Dizionario moderno (Panzini)/Ragione e natura dell'opera

Ragione e natura dell'opera

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Dizionario moderno (Panzini) Avvertimento al lettore

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RAGIONE E NATURA DELL’OPERA

considerando

LO STATO PRESENTE DELLA LINGUA ITALIANA


Era costume e formula delle antiche prefazioni raccomandarsi alla benevolenza del lettore: qui sarebbe cosa necessaria, giacchè molte parole saranno cercate ma non trovate, altre appariranno spiegate male o superflue, e da ciò nascerà malanimo contro l’Autore1.

Vero è che nelle consuete compilazioni i precedenti dizionari valgono da guida e porgono aiuto (spesso anzi oltre il giusto limite!); qui invece tale sussidio non ci poteva essere se non in piccolissima parte, appunto perchè si trattava di notare ciò che comunemente non è notato: da questa ragione, ed anche da deliberato proposito, consegue che anche la spiegazione non ricalca le parole altrui; anzi queste ed altre cose pensando, benchè sia di vita ed animo modestissimi, Autore e non Compilatore vuol essere chiamato chi sostenne la lunga fatica di questo libro.

Il quale è nato così: leggendo libri nostri e giornali, scritte, manifesti, ecc., udendo altri parlare, mi imbattevo con frequenza — la quale di tanto era maggiore quanto più viva era la mia attenzione — in parole e modi nuovi, di cui moltissimi prettamente stranieri o travestiti all’italiana.

Che i dizionari italiani dell’uso non registrino queste voci prettamente straniere è troppo giusto; che omettano la più parte delle voci nuove, si può o approvare o scusare o rimproverare secondo i vari modi [p. 2 modifica]con cui si pensa e si giudica. Certe sono le tre cose seguenti: prima, che queste voci sono dell’uso (buono o cattivo non è ora il caso di vedere); seconda, nei dizionari comunemente mancano; terza, la loro spiegazione è desiderata e questa spiegazione non è facile anche per la persona istruita: giacchè se il «giovin signore» non ha bisogno di chi gli spieghi ad esempio il vocabolo steeple-chase, il fisiologo involuzione, la crestaia aigrette, il medico toracentesi, il geografo Thalweg, il geologo trias, il cuoco suprême di pollo, il filosofo agnosticismo, il giornalista leader, l’avvocato preterintenzionalità, il fisico radioattività, l’archeologo terramara, l’economista plus valore etc. etc., la cosa probabilmente non sarà più la stessa se ci proviamo a spostare questi termini. Vero è che per quanto s’attiene alla parte filologica e storica delle parole, la spiegazione potrebbe essere desiderata anche da quelli che sono versati nella disciplina di cui il vocabolo è proprio; perchè, a voler dire tutta la verità, le persone tecniche e gli scienziati — almeno da noi — questa parte poco curano e la curiosità e il piacere di conoscere il valore del vocabolo secondo grammatica, lasciano a quelli che fanno professione di lettere e di grammatica.

Dunque da prima io poco capivo di queste nuove parole, e solamente ricorrendo ad opere speciali e rare, specie straniere, riuscivo a scoprirne qualcosa. Quanto alle parole tecniche e scientifiche, spesso la spiegazione era tale che solo il tecnico e lo scienziato avrebbero potuto bene intendere, non il profano. Spesso, poi, si trattava di voci nuove peregrine, vaganti nell’uso, ma non fissate in alcun dizionario speciale.

Adunque se questa difficoltà dell’intendere parole di cose moderne occorreva a me che negli studi filologici avevo alcun sussidio, in maggiore grado doveva accadere al gran publico, il quale non ha il tempo nè «il buon tempo» — come dicono a Milano — di fare ricerche in opere rare o strologare su di una parola, e tuttavia può desiderare di sapere.

Un libro, dunque, che raccogliesse queste parole e questi modi e poi ne desse spiegazione, non potrebbe riuscire nuovo, utile, anzi necessario?

Così è nato questo libro.

Dunque, chiederà il lettore, qui, oltre al resto, si contengono tutte [p. 3 modifica]le voci tecniche e scientifiche? Per amor di Dio! mi si intenda con discrezione. A fare lo spoglio e dar ragione di tutti i termini di una sola disciplina scientifica, si forma un dizionario speciale: e queste sono opere tecniche di cui, chi desidera, può trovarne molte, e alcune ottime, in particolar modo nelle letterature straniere: no, io accolsi fra le parole della scienza soltanto quelle che entrarono e si aggirano, con orbita più meno frequente, nel parlare comune o d’onde si traggono sensi estesi alle cose della vita. Criterio di scelta molto difficile e soggettivo, in cui l’errore è tanto facile quanto compatibile, convengo; ma come fare altrimenti?

Fermato così il pensiero dell’opera, è stato un affluire da tutte le parti di questi vocaboli, come fosse stato aperto un asilo.

Ecco le capricciose, altere e petulanti parole della moda, delle eleganze, delle mondanità, posate come iridate farfalle sui fiori del giornalismo, prediletto loro veicolo, per giunger dall’estero in questa troppo ospitale terra d’Italia (importazione a sistema di libertà, cioè che non paga dazio); ecco con superbo incedere una folta schiera di parole, di formazione dottrinale, che si gloriano di rappresentare in tutto il mondo le ultime conquiste del pensiero e portano luminosi stendardi di vittorie; ecco, travestita all’italiana, un’altra numerosa schiera di parole straniere, prepotentissime, che si sono sovraposte insolentemente ed hanno dato lo sfratto ad altrettante belle e gentili parole nostre; ecco il pianger di queste, ferite a morte o combattenti invano, e dicono che sono belle e forti e che muoiono solo per viltà di chi in patria le tradisce e abbandona; ecco goffi e deformi costrutti e voci, frammisti a bislenche e bislacche locuzioni curialesche — veri micròbi mummificatori del libero e gentil nostro idioma; e in mezzo ad esse, col giglio in mano e incedere a ritmo — vergini o cortigiane? — le parole estetiche della nuova retorica; e, quali eredi di antica sapienza, voci palliate e togate, le quali dicendo che in ogni libro era dato loro onorevole luogo, tale pretendevano anche in questo; ecco le parole speciali della medicina, dell’ingegneria, della meccanica, dell’elettrotecnica, dell’economia politica, del giornalismo, dello sport, etc. etc. linguaggi minori nel gran linguaggio, piccoli moti nel gran moto delle parole. Insomma queste ospiti erano tante e di tante generazioni che io ne ebbi la casa, o, per dir proprio, la testa in confusione e peggio fu quando mi posi ad interrogare quelle che meno conoscevo: chi siete? d’onde venite? quali documenti recate con voi? siete figlie legittime o bastarde? quanti anni avete? con casa e tetto, oppure vagabonde parole? [p. 4 modifica]

Ma ecco dopo tutte costoro, sopraggiungere un’altra innumerabile schiera di altre parole chiedenti ricovero ed asilo, e lo domandavano con più diritto delle altre: erano le parole e i modi nuovi, germinati e cresciuti in casa, sul ceppo italico, indizio della forza riproduttrice di questa mirabile favella nostra; erano le parole vernacole e dialettali le quali dicevano: «Ma se accogliete tante sorelle voci forastiere, perchè chiudete la porta a noi? Noi siamo la mirabile forza alimentatrice e conservatrice dell’italianità; siamo l’humus e l’umore profondo: chi in noi ben ricerca, ben trova i documenti dell’unità della favella; noi — più dei puristi — siamo gli umili e forti reagenti contro la barbarie; molte di noi potremmo arditamente

uscir del bosco e gir infra la gente

perchè abbiamo antico ed alto diploma di nobiltà, e se molte fra noi rozze e plebee siamo, rozze siamo come il diamante che l’arte dell’orafo non raffinò. Dall’umile vita del popolo, parte la gran forza onde le voci cittadine e letterarie sono alimentate e aumentate». Così dissero, e per queste buone ragioni dovetti accogliere molte voci dei vari dialetti, specialmente quelle o che più sono tipiche o tendono ad entrare nel parlare dell’uso2; e non mai (non mi gettino via il libro i puritani della scuola detta manzoniana) così mi persuasi della libera unità dell’italiano come in questo studio della varietà dialettale.

Con tanta gente in casa, cioè con tante parole in testa, io fui sul punto di perdere la medesima e, per mia salute, abbandonare l’impresa, tanto più che mi persuasi che un lavoro di tal genere non sarebbe mai, per sua insita natura, stato condotto a compiuto termine. Ma fui sostenuto nell’aspra via da quel misterioso fascino che esercita la ricerca di un fenomeno naturale (fiore, insetto, parola), dal piacere dell’addentrarmi per sentiero, quanto si voglia umile, ma non calcato da altrui piede: in questo caso l’erudizione e la ricerca dilettano al pari di un’opera d’arte e porgono da sole bastevole premio ed alimento alla volontà.

Mirabile, invero, è la vita che anima questi minuscoli organismi, cioè le parole, ombre seguaci, segni di idee e di cose: recano in sè uno spirito di vita, paiono nuove e sono antiche, risorgono come Fenice [p. 5 modifica]dalla loro morte, nascono per connubio e per gemme, da bruchi divengono farfalle, hanno percorso strano e tortuoso viaggio, son peregrine lontane ovvero fiorirono al nostro sole, ma tutte rispondono ad una filosofica legge e ad una varia necessità; hanno un loro movimento, quasi orbita di moto, una loro vita, o molte volte secolare od effimera, vita solitaria mondana; si combattono o si sorreggono insieme. E al modo medesimo che un bicchiere d’acqua appare diverso, pure essendo lo stesso, a chi ne usa per dissetarsi e a chi ne fa argomento di studio naturale, così altro appare il linguaggio per chi se ne vale, inconscio, per le necessità della vita e per chi lo indaga dottrinalmente: mutevole ed uno, al pari di ogni altro fenomeno del vivere.

Per queste ragioni io tutte accolsi queste parole con benevolenza, non come purista, ma come filosofo.

Quanto poi alle risposte a tutte quelle domande «chi siete? d’onde venite? etc.», in altri termini, quanto alle spiegazioni delle parole, il lettore troverà molte disuguaglianze, giacchè l’etimologia, la storia, la definizione variano d’ampiezza secondo che la parola mi è parsa nuova e notevole, ovvero scarsamente o malamente trattata altrove. L’etimologia l’ho messa dove mi parve necessaria e sicura, dove era difficile ed incerta, o diedi la più probabile o rimandai ad opere speciali etimologiche. Il discutere ragioni filologiche avrebbe tolto troppo spazio alla necessaria e determinata mole del lavoro, tanto più che un poco di spazio volli serbare per me, indulgendo al genio e con qualche espressione della mia anima confortando di tratto in tratto la grave fatica.

Di ciò mi si faccia pur torto, ed io ne domando venia anticipata. Ancora: molte volte la storia e la ragione della parola o del motto mi riuscì impenetrabile, e.... me la son cavata come meglio ho potato: se alcuno mi vorrà erudire, mi farà favore e già lo ringrazio.

Di due intenti mi si voglia però tener conto: l’uno di aver fatto il possibile per ispiegare chiaramente, non parafrasando il vocabolo o dando incertissima definizione, e questo a costo di sbagliare, come mi è occorso qualche volta (veda però il lettore di non farmi colpa se delle parole note non trova quella spiegazione che deve invece cercare nei dizionari comuni: non dimentichi che questo è un supplemento): l’altra è la seguente: di solito i nostri scienziati e tecnici nei loro scritti si direbbe che dimentichino come esista un dovere, oltre che verso la scienza, anche verso il patrio idioma; alla lor volta i letterati ed i grammatici hanno davanti agli occhi troppi esempi letterari, troppa favella fiorentina e toscana, troppa filologia morta: per molti di essi [p. 6 modifica]entrare nella letteratura non vuol dire entrare più nobilmente ed utilmente nella vita, ma entrare in un museo: tutto è antiquaria, e chi non è antiquario non è pregiato. Di ciò si doleva il Leopardi quando, giovane, si recò a Roma: ripetere oggi la stessa cosa sembrerà un paradosso o una malignità, eppure è il medesimo fenomeno dovuto a persistenti tenebre d’anima. Comunque sia, ho cercato di togliere in questo lavoro tale dissidio; così del pari ho evitato il troppo e il vano dell’erudizione, presentando non la troppo onorata selva selvaggia delle ricerche, ma il frutto della ricerca. Da ciò non mi verrà lode da parte di molti, ma spero di aver fatto cosa utile a chi legge.



Ora conviene rispondere ad alcune osservazioni che mi potranno essere fatte.

«Tutte queste parole, e specialmente intendiamo dire quelle prettamente straniere hanno implicita sanzione, avendole voi registrate?».

Questa è domanda di difficile risposta. Chi vuol saperne di più, legga le pagine che seguono, nelle quali si tratta Dello stato presente della lingua italiana, e troverà, se non la risposta, alcuni criteri per una risposta conforme a quelle due leggi supreme che sono la necessità e l’evidenza.

Per conto mio personale, tranne che a quelle parole che io chiamerei universali o internazionali, il mio pensiero ama di non essere soggetto, ma libero, e per ciò è veramente libero; e nell’idioma dei padri trova pieno moto di espressione e se ne compiace. Ma questo criterio è troppo soggettivo per avere valore. Io mi sono specialmente curato del fatto — come già ho detto dinanzi — che queste parole straniere si incontrano, si leggono con maggiore o minor frequenza, e perciò qui sono notate quasi a memoria di ciò che oggi è l’italiano dell’uso.

La risposta è diffícile anche per quelle parole che, pur di provenienza straniera, sono più o meno bene assimilate, tanto che l’universale del publico non ne riconosce quasi più l’impura origine; che si sono sovraposte a belle e buone voci nostrane, e dai lessici speciali della corrotta italianità vanno passando nei dizionari dell’uso.

La stessa Crusca, il gran dizionario che dovrebbe essere il codice ed il regolatore della lingua, nella sua nuova ristampa, che è giunta [p. 7 modifica]alla lettera N, molte di queste parole di «corrotta italianità» ha accolto, anche senza esempi di autore, ma su l’autorità dell’uso. L’autorità dell’uso, appunto; giacchè più delle ragioni di analogia, di logica, di provenienza, hanno forza e valore le radici che le parole hanno messe. Ma anche i signori compilatori della Crusca in quante contradizioni sono caduti, quante parole omesse che forse si potevano accogliere! quante accolte, che forse si dovevano omettere! Ma chi si sentirebbe di far rimprovero a quei dotti signori? La difficoltà è nella cosa in sè, e tutt’al più si potrebbe dolerci che la gravità della grande opera ufficiale tolga ai compilatori agio di confessare le tristi difficoltà in cui si dibattono, giacchè al siì può dire? o non si può dire?, questione che facilmente sarebbe risolvibile con autorità dei buoni scrittori, si oppone il si dice?, o non si dice? che trasporta la causa del vocabolo all’istanza del giudizio popolare: fenomeno minimo di quel moto fatale verso le demagogie autoritarie, che è il carattere della civiltà odierna, e che anche nelle parole e nelle dispute grammaticali pesa con la sua bilancia. Per queste parole io ho creduto bene di fare alcuna distinzione o critica, per quanto breve; e secondo i casi è detto press’a poco così: i puristi riprovano, l’uso sancisce, più o meno; la parola italiana è questa, o valida, o consunta, come moneta fuori di corso, ovvero indegnamente usurpata dall’altra voce forastiera, che con essa forma doppione (questo è il caso più frequente); la tale metafora o estensione di vocabolo è più o meno conforme alla natura della lingua italiana, etc.: ma tutto ciò, dico, con somma parsimonia, anzi molte volte restringendomi a porre accanto alla parola italiana la parola francese o inglese da cui la nostra è o mi parve generata: al criterio del lettore il giudicare.

Altra obbiezione:

«Ma voi avete reso un pessimo servizio alla lingua nazionale, registrando tutte queste barbare voci, non escluse le effimere e stravaganti!».

Rispondo: A vero dire io crederei cosa più utile e giusta rivolgere il rimprovero a chi usa queste parole, non a chi le registra. Certo, io non credevo che il numero delle voci straniere fosse tanto grande, e come il Petrarca esclamava:

che fan qui tante pellegrine spade?

così mi venne la voglia di esclamare:

che fan qui tante pellegrine voci?

[p. 8 modifica] «Ma dovevate usare spietatamente la frusta come fanno i puristi nei loro libri» dirà alcuno rimproverandomi 3.

Ma io sono uomo privato, non sono gabelliere io delle parole; e poi, chi mi diede tale ufficio? ed è giusto che io debba addolorarmi o sdegnarmi per ciò che la nazione non cura? Un male che non si avverte non si può chiamar male. Dite al sudicio che il sudiciume è una sofferenza e vi risponderà che il lavarsi invece è una sofferenza; e infine non vi sono in Italia le Autorità tutorie del bello italo idioma, le quali per ciò hanno ufficio, onori e stipendio? Mi duole anzi molto perchè talvolta nel corso dell’opera l’ironia andò più in là dell’intenzione, ma per mia giustificazione devo dire che ciò mi avvenne in quei casi speciali in cui la voce straniera non cadeva sotto nessuna tenue scusa filosofica, ma era manifesta prova di dedizione vile o di contradizione palese.

E anche in questi casi ho avuto alcuna materia di conforto; e, in mancanza di meglio, può essere conforto a chi, con sincero animo, mi rivolge queste obbiezioni, cioè ai sinceri amatori della favella nostra; ecco: la più gran parte di queste parole, levandosi la maschera francese od inglese etc., apparivano generate da quella gran nostra lingua latina la quale mi pare bestemmia chiamare morta, quando in essa rimane tanta forza e tanta vita che non pur le lingue di tipo latino di essa vivono, ma le stesse lingue di tipo germanico, per esprimere il nuovo pensiero della filosofia, della logica, delle scienze, a lei, a questa ammirabile madre antica, domandano i segni ed i suoni.

E infine questa invasione, questo permeare, questa endosmosi, per così dire, di voci straniere, chi può assicurare che non rappresenti una necessità, un fenomeno di evoluzione complessa di questa «itala gente da le molte vite» di cui ciò che appare nel linguaggio è fatto parziale? Chi può non tener conto del premere delle altre civiltà e degli altri popoli con cui venimmo a più diretto contatto con l’unità e l’indipendenza? E fosse alcunchè di vero nell’opinione che l’Italia, fatta Italia, [p. 9 modifica]perdette italianità, che farci? Ma di ciò meglio si ragiona nelle pagine che seguono.

Più grave infine sarebbe il rimprovero di chi mi osservasse che io raccattai queste parole nei giornali o nell’immondezzaio dei particolari linguaggi. Certo se avessi cercato nelle ponderate prose accademiche o negli scrittori nostri fioriti, o nelle lodate rime dei molti e nuovi poeti, avrei raccolto altra materia di parole. Ma io per un libro di filologia viva, non potevo non tener conto di questa forma viva di letteratura che è rappresentata dal Giornale, dalla Rivista, etc. Che si direbbe di un osservatore il quale giudicasse il costume di un popolo osservando di preferenza le stoffe e gli orpelli che sfoggia nei dì festivi o nel carnevale e non desse importanza al modo di vestire quotidiano?



Esposte così le ragioni e i criteri dell’opera, qui non rimane posto che per una preghiera, ed è la seguente.

Può darsi che a taluno non giunga nuovo il mio nome, onde mi si dica: «Voi, che otteneste alcuna lode pel lepore e la sincerità di alcune novelle e simiglianti scritture, vi siete dato al grave mestiere e non vostro dell’erudito?».

Ecco, io credo che anche l’erudizione, quando parta da vero amore del sapere, contenga in sè stupendi elementi di arte e che la rigida partizione, che in Italia è soverchia fra artisti ed eruditi, se fosse componibile, sarebbe gran bene: del resto se a me accadrà la sorte dell’irrequieta cornacchia che fu respinta tanto dal gregge delle cornacchie come dal formoso genere dei pavoni, non mi dorrò nella coscienza perchè non l’ho fatto a posta.


II.


Ora rimane da affrontare più grave tema: ragionare cioè dello stato presente della lingua italiana, perchè fu per l’appunto considerando questo stato che nacque il libro odierno.

L’argomento è di tale natura che, a volerne dire compiutamente, sarebbe necessaria non una prefazione, ma un libro. Ciò non è qui cosa possibile e sono mal grado mio costretto ad usare la forma sintetica, tracciando a larghe linee piuttosto che descrivendo il tutto in modo [p. 10 modifica]finito e con compiuta analisi. E perchè questo argomento non poteva per sua natura non rivestire forma polemica, e perchè su di esso chiedevo il giudizio di persone dotte, non mi nascosi l’obbiezione che quelli che pensano diversamente dal mio pensare, potranno fare, cioè questa: «Voi affermate senza documentare, voi mascherate con lo sforzo dell’espressione (ironia, comparazioni) la mancanza di un fondamento scientifico, quale può essere dato dalla minuta analisi». Questa obbiezione che io, primo, feci a me stesso, ha risposta nel fatto che l’analisi è contenuta nel Dizionario stesso! Inoltre la necessità di una diagnosi, cioè di esaminare se questa odierna enorme produzione di parola e di modi rappresenti il normale fiorire dell’albero delle parole, o non piuttosto rappresenti una speciale forma di evoluzione della lingua italiana — la quale evoluzione se si fosse studiata un cinquant’anni addietro, non si sarebbe trovata di così grande estensione e con tali caratteri — questa necessità di una tale diagnosi mi si impose, e perciò senza timore scrissi e sottopongo al giudizio del lettore benevolo le cose seguenti.



Il popolo italiano, dalla quiete e dall’abitudine, non più dolorosa ormai di una servitù politica, tre volte secolare, si è trovato in questi ultimi anni, per forza di eventi e di fati, balzato nel moto multiforme e potente della vita moderna.

In qualunque modo si giudichi e quale sia l’avvenire d’Italia, sarà per lo storico futuro oggetto di meraviglia e di ammirazione come questo popolo — che per sì lunga età, a guisa di nobile decaduto, era campato dando fondo al capitale e spiritualmente nutrendosi di imbelli canzoni — abbia saputo diventare produttore di nuova ricchezza e camminare, egli disusato 4, ben spedito e geniale, su la strada maestra di quel moto evolutivo che è noto col nome di progresso. Presso la torre trecentista sorse il camino dell’alta officina; l’aratro a vapore sostituì l’antico vomere a foggia di chiodo; i templi, le badie, i castelli stupirono al nuovo moto delle aumentate genti.

Ma perchè la parola segue la vita, come l’ombra la materia, era naturale che in questo trapasso il popolo italiano dovesse rinnovare i [p. 11 modifica]suoi vocaboli; plasmarne di nuovi; adattarne di antichi; e come tolse molte forme della sua nuova vita dalle nazioni che in questo moto lo precedettero e con le quali venne in diretto contatto, così — vera legge del minimo sforzo — ne togliesse anche le parole: questo più specialmente da quella nobile Francia da cui da assai tempo ebbe e prese molta parte del lievito fermentatore della sua resurrezione; a cui somiglianza improntò i suoi istituti politici, amministrativi, militari, etc.; mentre la comune origine latina del linguaggio rendeva facile e naturale l’endosmosi, per così dire, e l’adattamento del vocabolo.

Anzi, come nel trasformare di un’antica officina manuale in altra officina meccanica, avviene, in quell’acre solerzia del mutamento, di rovinare e gettar via senza troppo discernere ciò che potrebbe ancora essere buono e in avvenire forse rimpianto, così in questo rinnovamento delle parole vennero messe in riposo molte voci belle ed efficaci pur di far posto alle nuove.

Dette queste cose, si presenta naturale la deduzione seguente: se questo evolversi di vita nuova è stata cosa ottima, del che niuno dubita, cosa buona del pari deve ritenersi questa rapidissima evoluzione del linguaggio, che ne è conseguenza necessaria. E allora come corollario si può aggiungere: adunque ogni restrizione al libero uso delle parole, è mera pedanteria di coloro i quali per amore all’immobilità della tradizione, vorrebbero mettere un freno al progresso ed al sapere: pari in insipienza ad una madre la quale per male inteso amore delle infantili grazie del suo pargoletto, gli impedisse, con pressioni e fasce, di crescere.

Questa opinione, cioè di accogliere il vocabolo prevalente, vorrei dir galleggiante nell’uso, senza troppo, anzi senza affatto discernere quale esso sia, nel modo stesso che si ama e spende la moneta in corso, è opinione difesa da non pochi dell’esiguo numero di coloro che talora riflettono sui vocaboli e su le locuzioni di cui fanno uso. Ed anche il grandissimo numero degli Italiani a cui è necessaria la parola pei commerci della vita, ma che non hanno mai pensato esistere una filosofia e una scienza del linguaggio, non farebbero diverso ragionamento nel caso che su questa materia credessero di dover perder tempo a ragionare. Questa, insomma, è, o meglio sarebbe, l’opinione più distinta fra coloro che non distinguono in fatto di parole.

E si può aggiungere da chi volesse meglio sostenere tale opinione: una grande letteratura non è mai stata legata allo questioncelle di lingua: informi la letteratura ellenica fra le antiche, liberissima e pure [p. 12 modifica]insuperato modello di eleganza e di forza; la letteratura anglo-americana fra le moderne, così ardita nel crear voci e nell’evolversi. Il disputare di voci pure ed impure, nostrane e barbare, è antico ozio accademico degli italiani. E — volendo far sfoggio di citazioni autorevoli — Giulio Cesare, fra i latini che pur tanto disputarono di voci pure ed impure, non ci avverte di fuggire siccome scoglio ogni parola fuor del comune 5, ed il Leopardi fra gli italiani che furono eredi dei latini di questa passione a disputare di lingua, a proposito del «si può o non si può usare un dato vocabolo», non dice con quell’umore che gli era proprio: Se gli antichi non l’hanno detto non hanno però lasciato per testamento che non sì possa dire [?] 6.



Vero è il principio fondamentale ora enunciato e dedotto dalla realtà e dalla necessità, vere, almeno in astratto, sono queste deduzioni; ma vero è pure che non è sempre bastevole un sicuro principio per ispiegare tutti gli aspetti di una questione. Piace un’unica legge, perchè facile ad intendere; piace sotto di essa raccogliere tutti i fenomeni, e con le parole ben si può fare questo: nella realtà e nella verità molti fenomeni sfuggono a questa costrizione, onde la necessità del distinguere frequente come ammonivano gli antichi logici; e mi si conceda, onde la necessità del raddolcire la mente, giacchè nel risolvere una questione la difficoltà non sempre nè tutta è in sè e per sè, ma molta parte è nella passione dell’idea preconcetta. Nè ciò soltanto; ma come diversa è la direzione astronomica di un fiume e il reale suo corso; come diversa è la teoria sul male e l’applicazione sul malato, così un principio assoluto ed unico non sempre è chiave buona per schiudere tutto il contenuto dei fatti; e ciò tanto più vale quando — come forse nel caso presente — altri principi urtano in conflitto col principio fondamentale a modo di correnti minori contro grande corrente, e bisogna pure tener conto di questi altri principi se pur si ama di andare alla ricerca del vero e non soltanto di fare eleganti e lodate dimostrazioni. [p. 13 modifica]


Quali siano le distinzioni, quali gli altri principi che urtano in conflitto con il principio fondamentale e magnifico, è argomento di ciò che segue.

Intanto ecco un ben curioso contrasto: per alcuni la lingua italiana si trova in periodo felice di evoluzione e di rinnovamento, per altri siamo a mal punto, e l’organismo risultante da tante voci e modi strani, arbitrari, barbarici, etc., non è (usiamo un’espressione mite) un prodotto buono di selezione e di evoluzione.

Qui alcuno può dire: «Questa è l’opinione di pochi puristi, gente che non ha più autorità», e qualche malevolo può aggiungere: «Conosciamo il vostro giuoco! vecchio mezzuccio di retorica, concedere per meglio negare, fare il liberale affinchè le catene sappian di odor di rosa».

Anzi tutto io dico di essere in buona fede: sì, è vero: questa è opinione di pochi puristi, ed è pur vero che i puristi non hanno più grande autorità. Però posso assicurare che vi è un certo numero di persone, non grammatici, non puristi, non pedanti, che la pensano in questo modo pessimista. «E voi siete fra costoro!». Io? Io noto il contrasto, tutt’al più come opinione personale credo una cosa, che in Italia si scriva poco bene l’italiano, e forse, male. Qui è lecito supporre questa obbiezione da parte di molti: «Come? Si scrive male? Ma quando mai, ad esempio, ci fu più bella fiorita di voci e di imagini che nella prosa degli esteti?». Non dico di no; è questione di gusti e di tempo. Anche la prosa di Daniello Bartoli apparve ed è magnifica, eppure giustamente si reagì contro quella scuola e quell’arte di scrivere dal Leopardi e dal Manzoni in nome di quella schiettezza e sanità che, se sono un pregio nella vita, non sono meno nelle lettere; in nome di una prosa che non fosse bagno di melassa, ma arma nuda e vibrante nella battaglia delle idee. Molta di questa prosa chiamata estetica, che tanto oggi piace, e specialmente quella a buon mercato, va diventando — come l’arte floreale in architettura — la prediletta dei bottegai arricchiti. È prosa che nasconde sotto il belletto della nuova retorica i gonfiori della scrofola: afferratela e stringerete adipe: nuova retorica, giacchè noi «come quei c’ha mala luce», vediamo i vizi della retorica lontana, cioè del passato, quella che è vicina a noi, non vediamo. «Ma, di grazia, come fate a giudicare se una prosa è bella o brutta? pesate col bilancino le parole e le frasi come fanno i puristi?» mi si può domandare. [p. 14 modifica]

Dio me ne liberi: ecco, nel giudicare una scrittura di prosa io mi sforzo di mettermi nello stato di una persona, non letterata, ma di buon senso: quando capisco proprio bene e quando mi godo a leggere e più a rileggere; quando tocco, sento, respiro nella pagina, allora dico che è bella prosa, sia fatterello per bimbi, sia alta trattazione; ma ciò nelle prose nostre moderne mi accade di rado, ed ho sentito che anche ad altri accade lo stesso.

Qui devo supporre che alcun altro mi osservi: «Ma vi sono in Italia, fuor degli esteti, molti scrittori pieni di brio, la cui prosa spuma e scintilla». E chi lo nega? Se non che, osservando bene, m’accorgo che di solito si tratta di spuma e scintillio di derivazione francese: in tal caso, potendo, vado alla sorgente e leggo libri francesi lasciando ad altri di ammirare la ben nota virtù assimilatrice degli italiani. Il nostro publico aristocratico, infatti, fa proprio così, cioè legge di preferenza libri stranieri: i librai possono informare su tale proposito, e una statistica su la importazione dei libri e dei giornali di Francia e un raffronto con lo scarso smercio dei troppi libri italiani potrebbe riuscire istruttivo.

«Ma questo è affare di stile, non di lingua, due cose ben distinte», dirà il lettore che sa di retorica. Vero, due organismi distinti, ma con funzione reciproca; non so, come il cuore e il polmone. Il forte uso della parola e della frase straniera porta il pensiero ad amalgamare le parole, anche italiane, secondo una struttura (stile) che non è la nostra, o, quel che è peggio e più frequente, a darci un prodotto bastardo: per contrario un pensiero conforme al sentimento italiano reagisce su la parola e su la frase, le domina, le seleziona, cioè o le espelle, o le fonde in modo armonico: ma ciò avviene spontaneamente, per impeto e forza di calore naturale; in tal caso le parole straniere, anche crude senza la veste o desinenza italiana, non sono — a mio riguardo — paurose. Tutto il nodo della questione in fondo è qui.

«Secondo voi, dunque, di buoni scrittori ce ne sono pochi».

Sì, pochi che congiungano quella vivacità e lucidezza che fanno la prosa dilettosa (e ciò è tanto necessario che se uno scrittore mi scrive anche alla francese ma si faccia gustare, gli dico bravo!) con il sapore dell’italianità: fra i letterati eruditi non mancano alcuni di fama assodata che scrivono mirabilmente, e sono semplici, lucidi, facili. Ma la più parte di questi letterati eruditi trascura troppo l’arte dello scrivere, e ciò per molte cause, non ultima questa che io credo erronea: essere la gravità scientifica indipendente dalla genialità della forma. [p. 15 modifica]

Fra gli scrittori di amene lettere non mancano prosatori di forte originalità italiana, e non mancano forze nuove di buoni e animosi combattenti in difesa di una prosa la quale sia sopratutto italiana. Non faccio nomi nè cito esempi perchè sembrerebbe che io volessi lodare opere ed autori poco noti od ignoti.

Ma pur troppo, accanto a questi buoni e coscienti il numero degli improvvisatori, degli spensierati, dei dilettanti di letteratura è presso di noi soverchiante. Il publico pone, oimè, tutti in un fascio e poi, come tutti i re, anche il publico ha troppi ciceroni e cortigiani ai fianchi, i quali gli impediscono di conoscere il vero; e infine il nostro publico manca, per complesse ragioni, di elementi di giudizio proprio.

Una cosa è certa, e questa è detta ai facili dilettanti: in arte non si improvvisa: scrivere è arte e domanda genio e pazienza, cioè preparazione.

Tutti vedono gli oggetti ed i colori, ma solo il pittore sa come si devono disporre questi oggetti per esprimere l’anima del colore e delle cose. Queste leggi dell’arte ben curano i prosatori francesi di cui noi ammiriamo la facilità e la semplicità. Quest’arte non ha nulla a vedere con la virtuosità, con le lambiccature, con la biacca, con gli spasimi, con gli artifici di certa prosa alla moda: coreografia di parole, edifici di tela dipinta che mascherano il vuoto. Cioè, mi correggo: si può anche improvvisare in alcuni rari e specialissimi casi; ma allora esiste una segreta e potente preparazione dell’anima.

Vero è che questo argomento scotta e poi è troppo soggettivo, nè posso nascondere — lo confesso con aperta sincerità — di non portarci alcuna passione.

Giudichi dunque ognuno a suo piacimento.

Ma oltre a questa prosa artistica e dotta v’è la prosa dell’uso quotidiano, la lettera, il resoconto, l’opuscolo, il progetto, il manifesto, il bollettino, il programma, l’istanza, il manuale, la nota, la scritta commerciale della curia, degli uffici dei ministeri, etc., etc. Che in queste scritture, le quali non richiedono arte, si usi un linguaggio fuori del decoro e di una legge, quale essa si sia 7, credo che tutti quelli che hanno [p. 16 modifica]sano giudizio convengano. Io, ad esempio, ho inteso dei tecnici, gente solitamente aliena da ogni pensiero letterario, dolersi perchè in certe scritture italiane di carattere tecnico nelle quali la precisione e la chiarezza sono necessarissime, si capisce a stento che cosa in esse si è voluto dire: così non accade in scritture consimili, straniere. Non si può dare giudizio di condanna più semplice e terribile di questo.

Tale miserevole stato dell’italiano dell’uso spicciolo, capisco, non tocca molto chi specula in alto, o chi occupa le grandi gerarchie letterarie, ufficiali o accademiche.

Qui io sento ancora, e più forte, sibilare all’orecchio questo rimprovero: «È inutile che voi vi camuffiate: in voi si scorge la chierica: voi siete un pedante e un purista».



Bene, vediamo! e scagionandomi di questa imputazione di purista, anzi notando alcuni errori di giudizio dei puristi, mi si conceda l’opportunità di meglio entrare nel vivo dell’argomento.

Il confine tra il purista appassionato ed il pedante non è facile: certo formano esigua schiera, e questo essere essi in pochi a sostener una battaglia, lo confesso, mi induce a benevolenza anche nel considerare il male che con la loro intransigenza possono aver cagionato. Si intende dei puristi e pedanti sinceri, perchè i mercenari delle umane lettere che a simiglianza del giudice iniquo osservano le leggi in pretorio e fuori le dilaniano, non entrano nel mio conto. Per i puristi questa nuova italianità è una perdita di italianità: gli stessi vocaboli forastieri, ma necessari perchè dovuti al fatale preponderare di un pensiero più evoluto del nostro, senza dei quali dovremmo rimanere a bocca aperta come nel giuoco del perchè in cui si deve sfuggire una data lettera, sono tacitamente condannati.

Che dire poi dell’avversione per tutta quella meravigliosa fioritura di voci, espressione del nuovo pensiero e della nuova scienza, comuni a tutte le nazioni dotte, vero piccolo vocabolario universale? Non potendole distruggere, le vorrebbero ristrette al rigido linguaggio delle scienze: fanciulli che si illudono di potere arginare un fiume che straripa magnifico nel comune parlare!

E poi — ripeto — per noi italiani che deriviamo dalla coltura greco-latina, come non sentire un fremito di orgoglio vedendo che i [p. 17 modifica]superbi popoli angli e germanici, creando queste voci dottrinali, sono costretti a ricorrere alle due lingue che io non oso chiamare morte, latina e greca, in cui sembra, come entro miniera profonda, essersi stratificato nei secoli il fiore dell'umano pensiero? Meravigliosa potenza, occulta anima della parola!

Ancora: la grandissima parte delle parole e modi che i puristi riprendono 8 sono di provenienza francese: il francese — cosa nota — ha la sua parola di un’elasticità sorprendente, cioè può adattare una sola voce a vari sensi; passa con agevolezza e con predilezione dal senso proprio alla metafora più ricca e «ipertrofica »: il vocabolo italiano invece si estende meno, ma in cambio ha la gradazione o scala dei sinonimi; l’enfasi metaforica non gli è naturale: il francese ha, in istato di pronta azione un numero stupendo di modi di dire, veri pezzi di costruzione, precisi, incisivi, ben selezionati, pronti per esser messi in opera, parlando o scrivendo.

«E l’italiano non ne ha?». Ma ne ha un numero enorme come ogni lingua viva: essi costituiscono gli elementi fecondatori e animatori del linguaggio: una lingua si dice morta quando questa funzione di produrre nuovi modi in lei cessa: la locuzione o modo di dire è un aggregato fisso di poche parole, talvolta senza senso se prese alla lettera, o di senso bislacco, ma che esprimono l’idea in modo preciso, subitamente intesa da tutti. Sono come pezzi di pensiero già formato, cartucce in deposito pronte per lo scoppio 9.

Ma la differenza fra l'italiano e il francese consiste in questo, che moltissimi modi di dire italiani o sono troppo letterari o sono dialettali; ogni dialetto ne ha un patrimonio stupendo: rudi, caustici, saette da getto: fra dialetto e dialetto poi si riscontrano somiglianze che formano un godimento per il ricercatore 10 e persuadono della enorme [p. 18 modifica]vitalità della favella italiana, così genialmente una e varia. Oimè! è una ricchezza che non esce dalla regione e dal parlar dialettale, e molti scrittori avrebbero riguardo ad usarli..... come ad andar fuori di casa senza cravatta. Ne consegue che il modo francese come più urbano, più mondano, più diffuso, è spesso usato a danno del modo nostro che lo potrebbe sostituire. E ciò che accade pel modo di dire, a maggior ragione accade per la parola: adoperare la voce unica alla francese è più facile, ricercare la voce precisa fra le sfumature dei sinonimi è più difficile; questa, anzi, del trovare il giusto colore nella gran tavolozza dei sinonimi, forma una delle difficoltà dell’italiano: lingua per altre ragioni, facile.

Qual meraviglia se in ciò si manifesta la legge del minimo sforzo, cioè se noi usiamo estensioni, metafore, locuzioni alla francese?

In quanta misura poi concorra una certa nostra indolenza e la preponderanza di un pensiero più maturo od evoluto nella modernità che non sia il nostro, non è qui il caso di dire. Oltre a ciò vi sono voci e locuzioni alla francese così fuse e connaturate oramai, in cui il pensiero cade così spontaneo come ruota entro rotaia, come dente in dentiera, che converrebbe, per evitarli, avere sempre un purista ai lati o fare un tale studio di scelta, incompatibile con la comune coltura e col tempo di cui uno può disporre.

I puristi ebbero torto di non tenere nel dovuto conto queste cose di fatto e questa legge di necessità, e di nutrire troppa fede nella predicazione della buona italianità e nell’opera della scuola.

Quasi quasi avrei più fede in una specie di «lotta per la vita» che moltissime belle parole italiane combattono per non essere soffocate 11.

Vi sono parole italiane così belle, alate, luminose, che qualche volta danno delle feroci stoccate alle loro consorelle franco o anglo-italiane:

[p. 19 modifica]voglio dire che se si scrive con un po’ d’amore, esse ricorrono spontanee su la penna, come più immediate e proprie espressioni dell’anima italica. Queste nobili parole ci porgono un altro conforto, un po’ magro se si vuole, ma che vale meglio di niente. Quando gli italiani si vestono proprio dalla festa, cioè, fuor di metafora, nelle scritture solenni, allora queste parole sono cercate, allora ricorre la richiesta: «O come si dice in buon italiano?» e si pensa sul come si dice e si cerca di levare un po’ di ruggine a questi vocaboli, di provarli nelle congiunture; giacchè anche nelle parole, come negli organi del corpo, la mancanza di esercizio atrofizza e toglie la funzione.


E già che entrammo in argomento trattando di puristi, proseguiamo con essi.

Vi sono fra i puristi alcuni di bocca più buona e di manica più larga, i quali si accontenterebbero della voce straniera purchè avesse un tantino d’ageggio italiano, cioè si coprisse almeno le pudende barbariche con un paio di mutandine o una foglia di fico italiano, cioè fossero assimilate.

E vada pure per l’assimilazione: certo l’Italia del Quattrocento e del Cinquecento poteva accogliere la barbarie d’Europa nel suo grembo e penetrarla dell’ardente sua vita. A quel tempo le parole straniere, relativamente poche, si dissolvevano, fondevano, assimilavano per virtù del calore organico del nostro linguaggio.

Ma allora l’Italia aveva il monopolio della intellettualità; letteratura italiana voleva dire letteratura europea, e tale onore le fu conservato per impulso o tradizione fino a quasi tutto il Settecento, cioè anche quando non ne era più degna: oggi queste voci «barbarie, barbari, barbarismi», così care ai puristi, prese in valore non storico o filologico, ma reale, farebbero sorridere. Questi barbarismi rappresentano cose o idee che noi togliemmo per forza da altri popoli i quali andarono avanti nel tempo che noi restammo fermi. Bene: molte di queste parole — almeno sinora — non si adattano all’assimilazione, bisogna spenderle come sono. Qui un purista può dirmi:

     «Ma il popolo non le usa!»
     Ma il popolo ha un vocabolario più ristretto.
     «Ma si fa un giro di voci!»

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Questo potrà fare il purista, il letterato, il grammatico, gli altri no: chi trova un ponte, non gira il corso del fiume per trovare un guado.

L’evidenza porta ad accogliere la seguente legge, cioè che non si può sacrificare una parte anche minima di pensiero alla purità del linguaggio, tanto è vero che la reale bellezza di un linguaggio è il pensiero che vi risplende. Chi diversamente stabilisse, si dovrebbe adattare a vedere la sua legge violata, e nessuna cosa è più goffa ed imbelle che stabilire norme che ben si sa che saranno infrante.

La necessità insegna la legge, la quale è buona appunto perchè necessaria. Già tant’è: queste parole sono accolte nel fatto. Capisco: l’italiano a cagione della compiutezza vocale delle sue parole si presta meno bene del francese ad inserire e fondere nel suo organismo voci di altre lingue: di questa difficoltà è prova il fatto che gli scrittori più trasandati hanno verso queste parole una specie di riguardo istintivo, e le ricoprono col carattere corsivo, così che se le parole fossero toppe, molte pagine di prosa darebbero sembianze di abiti rattoppati. Dunque?

Dunque io penso che è inutile opporsi all’accettazione tanto dei così detti barbarismi e gallicismi come delle nude voci straniere, giacchè la loro forza è maggiore. E nè meno penso che per questo soltanto la lingua italiana vada in rovina.

«Ma — domanderà alcuno — accogliendo e barbarismi e anche le voci prettamente straniere, entro quali limiti ci comporteremo?». Questo io non so, nè mi sembra che alcun areopago di grammatici possa ciò stabilire. La discrezione e il limite potrebbero essere dati dalla necessità, ma più da un nobile senso individuale di italianità, per cui l’uso, quando è inutile, di parole straniere dovrebbe ripugnare come ad una persona pulita ributta il compiere un atto sudicio, anche se essa è sola e non vista. «Termini incertissimi!» Lo so, ma di più veramente sicuri non ne conosco.

«E — potrebbe domandare alcuno — l’opera della scuola perchè l’omettete?» Un sentimento di riserbo mi consiglia di tacere le ragioni per cui io non ho fede nell’azione della scuola italiana in difesa dell’italianità. Ma che dico? Che bisogno ci sarebbe di difesa? Basterebbe far conoscere ed amare questa italianità mirabile, e la miglior difesa starebbe in quella conoscenza e in quell’amore! La nostra scuola — tranne poche eccezioni dovute esclusivamente all’opera spontanea di qualche insegnante — svolge dei variabili programmi ministeriali, caleidoscopio di imparaticci, ut impleatur scriptura. E l’insegnamento della storia letteraria, ridotta ad una specie di catechismo: che l’arte sicula è [p. 21 modifica]provenzaleggiante, che la prosa dei Fioretti è di aurea semplicità: che la scuola del Guinizelli è dottrinale: che il Boiardo fonde i due cicli: che il metodo storico scientifico deve guidare severamente le ricerche, etc., etc.; quando a queste parole non corrispondano le nozioni, è proprio utile? Alla sincerità delle lettere e della vita meglio giova saperne di meno, e per compenso ottenere che il giovane conosca un poco di logica e di decoro nel comporre! Del resto i giovani stessi rispondono a questo punto interrogativo praticamente: oramai essi non sentono e non curano che quegli insegnamenti che hanno un diretto rapporto pratico con la loro futura professione. E detto questo è detto anche troppo.

Tornando al tema e concludendo, credo doversi ritenere anche questo uso delle voci straniere un fatto normale, «fisiologico» per così dire, di evoluzione del linguaggio. Se non che esso si complica e si somma con altri fenomeni, i quali per quanto benevolo giudizio si voglia dare, non possono non giudicarsi gravemente. Dalla «fisiologia» passiamo alla «patologia», almeno a me sembra; ed a questi fenomeni io alludevo in principio parlando di correnti in urto e contrasto con la corrente o principio maggiore. Vedrò di essere breve.

Ecco: qualsiasi parola straniera, senza distinzione di necessaria o non necessaria, si innesta nel parlare e nello scrivere nostro senza trovare opposizione o difesa; anzi quanto più noi dal popolo incolto risaliamo alle persone di media coltura, tanto più chiaro appare un vero compiacimento nell’usare il vocabolo e la frase forastiera. Si direbbe che il poter giungere al buon uso di una parola non italiana rappresenti una conquista di intellettualità! Vi sono poi alcuni che in questa predilezione del suono straniero sono di una spietata sincerità: non si nascondono, ma credono anzi di operare a fine di bene e di affrettare per tale mezzo l’avvento di un linguaggio unico, universale.

Che dire? Io da vero non so. Che sia un male la varietà dei linguaggi fra gli umani, è verità troppo antica per qui tornare a ripeterla. E come corollario fu detto: «Se gli uomini parlassero tutti uno stesso linguaggio, la fratellanza fra gli umani avverrebbe più facilmente e le discordie e le dissenzioni scomparirebbero». Argomento troppo ideale, troppo fallace o troppo tribunizio per discuterlo soltanto. Caino uccise Abele pur favellando nel linguaggio del paradiso terrestre, e la forza dell’insano leone che Prometeo infuse nell’uomo è un micròbio che, per quanto attenuato dalla civiltà, il sincero fisiologo dell’anima scopre ancora nell’anima. Esso si manifesta all’infuori di un qualsiasi volapük umanitario. Io non credo che per questa strada ci avvieremo ad un [p. 22 modifica]linguaggio unico «umanitario», credo che oltre a deformare il linguaggio natio, favoriremo il prevalere del linguaggio di alcun popolo più ampiamente dominatore e diffuso pel vasto mondo; questo popolo impone le sue parole, non riceve le altrui.

C’è poi un numero anche maggiore di persone alle quali questo fluire di voci straniere, e coniarne a capriccio, e torcere il senso alle antiche, e non ammettere alcuna legge nell’arte dello scrivere, sembra un riflesso di quel moto intellettuale che tutto indaga, infrange, abbatte, apre tabernacoli, smuove cardini venerandi. E richiamando un’imagine materiale, la società presente può ricordare un’immane opera di demolizione: gente col piccone, invasa dalla febbre della distruzione. Io in verità come osservatore molto solitario, trovo questo spettacolo interessante, e come artista mi dolgo di qualche dolce memoria, di qualche elegante opera degli uomini che la moderna furia demolitrice non risparmia, ma spezza barbaricamente e accumula con le macerie. Ma quanto al resto, per questa distruzione della antica Gerusalemme non mi sento di piangere. È la città del Sole che si vuole edificare? Ebbene, anch’io domando un piccone demolitore. Ma, oimè! I nuovi edifici che vanno sorgendo, hanno sugli antichi tutt’al più il vantaggio del nuovo intonaco; ai vecchi tabernacoli se ne sostituiscono dei nuovi; le vecchie esecrate catene, il ferraccio dei vecchi odiati chiavistelli è rifuso ancora e si fabbricano catene moderne e chiavistelli nuovamente perfezionati. Insomma il materiale delle nuove costruzioni è lo stesso: l’impasto umano è immutabile. Da noi in Italia il gridare è assordante, l’impeto demolitore è stupendo, ma quando si viene al fatto, quando si tratta di metter le radici al sole ad un bosco maligno che aduggia le nuove piante, allora si nota che ognuno su questo imprecato bosco ha la sua ipoteca che esso serve come diritto di asilo, di ricovero ai malfattori, che offre gli stecchi morti alla povera gente; che è......? il bosco rimane. Inoltre come la materia si svolge per organi soggetti ad immutabili leggi, così la parola si evolve per logica. Può essere un piacere anche questo di andare contro la logica, ma si corre il rischio di non intenderci più. E poi si badi: fare i riottosi, i faziosi, gli insubordinati, è molto facile: essere veramente ribelli è cosa altrettanto difficile come eroica. A dispetto delle apparenze, rimane nell’uomo la sua essenza servile. Soltanto la divina eroica sapienza è tribunale competente a dichiarare l’uomo, non più servo, ma libero veramente. Moltiplicate leggi, istituti, fate pure operazioni radicali sul corpo sociale, il male si rinnoverà sempre. Occorre l’asepsi, oltre che in medicina, anche [p. 23 modifica]in sociologia. Credere poi di far della ribellione anche per mezzo delle innocenti parole italiane, è esercizio belligero di bimbi in ricreazione. Capisco: queste sono cose che se anche si pensano, non si dicono. È vero. Io però non ho nessuna azione al banco del credito popolare e non temo di manifestare il mio pensiero.

Un’altra e ben curiosa categoria di persone è quella formata da gente di scienza e di studi; accademici, poeti, letterati, i quali hanno proprio due diversi tipi di linguaggio, l’uno come vien viene, per l’uso spiccio (è l’abito sudicetto per casa), l’altro adorno dei più lustri e gemmati vocaboli con tutte le decorazioni del vocabolario per le scritte solenni (è l’abito da parata). Che dire poi dell’italiano parlato dal ceto signorile e mondano? È una specie di gergo, un curiosissimo impasto, dal cui studio si possono ricavare effetti comicissimi. Che dire di certi scrittori che pure hanno autorità e buon nome, a cui l’arme dello scrivere sembra senza punta se non è temperata di quando in quando nel vocabolo forastiero? e si è osservato come di due parole che indicano la cosa stessa, di uguale forma, etimologia, ma l’una italiana l’altra francese, la prima includa senso plebeo, la seconda grazia e gentilezza? Non vi aggiungo corredo di esempi, chi ne vuol trovare sfogli il Dizionario, e ne troverà moltissimi. Ma il popolo stesso in cui per legge naturale sta la forza conservatrice del linguaggio, appena riesce ad impadronirsi di una voce forastiera, si è osservato come gode di usarla? E la straordinaria facilità con cui le voci effimere del gergo francese passano nel nostro? Anche per codesto non cito esempi: si sfogli il Dizionario.

Dopo ciò è, io non so se più comica od ingenua, l’osservazione che moltissimi fanno e sul serio: «Ma, scrivere in italiano è molto difficile! Non si sa mai quale parola, parolina, preposizione usare! Non si è mai sicuri. Invece in francese!» Sfido io! Anche le paroline, cioè i piccoli cardini delle parole traballano! Tutto questo, si noti bene e già l’ho detto, fu da me trattato oggettivamente nel dizionario: ho notato cioè il fenomeno, come un notaio fa un inventario. Ma qui, come italiano, non posso nascondere che ciò porge la brutta imagine di una servitù, ricercata e volontaria.

«Il quadro è pessimista e voi l’avete specialmente dedotto dalla lettura dei giornali e simili stampe». È in parte cosa vera: ma io per un libro vivo — torno a ripetere — non potevo non tener conto di questa forma viva, popolare dominante di letteratura, che è il giornale. La lingua usata dal giornale è di solito deplorevole, convengo; ma [p. 24 modifica]intanto il giornale, per la stessa sua necessità di vivere, cioè di essere comprato, inteso, letto, deve essere chiaro e facile; è costretto cioè a mettere in pratica il primo degli ammaestramenti di ogni retorica, quanto alla prosa: chiarezza. Certo il giornalismo italiano subendo l’influsso del grande giornalismo francese ed inglese, etc. s’imbeve di un numero esagerato di voci e di modi stranieri: la fretta, la conoscenza, spesso incompleta e della lingua da cui traducono e della propria, una specie di snobismo di affettare voci nuove, aumentano considerevolmente tale difetto, e sotto questo riguardo il giornalismo è uno dei più poderosi veicoli di voci e modi stranieri. Molte volte, anzi, ho pensato quale enorme forza di penetrazione, abbia una parola straniera, posta ad esempio per titolo di uno scritto, stampata a migliaia di copie, letta da più migliaia di nostri lettori! Ma nel tempo stesso quale ammirevole ricchezza di lingua viva, quale dovizioso fiorire di germogli nostrani, quale stupendo contributo di forze attinte dalle inesauribili miniere della tradizione letteraria per un verso e dal popolo per l’altra, contiene il giornale! Fenomeno bello e consolante! 12.

Ancora: «Quadro pessimista è il vostro giacchè la letteratura italiana contemporanea vanta pagine di prosa d’arte, di romanzo e di dottrina, per cesellatura e martellatura, squisita; e se anche la prosa nostra comune non regge al confronto della chiarezza e freschezza della francese, dell’incisione e finezza filosofica dell’inglese, noi per compenso godiamo del conforto di versi di bellezza grandissima». A queste cose si potrebbe variamente ed argutamente rispondere, se non che nelle pagine che precedono ho detto della prosa moderna oltre l’intenzione e forse, l’opportunità. Quanto ad affermare un sicuro giudizio su la bellezza della prosa e poesia contemporanea, è prudente attendere il responso del tempo, giudice ultimo sicuro e inappellabile pei molti candidati al concorso dell’immortalità letteraria; ed io dubiterei nell’affermare che molte pagine giudicate stupende oggi, contengano quegli aromi e balsami misteriosi della conservazione contro il tempo, e non contengano in vece germi di dissoluzione o putrefazione. Quante pagine antiche della negletta classicità sono tuttora freschissime, e da quante pagine di prose e poesie, giudicate ieri bellissime, sentiamo venir fuori un tenue lezzo di stantio; e quanti fiori stupendi di poesia piuttosto che di fresca e rugiadosa corolla, sotto più sottile esame ci appaiono fatti di fine stoffa. [p. 25 modifica]

Vecchia cognizione è pur questa che l’opera poetica nella letteratura italiana fin da antico vince quella prosastica: l’ingegno italiano sembra con maggior agio muoversi nell’elemento del ritmo, e prescindendo dalla forma lirica, nella poesia didattica, narrativa e romanzesca v’è un tesoro non del tutto a tutti noto ed esplorato, di semplicità, facilità e di grazia che a fatica cercheremmo negli esempi di prosa 13.

Ma astraendo da ogni giudizio su la prosa letteraria, è deplorevolissimo — ripeto — il decadimento della prosa comune presso di noi, perchè essa è l’arma viva e lucida con cui combatte il pensiero moderno.

Questa cosa nessuno oserebbe negare, ma invece di confessare le ragioni vere, si preferiscono le ragioni speciose fra le quali una delle più celebri e note è questa: «Noi italiani non abbiamo unità di lingua», della qual cosa ci siamo specialmente accorti dopo che fu compiuta la unità politica della Nazione, dopo che l’affermazione

                    una d’arme, di lingua, d’altare,
                    di memorie, di sangue e di cor,

costituì presso le altre genti uno dei più importanti diplomi storici per reclamare indipendenza, unità e libertà.


Ecco, per esempio, come una notissima scrittrice si giustifica presso i francesi:

«In Francia voi avete una lingua media che tutti parlano e capiscono; è una lingua limpida, chiara, pieghevole. Tranne alcuni stilisti, tutti i vostri scrittori sono compresi, tutti i vostri giornali possono essere letti e capiti in tutta la Francia. Invece noi dobbiamo togliere al nostro stile ogni ornamento; noi dobbiamo essere eccessivamente semplici per essere sicuri che tutti possano capirci».

Porto un documento per dimostrare come questa vieta querimonia sia ripetuta ancora. E fin a quando? Una piccola particella di vero con gran contorno di specioso, un fenomeno in fine poi non spiacente perchè frutto naturale, cioè frutto di condizioni storiche, geografiche, etniche, le quali pur contribuirono a far sì che l’Italia, prima del suo periodo servile, piccola fra le nazioni, fosse per molteplicità di vita un mondo meraviglioso essa stessa, è elevato a causa prima, ineluttabile. Essi domandano: «Perchè non si scrive bene? Perchè i nostri libri valgono meno etc.? Perchè la diffusione delle opere letterarie nostre è così [p. 26 modifica]limitata? etc.». E rispondono: «Perchè non abbiamo unitá di linguaggio!». «Perchè — chiedeva quella lavandaia — i miei panni non mi riescono mai puliti? Perchè non ho ancora trovata la pietra dove sbatterli bene».



Ed ecco letterati ed artisti d’accordo con quelli che io chiamerei i nuovi pedanti, cioè i seguaci della così detta scuola manzoniana che elaborano il tipo unico dell’italiano. Gente egregia, che ha grande autorità nelle scuole e fuori delle scuole, ma che è presa dalla fissazione di stuccare, lucidare questa ribelle lingua italiana, che la vuole pareggiare questa rigogliosa lingua italiana! fanno come uno scrupoloso giardiniere che si sia fisso in testa di cimare e far geometrica una gran selva: ecco s’affanna, s’adopra; ma da una parte cresce, dall’altra manca, e pota, e taglia, e riduci! oimè, ecco da un mantello fatto un berretto; da una bella fíumana un ruscello!

Questo paragone è offensivo: ma siccome non passione, non malo animo, ma semplice amore di verità muovono il pensiero, così dico liberamente. Da troppo tempo sacrifico l’utile alla verità per emendarmi ora; ed in ciò ebbi un grande Maestro.



Non creda, il lettore benevolo che a questo punto io voglia entrare in quell’inestricabile ed antico ginepraio che è la questione della lingua italiana. Sono questioni che non si risolvono, non perchè siano irresolubili, ma per la pervicacia delle menti.

Ecco tuttavia qualche parola in brevità di sintesi:

Per quali ragioni e per quale procedimento questi due termini, cioè il più perfetto esemplare dei dialetti italici, che è il toscano, ed il prodotto dei vari dialetti italici — raffinato, purgato, emendato su quell’esemplare — si venissero accostando sempre più, e ciò sin dopo l’esempio dei tre sommi Trecentisti, e per tale fusione si formasse quella che si chiamò lingua italiana o anche toscana, è cosa spiegata in ogni buon manuale letterario.

Sottile e bellissima questione letteraria sarebbe poi lo studiare in quali modi e proporzioni il toscano influì sui dialetti, e se non vi influì [p. 27 modifica]piuttosto animando, chiamando fuori, rinvigorendo innumerevoli e stupende forze unitarie che sono occulte nei dialetti. Gli esempi del Tasso, del Bembo, del Boiardo, del Castiglione, dell’Ariosto, del Leopardi, scrittori non toscani, e pur mirabilmente vivaci, potrebbero provare qualche cosa.

Che il Manzoni, unitario in politica, abbia questo sentimento trasportato alla lingua, può giudicarsi cosa benefica ed ottima nel momento storico del Manzoni; e come principio, ma largamente e liberalmente inteso, principio ottimo sempre. Vero è che la inflessibile logica spinse il grande Lombardo negli anni suoi tardi a sottigliezze estreme in fatto di lingua italiana: la persecuzione della teoria rigida gli fece forse perdere di vista la realtà. Ora questo difetto del Manzoni diventò poi la pietra angolare della nuova scuola: fu smarrito il senso della realtà; lo studio di minuzie, di parole, suoni, segni, diventò dominante e domina. La grande linea e la conservazione dell’edificio sfugge agli occhi miopi che si affannano intorno ai particolari, alle decorazioni, agli intonachi. Esso è il fenomeno pedantesco, lo scrupolo superstizioso che segue costante quella imitazione che i minori hanno di un grande.

Si pensi: l’unità politica e — vogliamo credere — morale d’Italia portano per fenomeno di naturale evoluzione al fenomeno unitario linguistico: voci di dialetto non toscano entrano nel patrimonio della lingua nazionale, asperità e peculiarità fonetiche dialettali si smorzano nel parlare civile; e se in fine qualche traccia di questa varietà dialettale rimane nei suoni e nelle voci, io non mi sento in animo di condannarla. La varia vita di questa mirabile patria porta così! E infine buoni scrittori viventi di varie regioni, non toscane, tendono per naturale impulso ed attrazione ad un tipo unitario, pur conservando un certo aroma regionale che a me non spiace. Se uno scrupolo continuo ci deve perseguitare nello scrivere e nel parlare, l’italiano l’impareremo a cinquant’anni. Poche e sicure norme grammaticali, fede nella parlata natia, un po’ d’amore e di conoscenza della tradizione letteraria, e il resto affidatelo alla divina natura!



Concludiamo. Fu ed è il popolo italiano, fra quanti sono popoli al mondo, umanissimo e civilissimo, ma della facoltà di disporre della sua propria, individuale, tangibile libertà fu così singolare amatore, da far getto per essa della libertà collettiva e ideale: da venire a taciti patti con la tirannide e la dominazione straniera purchè questa libertà fosse [p. 28 modifica]rispettata. Questo particolare stato d’animo degli Italiani — così discorde dalla sapienza di quel lontanissimo popolo di Roma, che pure abitò e improntò di sè queste terre beate, il quale scrisse volere essere servo della legge per potere essere libero 14 — può, come buona chiave, spiegare il segreto di molta parte della storia nostra nell’evo medio e moderno.

Tale amore di individuale libertà insieme ad una ereditaria filosofica sapienza è cagione di bene e di male insieme: genera una tolleranza stupenda di ogni azione ed opinione, ma genera una tipica e singolare indifferenza, una geniale inerzia a resistere al male. Si osservi come ogni intelligente e facondo ciarlatano trovi presso di noi via aperta ai primi posti; si osservi come il popolo con diletto attico ascolti le maravigliose parole, pur sapendole, per intuitiva saggezza, inani e fallaci; si osservi come i buoni, i pensosi, i laboriosi sorridano filosoficamente, non denuncino, ma tollerino e lascino passare e trionfare.

Ora — derivando queste considerazioni generiche al fatto preciso del linguaggio — credere che nel popolo italiano sorga quando che sia un sentimento di difesa del linguaggio, patrimonio ideale e collettivo, è convincimento in me assai scarso. Il popolo nostro al: «fa come ti piace», soggiunge: «di’ un po’ come ti pare!». Di una cosa però sono convintissimo, ed è che questo umano ed ingegnosissimo popolo nostro che insieme al popolo ellenico fu somma parte nel destino degli uomini, ma che — mentre quello imbizantì e si spense — resistette, visse nei secoli rinnovandosi e di nuova giovanezza vestendosi, pur conservando se stesso pur germinando sempre inesausto, non perirà.

Conforta il cuore il vedere come dicevo in principio, con quale impeto sorse e sorge a modernità di vita questa varia «itala gente da le molte vite». Ora questo pensiero domina ogni altro, cioè che non perendo anzi fiorendo ed aumentando, conserverá, comunque sia per modificarsi e rinnovarsi, quella necessaria impronta dell’essere che è la propria parola 15.

Bellaria, Agosto, 1904.

ALFREDO PANZINI.

  1. Il numero delle parole che mi sono sfuggite potrebbe sembrare soverchio al lettore che è nuovo di tale genere di lavori. Che dire poi di quelle, o che egli può suggerire, o che nacquero nel frattempo?
  2. L’essere io, autore, da molto tempo in Milano, l’egemonia (quale essa sia) che questa città esercita su le altre città italiane, l’importanza storica e letteraria del dialetto milanese, spiegano o scusano una certa maggior parte, fatta alle voci di questo dialetto.
  3. Mia preoccupazione fu di non sembrare nè meno di fare un’altra opera come il Lessico dell’infima e corrotta italianità del Fanfani ed Arlia, come i Neologismi buoni e cattivi del Rigutini, spesso citati; e benchè il mio libro possa nell’uso pratico supplire quelli, e benchè anche qui il lettore possa trovare qualche chiosa o avvertenza grammaticale su gli errori più comuni, questa è opera distinta, la quale, come ho detto, parte da altri principi: quelli sono lavori degni di persone degne, i quali hanno loro posto nella letteratura nè possono nè debbono essere sostituiti se non da altre opere che muovano dagli stessi criteri da cui mossero ì detti autori.
  4. Del resto l’italianità viva e gloriosa non ebbe soluzione di continuità. Se mancò il popolo, non mancarono individui. Essi, nella divina sapienza, seppero essere universali ed italici: inutile dire esempi.
  5. Habe semper în memoria atque in pectore ut tanquam scopolum sie fugias inauditum atque insolens verbum. (Ex libris de Analogia).
  6. Epistolario, Volume I, pag. 393.
  7. Ho fatto un’osservazione che mi pare importante: nella nostra vita politico-giornalista, così ricca di piccole inimicizie, quando si vuole combattere a fondo un discorso, un manifesto, uno scritto di un avversario, i nostri sono capaci di diventare anche puristi, spulciano le parole: «Oh, dove ha messo la grammatica il signor tale? Può stare a capo di un’amministrazione chi spediscò tali dispacci? chi fa tali manifesti?» e simili frasi.
  8. Vedi Fanfani ed Arlia, Lessico dell’infima e corrotta italianità; Rigutini, Neologismi buoni e cattivi, opere da me specialmente citate nel corso dell’opera.
  9. I sostenitori della lingua artificiale (Volapük, Esperanto, etc.) come intendono supplire a questi microrganismi vitali? Io posso creare un vocabolo di convenzione, ma il modo di dire di cui non appare a prima vista la funzione necessaria, e in cui è tutto il nervo del discorso, chi lo forma?
  10. Quante gemme del dire che passano per toscane ed hanno per ciò onorato accesso nel parlar letterario e della scuola, sono comuni agli altri dialetti! E che dire di quelle che non sono toscane, e pur sono tanto belle ed efficaci che per la loro bellezza e forza sono entrate nel parlar comune, se non letterario? Io ne ho raccolte parecchie in questo mio dizionario e me ne compiaccio come di cosa da altri negletta, da me invece amorosamente curata. Ammirevole pure e degnissima di studio sarebbe la comparazione fra i modi di dire delle varie lingue. Quante somiglianze! Quanta filosofia naturale! Anche ciò è buon argomento di considerazione per chi sostiene le lingue artificiali.
  11. La scuola estetica, intendi specialmente il D’Annunzio, in questo ebbe alcun merito e azione reale richiamando in onore nobilissime parole nostre ed elevando a maggior decoro l’arte dello scrivere dalla paludosa bassezza e monotonia dei democraticî dello stile, come il Carducci chiama con frase troppo scultoria i manzoniani (da non confondere col Manzoni, la cui prosa è un miracolo d’arte e di forza).
  12. Non per questo dimentico l’altro lato della medaglia: cioè molte vacue parole, segni di vacuo pensiero, che il giornale ci insegna.
  13. La Divina Commedia^ ’LOrlando Innamorato nella prima originale forma, il Furioso, etc.
  14. Legum.... omnes servi sumus, ut liberi esse possimus, Cicerone (Pro Cluent., LII, 146).
  15. Veda il lettore in fine del volume i giudizi dati da autorevoli persone consultate su questo importante argomento.