che io gli parli un poco.
          Bernardo.  Ditemi
          quel che vi occorre, che una medesima
          cosa semo.
          Fazio.  No, no: gli è necessario
          ch’i’ parli a lui proprio.

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          Bernardo.  E a lui proprio
          parlarete, parlando a me.
          Fazio.  Son favole.
          I’ vorre’ lui, in fine.
          Bernardo.  Orsú! Bisogna
          ch’i’ parli aperto. Io son Bernardo Spinola,
          io. Quel che vi occorre dire ditemi.
          Fazio.  Dite che siete vo’ Bernardo Spinola?
          Bernardo.  Messer si, s’i’non fu scambiato a balia.
          Fazio.  Credo me lo vorresti dar a credere,
          a mano a man.
          Bernardo.  Che creder? Son certissimamente.
          Fazio.  Bernardo ch’i’ vo’ non è simile,
          giá, a voi.
          Bernardo.  Ben, be’. I’ son io, dicovi.
          Fazio.  Questo non porta a voi, e per chiachiera
          la pigliate; se un altro, giá, non chiamasi
          cosi in cotesta casa.
          Bernardo.  In casa Spinola
          non è altro Bernardo, che io sappia.
          E son venuto da Roma. Bisogna
          certamente che io sia io quel proprio
          a cui volete parlare. Guardatemi
          bene.
          Fazio.  I’ so ch’i’ non ho le traveggole.
          E non siete esso.
          Bernardo.  I’ non so che «traveggole»:
          una volta io son io Bernardo proprio,
          vogliate o no; e cosí d’esser giurovi
          da gentiluom.
          Fazio.  Vo’ volete la baia
          con esso meco. E’ non è ragionevole,
          però, uccellar un mio pari; e massimamente
          sendo forestier.
          Piro.  Non è solito

[p. 368 modifica]

          il mio padron usar cotesti termini
          con alcuno.
          Fazio.  Se io non conoscessilo,
          potresti forse darmelo ad intendere.
          Bernardo.  Vo’ non lo conoscete, a quel ch’i’ veggio.
          Fazio.  Cosí non l’avess’io ma’ conosciuto!
          Bernardo.  Che v’ha e’ fatto?
          Fazio.  Che mi ha fatto? Toltomi
          dumila scudi, po’ e’ ho a dirlo.
          Bernardo.  Favole!
          Non mi entrate costi, a me.
          Piro.  Che toltovi
          dumila scudi? Bernardo è un uomo
          da bene. E manterrollo. E, se recatogli
          ha, son sua.
          Fazio.  Dico mia, che riscossoli
          ha con la mia proccura.
          Bernardo.  Che «riscossoli
          con la vostra proccura» ? che non viddivi
          ma’ piú né mai ho da voi avute lettere
          o procura, ch’i’ sappia. Voi dovetelo
          sognar, cotesto.
          Fazio.  Ah! ah! Or accorgomi
          che voi siete dua traforelli e siatevi
          accordati insieme.
          Bernardo.  Ah! Pazienzia
          poi non arò.
          Piro.  Traforelli? Levatevici
          dinanzi.
          Fazio.  Nessun mi può riprendere,
          s’i’ cerco il mio; intendi?
          Bernardo.  Be’, cercatene,
          non offendendo altrui.
          Fazio.  Io ringrazio
          Iddio che semo in terra e’ ha un principe
          giustissimo.

[p. 369 modifica]

          Bernardo.  Lo so; e giá non dubito
          che mi sie fatto torto.
          Piro.  Deh! Lasciatelo,
          padron, grachiare.
          Bernardo.  No, ch’i’ vo’ difendere
          l’onor mio. I’ v’ho detto e raffermovi
          ch’i’son Bernardo, io, d’Alberto Spinola;
          né ho vostri danari. E ch’il contrario
          dicessi se ne mente.
          Piro.  Or cosí piacemi,
          padrone.
          Bernardo.  Mai si.
          Fazio.  Non vo’ combattere
          teco. Ma fa’ pensier ch’e’ danar m’abbino
          a esser messi su.
          Bernardo.  Potrebbe essere.
          Fazio.  I’ saperrò ben io trovar quel proprio
          che gli ha riscossi, per tórli.
          Bernardo.  Trovatelo.
          Fazio.  Me n’andrò agli Otto.
          Bernardo.  Andatevene a’ sedici,
          se non basta otto; che io son certissimo
          che ’l mio non mi sará tolto.
          Fazio.  In nomine
          Domini, innanzi che sia sera, odimi,
          i’ vedrò in viso e’ mia danar.
          Bernardo.  Rispondere
          non vo’ piú.
          Piro.  Or cosí fate. Lasciatelo
          ir col diavolo.
          Bernardo.  Vadia. Ma io che deggio
          dir di questa faccenda?
          Piro.  Che vi dissi?
          Che gente è in questa terra! I’, per me, penso
          che questo vecchio, al fermo, abbia notizia

[p. 370 modifica]

          de’ danar che ci avete; e vorrá muovervi
          qualche lite, per tórvegli.
          Bernardo.  El diavolo!
          No’ non siamo a Baccan. Qui so che vivesi
          con ordine quanto in terra d’Italia;
          perché, per tutto, si dice e si predica
          della bontá e giustizia del principe.
          Piro.  Pur, vi conforto in ogni cosa cauto
          esser.
          Bernardo.  Cotesto va per l’ordinario.
          Ma e’ sarebbe stato ben conoscerlo,
          per saper da chi l’uom s’abbia a difendere.
          Piro.  Vo’ dite il vero; e fatto error grandissimo
          abbiam, non gli gir dietro.
          Bernardo.  Pazienzia!

SCENA IX

Cambio vecchio, Piro servidore, Bernardo Spinola.

          Cambio.  In fine, oggidí son fatti gli uomini
          come l’oro archimiato. In apparenzia
          e in parole son belli, e poi non reggono
          al martel. Quando s’ha dell’ordinario
          punto a uscire, quasi tutti traggono
          alla staffa: si come fa il mio Fazio
          Ricoveri, che, bene’ ha fatto perdita
          grande, e potendo con un sicurissimo
          partito el suo recuperar, non piacegli
          di prenderlo; perché gli è necessario
          aver a uscir un po’ di donzellina.
          Piro.  S’io non piglio error, or or, quel vecchio
          era a parlar con colui. Domandandogli
          chi egli è, saria forse bene.
          Bernardo.  Piacemi
          el tuo consiglio. Lo vo’ far. Ma lascialo
          venir piú oltre.

[p. 371 modifica]

          Cambio.  Ma non pensi ch’i’ me ne
          voglia tór giú. I’ vo’ farlo nel bucine
          entrare e, non avendo altro rimedio
          di poi né chi m’aiuti, voglio irmene
          agli Otto; che non mi par ragionevole
          che, senza punizion, a un sia libero
          l’entrar per l’altrui case. Voglio ascondermi,
          da poi ch’i’ arò posto el contrasegno
          alla finestra e posto l’uscio in bilico,
          sotto la scala o nella volta; e, subito
          ch’i’ sentirò ch’e’ sia entrato in camera
          terrena, vel serrerò dentro. E possolo
          fare, che fuori è ’l paletto: onde serrasi
          la camera di fuor. Ma che fatappio
          va qui aggirando? Io so che la Lucrezia
          è pur serrata in luogo che possibile
          non è che mai si faccia alle finestre.
          Qual cosa vuol costui? Non gira nibbio
          mai che non sia presso una carogna.
          Piro.  Padron, eccolo a noi. Or afrontatelo.
          Non istate piú a vedere.
          Bernardo.  Salvivi
          Iddio, gentiluomo.
          Cambio.  E te ancora.
          Che vai cercando qui ’ntorno?
          Bernardo.  Piacendovi,
          vorrei mi dicessi come chiamasi
          quel gentiluom che, poco fa, parlavavi
          in Borgo San Lorenzo.
          Cambio.  E che impòrtati
          questo?
          Bernardo.  Oh! Pur assai.
          Cambio.  Oh! Va’ domandane
          lui; ch’i’ ho tanto da far da me proprio
          ch’i’ non tengo conto d’altrui.
          Bernardo.  Dispiacemi,

[p. 372 modifica]

          se avete da far. Ma senza causa
          non ve ne ricercava io. Sapendolo,
          vo’ mi sodisfaceate con piccola
          cosa.
          Cambio.  Altro debbi voler.
          Piro.  Deh! Ve’ asino,
          vecchio poltrone!
          Cambio.  E tu chi se’ che tanto
          cerchi saper chi son gli altri?
          Bernardo.  Da Genova
          sono; e ’l mio nome è Bernardo Spinola.
          Forse ch’i’fo pregarmi?
          Cambio.  Tant’avessi tu
          fiato, uccellaccio, che Bernardo Spinola
          non sei tu! Ma ben per certo credomi
          che sia un tristo come lui. Ed avveggiomi,
          ora, per qual cagion con tanta instanzia
          domandasti chi era colui. Vedi
          che troppo ben feci pur a non dirtelo!
          Bernardo.  Vecchio, i’ non vo’ con voi entrar in collora;
          perch’i’ veggio che qualche passion d’animo
          vi fa cosí parlar e, piú ch’el solito,
          forse, esser discortese. Ma, se Dio
          m’aiuti, i’, certo, son Bernardo Spinola
          genovese, che, fa tre di, venuto
          sono da Roma.
          Cambio.  I’ so ben che Bernardo
          è tornato e che in Firenze trovasi.
          Ma tu non sei quel giá, tu; che promettoti
          che, se tu fussi, mi bastare’ l’animo,
          come mi vedi, di cavarti un occhio
          con questo dito.
          Piro.  Adagio! E’ non rimettono.
          Bernardo.  V’ha forse fatto qualche grande ingiuria
          questo Bernardo? poi che si fatt’animo
          gli avete contro.

[p. 373 modifica]

          Cambio.  Ve’ che non di’ d’essere
          piú lui? Or vanne via, va’, che tu non te le
          se’ sapute.
          Bernardo.  Non fia giá mai possibile
          ch’alcun mi cavi di bocca non essere
          Bernardo; ed, innanzi che me proprio
          negassi, vo’ morire.
          Cambio.  Orsú! Abbiamoti
          inteso. Or va’ di’ a Bernardo Spinola
          che se ne vadi a far il chiasso a Genova,
          non qui a Firenze; che troverrá, credimi,
          culo a suo naso.
          Bernardo.  Udite.
          Cambio.  Non piú. Vattene
          con questo.
          Bernardo.  Piro, costor hanno messomi
          il cervello a partito.
          Piro.  Ed a me il simile.
          Bernardo.  Guarda un po’ dove va.
          Piro.  Si ben. Guardiamolo.
          Cambio.  Io ho fatto male a scoprirmi. La collora,
          in fine, non ha legge. Ogni disegno
          è guasto. Costui gli ridirá subito
          ch’i’ so ogni cosa; e non ara tant’animo
          d’entrarmi in casa. E fia di tutto Fazio
          cagion, che m’ha mancato. Pur, dispongomi
          di farne pruova. Questo non può nuocere.
          Bernardo.  Dov’è egli entrato?
          Piro.  A man manca, al terz’uscio.
          Bernardo.  Gli è molto suo vicin.
          Piro.  Padron, abbiatevi
          cura.
          Bernardo.  Non dubitare. E’ potrebb’essere
          suo parente.
          Piro.  E che si, che fors’escegli
          il ruzzo del capo?

[p. 374 modifica]

          Bernardo.  Piro, sii! Partiti
          di qui; va’ all’albergo; e pon’l’orecchio,
          se tu sentissi, o l’oste o altri, dire
          di me cosa veruna. E tutto sappimi
          riferire.
          Piro.  Sta ben.
          Bernardo.  Fa’ che mai partati
          di quivi.
          Piro.  Cosí farò.
          Bernardo.  Or che deggio
          far io? Per quanto io ho veduto e veggio,
          tutta questa cittá mi par che m’abbia
          fatto congiura contro. L’uno dicemi
          ch’io gli ho rubato el suo; e l’altro accennami
          ch’i’ voglia tórli l’onore. Non possomi
          imaginar onde possa procedere.
          In quanto a me, i’ so che mai ingiuria
          non fé’ad alcun, se non è questa pratica
          ch’i’ ho di questa donna che quivi abita.
          Ma non l’ho poi rivista da domenica
          in qua; e, benché dica questa femina
          di far e dir, Die ’l sa se ella dicemi
          il ver! ma, quando ’l dica, non conoscemi
          per nome proprio. Adunque, non può essere
          questo. E poi gli è consuetudine,
          in tutto il mondo, di cercar a’ giovani
          lor venture. Egli è ben che io séguiti
          la ’mpresa. Ma, da qui innanzi, io delibero
          di non mi chiamar piú Bernardo Spinola;
          E sará anco un mezzo a aver notizia
          di lui ch’i’ cerco: perché potrebb’essere,
          chiamandomi cosi, che all’orecchie
          gli venissi il suo nome; e fia sollecito
          in cercar me, com’io lui cerco. E libero
          sarò, ’ntanto, da si fatta molestia
          ch’i’ ho pel nome mio. Cosí risolvomi.

[p. 375 modifica]

SCENA X

Girolamo ciciliano vecchio, Bernardo Spinola.

          Girolamo.  Io non ho, infino a qui, riscontrat’uomini,
          in questa terra, che alla cera e a l’abito
          paino forestieri, che io non gli abbia
          del nome dimandato e della patria;
          e tutto fo per veder se di Giulio
          mio figliuol potessi mai intendere
          novelle.
          Bernardo.  Costui m’ha fissato l’occhio
          molto a dosso. E che si, ch’or il solito
          m’interviene?
          Girolamo.  I’ ho visto questo giovane
          entrar nell’osteria della «Graticola»;
          e forestiero è per ciò che l’abito
          lo mostra. Vo’ parlargli.
          Bernardo.  Per Dio, eccolo
          alla volta mia. Nel mio proposito
          voglio stare.
          Girolamo.  Iddio vi salvi, giovane.
          Bernardo.  Il ben trovato.
          Girolamo.  Ditemi, di grazia,
          donde vo’ siete. E’ mi par un migliaio
          di volte avervi visto.
          Bernardo.  Potrebb’essere.
          Chi va pel mondo si scontra assaissime
          volte. Al piacer vostro, di Cicilia
          son.
          Girolamo.  Di Cicilia?
          Bernardo.  Messer si. In Cicilia
          nacqui: benché, son stato giá ben dodici
          anni, come intervien, fuor della patria.

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          Girolamo.  Il nome della vostra terra propria
          quale è?
          Bernardo.  Palermo; che è terra marittima
          e di molte faccende.
          Girolamo.  Il so benissimo.
          Ma com’è ’l nome vostro?
          Bernardo.  l’ho nome Giulio;
          e ’l padre mio si domandò Girolamo
          Fortuna. E si può dir sfortunatissimo,
          per ciò ch’ave’ sol duo figliuoli: un maschio,
          che sono io, che giá son stato essule,
          gran tempo, qui e qua; ed una femina
          che presa fu dalle galee di Napoli
          e credesi esser qui, ma ancor trovatasi
          non s’è. Ed egli, che maggior disgrazia
          ebbe, affogò in alto mare.
          Girolamo.  Oh povero
          meschini Non posso contener le lagrime.
          Bernardo.  Lasciate lagrimar a me, che causa
          ne ho.
          Girolamo.  Di questo Giulio e di Girolamo
          udit’ho ragionar; che di Cicilia
          son ancor io.
          Bernardo.  E donde?
          Girolamo.  Son da Trapani.
          Bernardo.  Bene.
          Girolamo.  E, perché io so che, non sol essule
          era di casa sua, ma ancor gran taglia
          avea, udit’ho con meraviglia
          che vo’ dichiate esser lui: che in Fiorenza
          non saresti sicur, che dell’imperio
          è cittá molto amica; e tutti quelli
          che son ribelli a Sua Maestá non possano
          sicuri starci.
          Bernardo.  Cotesto è verissimo.
          Ma io son dalla taglia, non sol, libero;

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          ma posso ancor tornarmi nella patria:
          e rendute sarannomi le rendite
          ch’avea perse. E, per levarvi il dubbio
          ch’avete, vo’ che leggiate (essendovi
          di piacer) la patente che mi libera
          da ogni pena. Tenete; leggetela.
          Girolamo.  Mostrate.
          Bernardo.  Ecco il sigillo dell’imperio
          e di Sua Maestá.
          Girolamo.  Oh Dio grandissimo!
          Bernardo.  Che avete? Voi piagnete?
          Girolamo.  Per letizia
          ch’i’ ho di voi.
          Bernardo.  Gli è per vostra grazia.
          Intendetela voi?
          Girolamo.  Si, fo benissimo.
          Ah Dio!
          Bernardo.  Pur sospirate?
          Girolamo.  Io rallegromi
          del vostro bene. E, perché d’una patria
          si può dir che noi semo, io desidero,
          quel tempo che ci ho a stare, star continovamente
          con esso voi.
          Bernardo.  Son contentissimo.
          Ma mi convien lasciarvi ora, che ho obligo
          di ragionar con un cose ch’emportano;
          che è molto lontan di qui.
          Girolamo.  Piacendovi,
          vi terrò compagnia.
          Bernardo.  Vi ringrazio;
          ma mi bisogna esser solo. Volendomi
          poi ritrovar, io son da Santo Spirito,
          di lá dal fiume, alloggiato; e li aspettovi.
          Ma, per ora, vi lascio.
          Girolamo.  Udite.
          Bernardo.  Piacciavi

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          darmi, al presente, una grata licenzia.
          Di parlarci arem tempo.
          Girolamo.  Oh! Molto subito
          da me partite!
          Bernardo.  La fretta mi caccia.

SCENA XI

Girolamo solo.

          Che deggio dire ora, infelicissimo
          me? se non che costui è certissimamente
          un baro, un assassino, un publico
          ladron? Il quale ha occis’aimè misero!
          il mio figliuolo; e li suo’ danar toltoli;
          ed ora il nome suo attribuiscesi
          per far qualch’altro acciacco. Né ci è dubbio;
          che la patente, che gli ha, cert’indizio
          me ne dá. E dovè con lui gran pratica
          aver, sapendo e’ mie’ fatti. Or ingegnasi
          trovar la mia figliuola acciò che publica
          meretrice la faccia. E se sa fingere,
          Die tei dica! Oh ribaldo! E, perché dubita,
          come fa quel che d’un fallo è colpevole,
          d’ogni persona, fugge la mia pratica:
          tanto piú pere’ ho detto di Cicilia
          essere; ond’essend’alla «Graticola»
          alloggiato (il che so io certissimo),
          m’ha detto, il truffatori da Santo Spirito,
          dove non è albergo alcun, ch’i’ sappia.
          Parti che sappi fare? Oh baro pessimo!
          Ma tu l’ara’ errata. El tuo grandissimo
          peccato t’ha condotto dove meriti.
          I’ non lo vo’ staccar; ch’i’ voglio intendere
          dond’ha quella patente e dove è Giulio
          mio figliuol. E, s’i’ dovessi metterci

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          quel poco che mi resta, io delibero
          farne vendetta. Io vogli’ andar, subito,
          a trovar quel gentiluom che Rimedio
          Bisdomini disse chiamarsi; che, avendomi
          da per sé fatte tant’offerte, credomi
          non mi sia per mancar ora, vedendomi
          in si fatto travaglio. Questo è l’uscio.
          Po’ che gli è aperto, enterrò alla libera.