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xxviii Alfredo Panzini


Questo potrà fare il purista, il letterato, il grammatico, gli altri no: chi trova un ponte, non gira il corso del fiume per trovare un guado.

L’evidenza porta ad accogliere la seguente legge, cioè che non si può sacrificare una parte anche minima di pensiero alla purità del linguaggio, tanto è vero che la reale bellezza di un linguaggio è il pensiero che vi risplende. Chi diversamente stabilisse, si dovrebbe adattare a vedere la sua legge violata, e nessuna cosa è più goffa ed imbelle che stabilire norme che ben si sa che saranno infrante.

La necessità insegna la legge, la quale è buona appunto perchè necessaria. Già tant’è: queste parole sono accolte nel fatto. Capisco: l’italiano a cagione della compiutezza vocale delle sue parole si presta meno bene del francese ad inserire e fondere nel suo organismo voci di altre lingue: di questa difficoltà è prova il fatto che gli scrittori più trasandati hanno verso queste parole una specie di riguardo istintivo, e le ricoprono col carattere corsivo, così che se le parole fossero toppe, molte pagine di prosa darebbero sembianze di abiti rattoppati. Dunque?

Dunque io penso che è inutile opporsi all’accettazione tanto dei così detti barbarismi e gallicismi come delle nude voci straniere, giacchè la loro forza è maggiore. E nè meno penso che per questo soltanto la lingua italiana vada in rovina.

«Ma — domanderà alcuno — accogliendo e barbarismi e anche le voci prettamente straniere, entro quali limiti ci comporteremo?». Questo io non so, nè mi sembra che alcun areopago di grammatici possa ciò stabilire. La discrezione e il limite potrebbero essere dati dalla necessità, ma più da un nobile senso individuale di italianità, per cui l’uso, quando è inutile, di parole straniere dovrebbe ripugnare come ad una persona pulita ributta il compiere un atto sudicio, anche se essa è sola e non vista. «Termini incertissimi!» Lo so, ma di più veramente sicuri non ne conosco.

«E — potrebbe domandare alcuno — l’opera della scuola perchè l’omettete?» Un sentimento di riserbo mi consiglia di tacere le ragioni per cui io non ho fede nell’azione della scuola italiana in difesa dell’italianità. Ma che dico? Che bisogno ci sarebbe di difesa? Basterebbe far conoscere ed amare questa italianità mirabile, e la miglior difesa starebbe in quella conoscenza e in quell’amore! La nostra scuola — tranne poche eccezioni dovute esclusivamente all’opera spontanea di qualche insegnante — svolge dei variabili programmi ministeriali, caleidoscopio di imparaticci, ut impleatur scriptura. E l’insegnamento della storia letteraria, ridotta ad una specie di catechismo: che l’arte sicula è proven-