I Bernardi/Atto II
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ATTO II
SCENA I
Messer Rimedio vecchio, Gianni suo servidore.
Messer Rimedio. Gianni, vien’un po’ qua. Dimmi: che pratica
hai tu con Alamanno, che mai spiccasi
da te? che cose avete d’importanzia
a ragionar insieme?
Gianni. Le son favole
e cose, a dirvi il ver, di poco pregio,
padron.
Messer Rimedio. Ben. Queste cose e queste favole
non si possono intendere?
Gianni. Si possono,
messer si. Mi diceva ch’era d’animo,
in questo carnovale, intorno a Fiesole
fare una caccia.
Messer Rimedio. Una caccia? Anco credolo;
ma non come mi vuoi dare ad intendere.
Gianni. E’ vuol provar i can che da Dovadola
gli fúr mandati.
Messer Rimedio. Altro che cani, credimi,
vuol provar!
Gianni. No, padron. Cosí è proprio
la veritá.
Messer Rimedio. Orsú! Questa girandola
la ’ntendo anch’io.
Gianni. Padron, domandatelo;
e troverrete questo esser verissimo
che i’ v’ho detto.
Messer Rimedio. Tant’è, non accaggiono
piú parole; la ’ntenderò per agio.
Va’ via tu prestamente infino a Fiesole:
e fatti dal fattor mostrar e rendere
el conto a punto del gran che gli ha ’n prestito
dato, ed a chi; e cosí ancor l’olio
che si è fatto. E, se non vi fussi, aspettalo;
e fa’ che tu non torni senza intendere
il tutto, intendi?
Gianni. Messer si.
Messer Rimedio. Or spacciati.
Gianni. I’ voglio andar infino in casa; e poscia
andrò.
Messer Rimedio. No, no. V vo’ che vadia subito.
Gianni. Se vi piace cosi, ecco che subito
vo.
Messer Rimedio. Or va’ via. I’ mi son messo in animo
di levar tanti pissi e tante pratiche
ch’i’ veggio; che qualcosa bolle in pentola.
E però ho mandato questa bestia
via per un pezzo. In fine, questi giovani
ad altro mai, giorno e notte, non pensano
che a’ lor amori, a lor trame, a lor chiachiere;
e, quando co’ famigli s’accompagnano
in tal maniera, per fatta può’metterla.
Né mutan modo mai, se non s’amogliano.
Allor, alfin, si ferman come bestie
brave quando colle funi si legano.
Onde, per questa cagion, mi delibero
di dargli moglie. E, perch’i’ ho qualche indizio
ch’una, fra l’altre, figliuola di Noferi
Amieri, gli va a gusto, voglio ogni opera
far, non guardando a nulla, a fin che l’abbia.
Ma ecco fuor di casa el nostro Cambio
Ruffoli. Oh! Gli ha la sporta. Questo è il solito
suo: far di suo’ mano; e parli essere
savio assai piú che gli altri. Ma lasciamolo
andare; ed io seguirò mio viaggio.
SCENA II
Cambio vecchio solo.
Dice il proverbio: «Come son degli uomini
i volti vari cosí anco gli animi
sono». E, benché tutti a un fin tendino,
non di manco il proceder non è simile.
Ognun la ’ntende a suo modo e biasima
l’altro; ed a nessun par in error essere.
Io son un di que’ che molti dannano,
dicendo che vie piú che ’l necessario
mi sto intorno a casa; e mi chiamano
sospettoso. I’ mi sia; lascia pur essere.
Gli è meglio esser cosí che a dir s’abbia
che io sia straccurato di si tenera
cosa quanto è l’onor: di cui se perdita
si fa, mai si raquista. Io non ho moglie,
che si mori, debb’esser giá un dodici
anni. Ma non è manco d’importanzia
il guardar una figliuola che truovomi
in casa, di vent’anni, senza tritolo
di dota. I’, per me, non posso ma’ chiudere
occhio. E so quel ch’i’ fo. Infin alle rondine
vieto l’entrar in casa, che giá lettere
si truova c’han portate, non ch’a uomini.
Non creder giá che zanaiuoli o simili
uomini intorno alla casa m’abbaino.
No, no: i’ porto da me a me. E similemente
né velettai né rivendagnole.
Guarda la gamba! Discosto pur stiano
da questa casa. Qui non son domestici,
salvo che una fante che ho tenuta,
giá son vent’anni; ed anco poco fidomi
di lei. La vo’ chiamar: e far la predica
che, talor ch’i’ vo fuor, farli son solito.
SCENA III
Cambio, Menica fante.
Cambio. Menica!
Menica. Messere!
Cambio. Non odi? Menica!
Menica. Messere, dico!
Cambio. Vien giú, ora; e spacciati.
Menica. Ecco ch’i’ vengo.
Cambio. E bene? Una testuggine
mi pari, a’ passi.
Menica. I’ non son giá per mettere
l’ale! Basta ch’i’ vengo.
Cambio. Tu m’hai fracido.
Menica. Oh guarda cosa! Come gli è fantastico,
stamani! Ch’ara vist’andar per aria
qualche uccellino, ch?
Cambio. Non piú, cornacchia!
T’abbiamo inteso.
Menica. E’ convien pur rispondere.
Cambio. Non piú, dico, cicala! La Lucrezia
dove è?
Menica. In casa, su, nell’anticamera.
Cambio. Giá so che non è fuor,.
Menica. Perché domandine,
vecchio ritroso?
Cambio. Borbotta, la striggine!
Che fa?
Menica. S’acconcia il capo.
Cambio. Il capo? Credolo.
Mai ci è altro che far che ’l capo.
Menica. Domine
che l’abbia a star anche com’una bestia!
Cambio. I’ so quel ch’i’ mi dico e quel che ’mportano
queste cose. Le case che s’imbiancano
si voglion o appigionar o vendere.
Menica. Oh! Pensa se l’adoperassi liscio!
Cambio. Eh? liscio? Che liscio o non liscio? Guardisene:
che io l’ucciderei colle mie proprie
mane.
Menica. Ognun ha pur consuetudine
d’acconciarsi.
Cambio. La può star anche in cuffia.
Chi l’ha a vedere? E, piú tosto, attendere
a lavorar. Bisogna altro che favole
a regger questa casa!
Menica. Uh Signor!
Cambio. Massime
che qui né contadin né altri capita
che l’empia a tutte l’ore. Dalla piccola
cosa alla grande mi è necessario
prò veder.
Menica. Di chi colpa?
Cambio. Ch’i’ son povero.
Menica. Orsú! Che domin fia? Fu anco povero
messer Domenedio. Pazienzia!
Cambio. Ma ti vo’ ben dir questo: s’i’ son povero
di roba, de l’onor voglio richissimo
essere.
Menica. Fate molto bene.
Cambio. Intendimi
tu?
Menica. V v’intendo; ed avete grandissima
ragione.
Cambio. Or i’ vo fuor per tornar subito.
Non ti discostar mai dalla Lucrezia
e fa’ che la non esca mai di camera...
Menica. Oh! Se gli bisognassi ire...?
Cambio. Oh! Intendesi.
Ogni cosa a ragione.
Menica. Oh! Cosí piacemi.
Cambio. ...e che, sopr’ogni cosa, mai non facciasi
alla finestra.
Menica. I 1 gliel dirò.
Cambio. Dignene.
Che s’io lo posso mai spiare e intendere,
guai a lei!
Menica. State pur di buon animo,
che ella non vi s’è per far minuzzolo.
Cambio. E, se alcun pichiassi, non vo’ l’uscio
mai si apra. Aspetti pur tanto ch’i’ capiti
qui; e sia chi si vuol.
Menica. Se qualche povero
non pichia, che ricerchi la limosina...
Cambio. Mandali via. Non posso far limosine.
Io ho limosine troppe.
Menica. Non bazzica
mai, qui, persona.
Cambio. Orsú! Fa’ ch’i’ non abbia
a dolermi. E basta.
Menica. Va’, che rompere
possa la bocca! E’ sarie me’ col diavolo
praticar che con un geloso e massimamente
quando gli è vecchio e fantastico
come costui: che, se non che è amorevole
la Lucrezia piú ch’alcun’altra giovane
che sia a Firenze, i’ staria prima a patti
di morirmi di fame ch’ai servizio
suo stare; che mai non ci lascia vivere,
né di né notte; e sempre cerca causa
di gridarci; e talor ci dá ad intendere
d’ir fuori e poi, di piatto, usa nascondersi
o sotto la scala o nel necessario
o sotto il letto e poi, quando nien credesi,
ci si scuopre a ridosso com’un fistolo.
Ma noi n’abbiam, per la consuetudine,
giá fatto il callo; e sempre stiamo in ordine,
come se fusse presente: onde truovaci
come lasciònne. E, benché tante storie
faccia e sia tanto in osservarci cauto,
U non ha ei però fatto tanto, el povero
uomo, che non si sia pur la Lucrezia
preso uno innamorato che ne spasima.
E, se non fusse ch’andar bisognevole
gli è stato a Roma, i’ credo senza dubbio
ch’a quest’ora saria con esso itane
in dileguo; e farallo, se mai tornaci.
! E, s’ella el fa, dará a tutti ad intendere
che quanto piú le fanciulle si guardano
dagli uomin tanto n’hanno maggior voglia:
che quelle cose che tanto si vietano,
per una usanza, sempre si desidrano.
Ma uh! sciagurata a me! Se ei rivolgesi
indietro, e che mi vegga ancor a l’uscio,
Signor! e’ non ci fia sacco in che mèttello.
Gli è dunque me’ ch’i’ torni alla Lucrezia»
SCENA IV
Alamanno giovane.
Io ho, dalla finestra, visto Cambio
uscir di casa. E ave’ a punto la lettera
scritta che mandar voglio alla Lucrezia:
onde ne son venuto fuor di subito.
Or resta sol ch’i’ trovi uno che portila
in modo tal che non ne nasca scandolo.
Gianni non è mai tornato. Chi domine
ho io a mandar che tal ufficio sappia
far? S’i’ mando un fanciullo? Eh! Fia difficile
trovarn’uno a proposito. E s’i’ mandovi
un zanaiuol? Andrá. Ma potrebb’essere
che non volessi pigliarla; che Cambio,
ch’è sospettoso, debbe ragionevolemente
aver comandato ch ’un simile
uomo, per conto alcuno, non ascoltino.
Ah! Or avrei bisogno di consiglio!
E quel che s’ha da fare senza indugio
bisogna far; che, se poi torna Cambio
a- casa, per tutto oggi, saria agevole
cosa che non uscissi. Ma io dilibero
mandar al tutto un zanaiuolo. S’elleno,
senza dir altro, accetteran la lettera,
ben è. Quando che no, vo’ che dica essere
a lor mandato da Bernardo Spinola
da Genova; che, se ode la Lucrezia
nominar chi sopr’ogni altro desidera,
sará cortese, ancor che con pericolo
suo sia. Adunque, ciò far sará el meglio,
senza pensarci piú su. Preso subito
il partito, cessa l’affanno. Faccisi.
SCENA V
Fazio vecchio solo.
Io ho penato due ore a risolvermi
se a Viterbo mandar debbo Albizo
mio figliuolo o no. E mi tenevano
due cose: l’una, che gli è troppo giovane,
né, ’nfino a qui, perdut’ha mai la cupola
di veduta, ed è anco poco pratico,
ed a tal cose saria necessario
un uomo esperto el qual fussi solito
ir fuori e avessi, si com’è ’l proverbio,
«pisciato in piú d’una neve»; e tenevami,
secondariamente, il grandissimo
amor che io li porto, che difficilemente
mi lascia che in alcun pericolo
incorrer lo permetta. Ma, in ultimo,
piú ha potuto in me questa gran perdita
che l’amor e ’l timor, bench’assa’ possino.
Dumila scudi non son una favola.
Che, s’i’ potessi con questo rimedio
recuperargli, arei una grandissima
posta tirata; e, se non fía possibile,
è forza ch’i’ ne resti sempre povero.
Per questo, resoluto son mandarlo:
e, con lui, Bolognin ch’è molto pratico.
E gne ne ho detto; e molto vòlto trovolo
a far questo viaggio, perch’è giovane
volonteroso e non pensa al pericolo
che porta chi va a torno. Pazienzia!
Bisogn’or far cosi. E’ disse d’essere
qui ’ntorno ed aspettarmi, acciò che possili
dar i danar che fa mestier e a ordine
metterlo di tutto punto. E non veggiolo.
Dove sará ei fitto? Oh! Ecco Cambio
Ruffoli mio vicin. Da lui vo’ intendere
se l’avessi riscontro, in qua venendone.
SCENA VI
Fazio, Cambio vecchi.
Fazio. I’ vogli’ andarli incontro. Buon di, Cambio.
Donde si vien?
Cambio. Buon di e buon anno, Fazio.
Di mercato ne vengo, dove ho compero
questo per desinar.
Fazio. Non era ei meglio
pigliar un zanaiuol che tu medesimo,
cosí scoperte, portar tante bazziche?
Cambio. Che zanaiuolo? Per niente! Paioti
uomo da zanaiuoli, io? Truovomi
una fanciulla grande, vo’ che sappia.
E bisogno non ho di darli biasimo,
ben sai; perch’oggidí, siamo in termine
che con fatica e a pena si maritano
quelle che han buon nome.
Fazio. E che biasimo
danno i zanaiuoli? Io pur similmente
ho la fanciulla; e sempre servomi
di lor ne’ mia bisogni: e’ qua’ trovatomi
ho fedeli.
Cambio. Tant’è: quanti son uomini
tante son anche l’oppinion varie.
Se tu la ’ntendi cosi, io intendola
altramente.
Fazio. Se se’ di cotest’animo,
pigli’ almanco un garzone e di lui serviti;
e non ti alachinar cosi.
Cambio. Iddie me ne
guardi! Garzone, ch? M’acconceresti
per le feste, ti so dir.
Fazio. Perché domine?
Cambio. Come «perché»? E qual sorte ci è d’uomini
che faccin piú faldelle, ove si truovano,
ch’e’ famigli? Ti mostri poco pratico,
Fazio, credimi.
Fazio. Orsú! In quello scambio,
to’ la fante. Veggi amo.
Cambio. Anche non piacemi.
Fazio. Perché?
Cambio. Perché non vo’; né ragionevole
è ancora ch’i’ lasci in casa, libera
e sola, la fanciulla.
Fazio. Oh! Troppo cauto
sei in guardarla!... se giá non hai causa. .
Cambio. Causa non ho io. Ma ben considero
quanto sia cosa grande e malagevole
aver cura di quel che tanti cercano
di tòrti: ch’oggidí, per essercizio,
s’han preso molti (e tengonsi e piú nobili
e piú galanti) contaminar femine
d’altrui; ch’è abusion certo non piccola
e da porci riparo.
Fazio. Gli è verissimo
cotesto. Ma lasciam andar. Aresti tu
a caso, per la via, riscontro Albizo
mio figliuolo?
Cambio. Non giá ch’io vedutolo
abbia; ma che bisogno n’hai?
Fazio. Grandissimo;
ch ’a dirti il ver, mi truovo in gran travaglio.
Cambio. Non giá maggior del mio.
Fazio. Dio te ne liberi!
Perché, per quanto io veggio, è il tuo stimolo
di guardar la tua figliuola. E non niegoti
che sia grande. Pur, non hai ancor perdita
di le’ fatta: com’io, che sempr’ogni opera
ed ogni studio ho messo e diligenzia
in guardar un capital che trovavomi;
or l’ho perduto.
Cambio. Perduto? Oimè! Duolmene
assai. Ma che somma?
Fazio. Una favola!
Dumila scudi.
Cambio. Cacasangue!
Fazio. E truovomi
nel grado ch’udirai: ch’altro rimedio
non ho che mandar Albizo a pericolo
della vita; e Dio ’l sa, se fia utile
questa sua gita!
Cambio. E dove?
Fazio. A casa ’l diavolo:
a Viterbo; lá dove quel mio giovane,
ch’i’ tengo in casa, mi è detto che trovasi
ferito e e’ mia danar, ch’avea, toltogli
sono stati.
Cambio. Da chi?
Fazio. Da ladri publici;
d’assassini.
Cambio. E trovar si potrebbero?
Fazio. Forse che si, se Dio volessi.
Cambio. Mandalo,
mandalo a ogni modo.
Fazio. Cosí penso
fare.
Cambio. Fallo. Ma colui che domine
va cercando? o dove va?
Fazio. Se qui stiamoci
un po’, el vedrem.
Cambio. Fermiamoci, di grazia.
SCENA VII
Zanaiuolo, Cambio, Fazio.
Zanaiuolo. Non saccio se ei disse lo quart’uscio essere,
o ’l terzo, quel dov’ho bussar. Co’ diavolo
si domanna costui che vi abita?
Me l’ho scordato e non saccio com’abbia
a saperlo. Ma gli è scritto in la lettera:
me lo diranno questi gentiluomini.
Messer, tieni un po’ qui; leggi, di grazia,
e dove sta costui saccimi dicere.
Cambio. Mostra qua. Oh! E’ bisogna ch’i’ adoperi
gli ochiali.
Fazio. Dalla a me, ch’ancor servonmi
gli occhi.
Cambio. To’, che la mia sare’ lung’opera.
Fazio. «Domino Cambio Ruffoli, Florentie».
Questa viene a te.
Cambio. Si, pare a me. Da’ mela.
Fazio. To’ qui.
Zanaiuolo. Che dice?
Cambio. Chi ti manda?
Zanaiuolo. Un giovano.
Ma questo che t’importa? Sa’mi dicere
dove ho a bussare?
Fazio. Non è necessario
bussare. Non potevi meglio abbatterti.
Questo è a punto colui che tu cerchi.
Zanaiuolo. No, diavol! Dammi pur qua in man la lettera,
che l’ho a lasciar ad altri.
Cambio. Che di’, bestia?
Se la dai a chi la va, non ti è bastevole?
Zanaiuolo. No, Dio! Dália qua; che saria scandalo.
Fazio. Che scandal? Non va ella a Cambio Ruffoli?
Zanaiuolo. Che ne saccio io? A una fante debbola
lasciare, non a un uomo. Intiennimi
tu?
Cambio. Che fante o non fante? che m’hai fracido.
La lettera vien a me; ed io leggere
la debbo, nuovo pesce!
Zanaiuolo. Or va’ e ’mpiccati:
che non l’ho a dar a te; che questo imposemi
chi me la diede, che io in man d’uomini
non la lasciassi.
Fazio. E chi è questo giovane
che te la dette?
Cambio. Com’ha nome? Disselo?
Zanaiuolo. Madesi che lo disse. Un tal da Genova...
Ah! Me n’aricordo or: Bernardo Spinola.
Fazio. Oh! Che dice costui? Di grazia, leggila:
ch’i’ mi consumo.
Cambio. Si. Ma prima mandisi
via il zanaiuol; che non è ragionevole
ch’e’ fatti nostri da ognun si sappine
Fazio. Orsú, zana! Va’ via; che questa lettera
s’è data a chi s’avea a dare.
Zanaiuolo. Diavolo!
Anche che io non saccia a chi doveala
dare!
Cambio. Deh! Vanne via, dico; e spacciati.
Zanaiuolo. Non me ne voglio annar. Dammi la lettera
qua, ed andronne.
Fazio. Deh! Pon’mente storia
che è questa!
Cambio. Non te la vo’ dar.
Fazio. Deh! Vattene.
Levatici dinanzi.
Zanaiuolo. Vo’ la lettera,
ti dico; che non te l’ho a dar.
Cambio. S’tu stuzziqhi,
tu vai cercando el male come i medici.
Zanaiuolo. Che male me puoi far?
Cambio. Fazio, soccorrimi;
che mi vuole sforzar.
Fazio. Doh poltroni asino!
S’i’ chiamo il famiglio, ti farò correre
ad altro suon che di tromba.
Cambio. Deh! Chiamalo;
ch’altro verso non veggio da potercelo
levar dinanzi.
Zanaiuolo. O andate, che lo diavolo
ne porti l’uno e l’altro!
Cambio. E te in anima
e ’n corpo; che ma’ piú improntitudine
vidi tale.
Fazio. Né io. Or apri, e leggila
a tu’ agio.
Cambio. I’ piglio gli ochiali, e leggola.
Zan aiuolo. Che degg’io or dire a questo giovane?
Dirò d’averla data a chi e’ dissemi:
ch’altramente mi saria forza il rennerli
li danar che mi dette; e saria il diavolo!
Cambio. Oimèi! oimè! Traditor pessimo!
A questo modo, a questo mo’ si trattano
gli uomini da bene?
Fazio. Che hai? che domine
t’ha e’ fatto? Di’ sii.
Cambio. Oimè, Fazio!
Oh Fazio! Tu ed io traditi siamo.
Fazio. Da chi?
Cambio. Da questo tuo Bernardo Spinola.
Fazio. Oh Dio! E’ mia danari!
Cambio. Tien qui; e leggila
da te; e ’ntenderai da te, leggendola,
lá mia vergogna e ’l tuo danno.
Fazio. Dio, aiutami!
«Tuo, piú che servidor, Bernardo Spinola».
Gli è ei che scrive. Io conosco benissimo
la mano. Ma perché tanto s’umilia?
Cambio. Leggi, di grazia, se vuo’ ’l tutto intendere.
Fazio. «Carissima, e da me, piú che la propria
vita, amata, a te, quanto è possibile
mi raccomando». A chi scriv’ei?
Cambio. Deh! Leggila
infino al fin: che so che tu ha’ ’ntendere
cosa che t’ha, non men che me, affliggere.
Fazio. Iddio m’aiuti. «Staman, colla grazia
d’Iddio, giunsi a Firenze di buon animo...».
Oh! Costui è pur tornato.
Cambio. Deh! Seguita.
Fazio. «... e piú che mai contento perché truovomi
dumila scudi contanti. E, benché erano
del mie’ padron, son mia...». Oh ribaldo!
S’ha fatto sua e’ mia danar. «... che ’l salario
monta assai piú; che l’ho servito dodici
anni». E’ ne mente, il tristo, per la pessima
gola; per ciò che, assai piú che non merita
il suo servizio, l’ho pagato.
Cambio. Seguita
pure.
Fazio. «Ed, acciò che non mi truovi facilemente,
mi sto rinchiuso in una camera
d’un oste...». Oh traditore! «... e, com’ho l’animo
tuo saputo, uscirò fuori. Ora pregoti,
se ti vuoi meco per sposa coniungere...»
Gli scrive alla tua figliuola?
Cambio. Vedilo.
Fazio. «... che mei dimostri in questo, che a far facile
ti fia: cioè che, letta questa lettera
(intendendo, però, se fuori è Cambio
tuo padre), un pannolin bianco subito
ponga alla tua finestra, fuor, per segno;
e l’uscio tuo socchiuda si che, a spignere
solamente, si apra. Io, che di subito
ne sarò avisato, arò tanto animo
ch’uscirò fuori. E fa’ che la tua camera
terrena sia aperta, che, piacendoti,
ivi me ne enterrò: dove quietissimo
mi starò infin che tuo padre sia itone
a letto. Allora tu, com’amorevole
che sempre mi sei stata, giú verra’tene.
Li parleremo alquanto insieme: e, datoci
la fede l’uno a l’altro, la medesima
notte, te ne merrò per sposa a Genova;
ed uscirai di si fatta miseria
nella quale ora sei; e me contentissimo
farai sopra tutti quanti gli uomini.
Né altro accade dire. Sol ricordoti
ch’io son piú tuo che mio e non desidero
altro se non mantenermi in tuo’ grazia.
Sta’ sana. Addi ventidue di febraio.
Tuo, piú che servidor, Bernardo Spinola».
Cambio. Che te ne pare?
Fazio. I per me, mi trasecolo
di questa cosa e non ritruovo el bandolo.
Cambio. Parti che sia ferito?
Fazio. Ladro perfido!
Ferito ha egli noi.
Cambio. E con che pessime
armi!
Fazio. Non ci poteva far ingiuria
di piú importanza.
Cambio. Tu di’ ’l vero. E massimamente
a me.
Fazio. Io dico a me, che toltomi
ha i danari.
Cambio. Anzi a me, che tóccomi
ha nell’onor. Che potev’ei far peggio?
Fazio. Io ho perduto i danari; e tu perdita
non hai ancor fatta.
Cambio. Io ho fatt’una perdita
maggiore della tua; che questa lettera
lo mostra, Fazio. Questa è una pratica
che non è d’oggi e d’ieri.
Fazio. I’ vorre’ essere
nel grado tuo piú tosto che mancassero
dumila scudi alla mia borsa.
Cambio. E i’ essere
vorre’ nel tuo: ch’e’ danari son facili
a guadagnarsi; e l’onor è dificile,
quand’è perduto.
Fazio. Ve’ con quant’astuzia
e con che falso modo mi fé’intendere
ch’era stato ferito e che toltogli
eran suti i danari!
Cambio. Che disegno
era ’i suo?
Fazio. Come e’ s’avea le suo’ voglie
cavate della tua figliuola, fingere
d’esser tornato qua e darmi a credere
quel che giá ave’ incominciato.
Cambio. Oh nequissimo!
Gli ordiva prima e po’ voleva tessere
la tela della sua propria tristizia
che or s’è scoperta.
Fazio. E però vo’ la lettera
nelle man, se ti piace: acciò, scoprendosi
mai o in alcun luogo ritrovandolo,
possa del mio valermi, intendi?
Cambio. Tientela:
con questo, che, se non ti è necessario,
mai non la mostri.
Fazio. Tel prometto.
Cambio. Oh poveri
noi!
Fazio. Lasciamo il lamentarci, Cambio.
Pensiam, piú tosto, a trovar il rimedio
a questi nostri mal.
Cambio. Fazio, consigliami.
Fazio. Mal posso consigliarti; e’ ho la bussola
smarrita, come tu. Pur, quel che occorremi
dirò: ch’a te ed a me par salutifero
el porre alla finestra el contrasegno,
come ei richiede tua figliuola.
Cambio. Diavolo
che tu voglia ch’i’ faccia una simile
cosa!
Fazio. Tu non mi lasci dire. Ascoltami.
E lascere’lo incorrer nella trappola
da sé a sé. E poi farei d’essere
quivi con buona gente, che non possono
mancarti amici e parenti; e fare’gnene
sposar per forza; e tutti i danar rendere
a me. E certo e’ non si può far meglio
per amenduoi.
Cambio. á dirti il vero, io dubito
che ciò non sia un publicamente mettersi
le corna ch’or ho ascoste.
Fazio. Anzi, è consiglio
miglior che pigliar possa. Chi riprendere
ti potrá, se mariti cosí facilemente
la tua figliuola senza spendere
un soldo? e da’ la a un che non è ignobile?
Cambio. Die ’l sa!
Fazio. Come «Die ’l sa»? La casa Spinola
è oggi delle nobili di Genova.
Quanti sarien che stimerien grandissima
ventura questa! Foss’io a tal termine
che tu! che sto de’ mia danari in dubbio!
Cambio. I’ mi voglio attener al tuo consiglio.
Ma ve’ non mi mancar.
Fazio. Mancare? Dubiti
tu di me? che sai ben quanto m’affliggono
e’ mia danar perduti.
Cambio. Or be’, su! Faccisi.
Cerchiam d’amici e parenti. E non dicasi
la cosa a punto, per non esser favola
d’ognun. Chiamiamgli a un nostro negozio,
senza dir piú questo che quello.
Fazio. Intendesi.
Cambio. Orsú! I’ vogli’ andar di queste bazziche
a scaricarmi e serrar la Lucrezia,
per ogni buon rispetto, in una camera.
Po’ verrò fuori a trovar Lippo Ruffoli,
mie’ cugino, e qualch’altro; e, ’ritorno a vespero,.
vi porrò ’l contrasegno. Tu fa’ d’essere,
col tuo famiglio, qui, al tempo.
Fazio. Credi tu
eli’ i’ manchi? Queste cose a me importano
quanto a te. Usaci pur diligenzia.
I* mi vo’ consigliar un po’ con Noferi,
in questo caso: acciò che, bisognandone,
il suo favore e ’l suo aiuto prestine.