Dizionario mitologico ad uso di giovanetti/Mitologia/E
Questo testo è completo. |
Traduzione dal francese di Francesco Rossi (1816)
◄ | Mitologia - D | Mitologia - F | ► |
- Eaco
- Ebe
- Ecàte
- Ecatombe
- Echidna
- Eco
- Ecuba
- Edipo
- Egeo
- Egeria
- Egida
- Egipani
- Egisto
- Elena
- Eleno
- Elettra
- Eliadi
- Elicona
- Elisi (o Campi-Elisi)
- Emo
- Emone
- Encelado
- Endimione
- Enea
- Enomao
- Enone
- Eolo
- Epidauro
- Epimenide
- Epimeteo
- Eraclidi
- Erato
- Ercole
- Ermione
- Ero
- Esculapio
- Esione
- Esperidi
- Espiazione
- Età dell'oro
- Età dell'Argento
- Età del rame
- Età del ferro
- Eteocle
- Etna
- Etra
- Ettore
- Eumenidi
- Furie
- Eumeo
- Eurialo
- Euridice
- Euristeo
- Europa
- Euterpe
- Evandro
Eaco, figlio di Giove e di Egina, era re della isola di Enopia, detta anche Enone, cui poscia egli diede il nome di sua madre. Avendo la peste spopolato i suoi stati, ottenne da suo padre che le formiche di quel paese si fossero cangiate in uomini, che furono detti Mirmidoni. L’Attica essendo afflitta da una estrema siccità in espiazione dell’omicidio di Androgeo, si ebbe ricorso all’oracolo, il quale rispose che questo flagello cessarebbe tostocchè il re di Egina intercederebbe per la Grecia. Eaco offrì de’ sagrifizj a Giove, e tosto sopravvenne una copiosa pioggia. Gli Egineti, per conservare la memoria di questo avvenimento, eressero in onore del loro re un monumento. Questo principe regnò con tanta giustizia che Plutone l’associò a Minosse e a Radamanto per giudicare le anime nell’Inferno. Nota 43.
Ebe, Dea della gioventù, figlia di Giove e di Giunone; o secondo altri, della sola Giunone. Costei invitata da Apollo in un convito, mangiò tante lattughe selvagge, che di sterile, ch’ella era stata sino a quel momento, divenne incinta di Ebe. Giove allettato dalla di lei bellezza, la onorò col nome di Dea della gioventù, e le diede la carica di versargli il nettare; ma un giorno nell’atto che si affrettava per presentargli da bere, essendo caduta in una maniera poco decente in presenza di tutti gli Dei, ne sentì tanto rossore che di allora in poi non osò più comparire. Giove diede il suo impiego a Ganimede, ma Giunone la ritenne al suo servizio, e le affidò la cura di mettere in ordine il suo cocchio. Ercole la sposò nel Cielo, e n’ebbe un figlio ed una figlia. Il senso allegorico di tale unione vuol dinotare, che la gioventù per l’ordinario ritrovasi congiunta al vigore. Ella, a contemplazione di Ercole, ringiovanì Jolao. Si rappresenta coronata di fiori, e con una coppa d’oro in mano. Presedeva alla vita umana dalla infanzia sino alla età virile. Appellavasi anche Juventa. Aveva molti tempj, ma il più famoso era quello di Corinto, che godeva il privilegio dell’asilo.
Ecàte, figlia di Giove e di Latona e sorella di Apollo. Appellavasi Diana sopra la Terra, Ecate nell’Inferno, ed era la stessa che Proserpina; ma i mitologi ne hanno complicato i nomi, le qualità, e ne hanno accumulato le azioni.
Secondo alcuni è d’essa una Divinità benefica, che distribuisce i beni a coloro che la onorano; che accorda la vittoria, scorta i viaggiatori e i naviganti, che presiede ai consigli dei re, ai sogni, ai parti, alla conservazione e al crescimento de' bambini.
Altri la rappresentano come una cacciatrice abile, che colpisce con i suoi dardi egualmente gli uomini e gli animali; come una strega, che fa pruova de' suoi veleni sopra gli stranieri; che avvelena suo padre e s'impadronisce del suo regno, immola tutti gli stranieri, che la disgrazia fa approdare sulle spiagge del Chersoneso Taurico; che sposa Eete, e forma nell'arte sua due figlie degne di lei, Medea e Circe; come Dea degli stregoni e degl'incantesimi, era invocata prima di cominciarsi le magiche operazioni, che la costringevano a comparire sopra la Terra. Presedeva alle visioni ed agli spettri, ed appariva a coloro che la invocavano; come Dea dell'espiazioni, accettava i sagrifizj di cagnolini, e le s'innalzavano delle statue ne' crocicchi. Il suo culto, originario di Egitto, fu trasferito da Orfeo nella Grecia.
Viene rappresentata con tre teste, talvolta naturali ed anche aggradevoli, e coronate di ghirlande di rose; talvolta le sue statue ne offrono una di cane, una di cavallo e un'altra di cinghiale. Allorchè viene obbligata a rispondere alle magiche evocazioni, apparisce con la chioma di serpenti, con un ramo di quercia in mano, circondata di luce, e facendo risuonare intorno a lei i latrati de' suoi cani infernali, e le acute grida delle ninfe del Fasi. La quercia erale particolarmente consagrata, e coronavasi de' rami di quest'albero, intralciati di serpenti. Era ella indicata dal numero tre. I cani che le si offrivano in sagrifizio, dovevano esser neri, e le s'immolavano nel centro della notte. fig.26.
Ecatombe, sagrifizio di cento vittime, propriamente di cento buoi; ma può intendersi di qualunque sagrifizio di cento animali della medesima specie, come di cento leoni, o di cento aquile, ch'era il sagrifizio imperiale. Questo sagrifizio facevasi nel medesimo tempo da cento sagrificatori sopra cento altari fabbricati di zolle di terra con cespugli, ed offrivasi ne' casi straordinarj, così felici che avversi. La più celebre Ecatombe fu quella, che Pitagora offrì, in rendimento di grazie, agli Dei, per aver trovato la dimostrazione del quadrato della ipotenusa: ma credesi da taluni, che i cento buoi fossero di pasta, non permettendo il suo sistema d'immolarsi animali viventi.
Echidna, figlia di Crisaore e di Calliroe, mostro metà donna, e metà serpente, madre di Cerbero, della Idra di Lerna, della Chimera, della Sfinge e del Leone di Nemea. Gli Dei la tenevano rinserrata in una caverna della Siria.
Eco, figlia dell'Aria e della Terra, ninfa seguace di Giunone. Servì Giove ne' suoi amori, trattenendo la gelosa Dea in piacevoli e lunghi racconti, mentre il Nume divertivasi colle sue favorite. Giunone essendosi finalmente avveduta del di lei artifizio, ne la punì, condannandola a non più parlare, senza che prima fosse interrogata e a non rispondere che in poche parole alle domande, che le si farebbero. Innamoratasi del bel Narciso, lo seguì lungo tempo, ma vedendosi disprezzata, ritirossi nei boschi, e non abitò più che le grotte e le rupi. Consumata dal dolore e dal rammarico, non le rimase finalmente che la voce.
Ecuba, moglie di Priamo, figlia di Dima, o come altri dicono, di Cisseo, re di Tracia. Ebbe cinquanta figli che quasi tutti perirono sotto gli occhi della loro madre durante l'assedio, e dopo la rovina di Troja. Nella divisione delle schiave, ella toccò ad Ulisse, che la cercò lungo tempo senza trovarla. Finalmente la sorprese tra le tombe de' suoi figli, e ne fece la sua schiava, ciò che formò il colmo del suo infortunio; perché ella aveva veduto questo principe supplichevole a suoi piedi, allorché sorpreso a Troja, travestito, come spia de' Greci, la pregò di sottrarlo ad una morte certa. Prima di partire, inghiottì le ceneri di suo figlio Ettore, per involarle agl'insulti de' suoi nimici. Il suo dolore nel vedere immolare sua figlia Polissena sulla tomba di Achille, e di trovar suo figlio Polidoro ucciso a tradimento da Polinnestore, cui lo aveva affidato, fu sì grande che per disperazione si cavò gli occhi; indi vomitando mille inprecazioni contro i Greci, fu trasformata in cagna. Riempì la Tracia di orribili latrati, che mossero a compassione non solamente i Greci, ma la stessa Giunone, la più crudele nemica de’ Trojani. Al tempo di Strabone osservavasi nella Tracia il luogo della sua sepoltura nominata la tomba del cane, sia a cagion della sua metamorfosi, sia per alludere alla sua dura condizione di essersi ridotta a dover stare incatenata come un cane alla porta di Agamennone. Altri credono che Ulisse l'avesse fatta morire. Le tradizioni intorno alla sua morte sono varie; ma è certo che la sua morte fu deplorabile.
Edipo, figlio di Lajo, re di Tebe, e di Giocasta, figlia di Creonte. Lajo, nel maritarsi, desideroso di sapere la sorte del suo matrimonio, interrogò l’oracolo di Delfo, il quale gli predisse che il figliuolo, che era per nascerne, doveva ucciderlo. Appena era nato Edipo, allorchè Lajo lo consegnò ad uno de’ suoi uffiziali con incarico di ucciderlo. Questo uffiziale, mosso a compassione, non avendo il coraggio di eseguire il barbaro comando, si contentò di legargli i piedi, e di sospenderlo ad un albero sul monte Citerone: quindi è che prese il nome di Edipo, che vale lo stesso che piedi gonfi. Forba, pastore di Polibo, re di Corinto, che per caso avea condotto ivi il suo grege, vide il fanciullino, lo distaccò dall’albero e lo portò seco. La regina di Corinto volle vederlo, e perchè non avea figli, lo adottò, e prese cura della sua educazione. Giunto Edipo alla età giovanile, consultò l’oracolo sul suo destino, e n’ebbe questa risposta „Edipo sarà l’omicida di suo padre, e lo sposo di sua madre, e darà al mondo una progenie esecranda.„ Penetrato da così orribile predizione, volendo prevenirne l’effetto, abbandonò Corinto, e regolando il suo cammino col moto degli astri, prese la via della Focide. Cammin facendo, pervenne ad una via angusta, che conduceva a Delfo: quivi incontrò Lajo in un carro, il quale con alterigia impose ad Edipo di lasciar libero il passaggio: vennero eglino alle mani senza conoscersi, e Lajo restò ucciso. Passato di là a Tebe, trovò la città desolata per li mali, che vi cagionava la Sfinge. Il vecchio Creonte, padre di Giocasta, che aveva ripigliato il governo dopo la morte di Lajo, fece pubblicare in tutta la Grecia ch’egli darebbe sua figlia e la sua corona, a chiunque esentasse la città di Tebe dal vergognoso tributo ch’ella pagava al mostro; questa Sfinge proponeva il seguente enigma, e divorava tutti coloro, che non sapevano indovinarlo: Qual’è l'animale che nel mattino cammina a quattro piedi, nel mezzo giorno a due, e la sera a tre. Edipo si offrì, indovinò l’enigma, ed uccise la Sfinge. Giocasta, ch’era il premio della vittoria, divenne sua moglie, e da essi nacquero quattro figliuoli, due maschi Eteocle e Polinice, e due femmine Antigone ed Ismene. Dopo qualche tempo una peste crudele desolò il regno di Tebe. L’oracolo dichiarò che i Tebani eran puniti, perchè non avevano vendicato la morte del loro re, e perchè neppure ne avevano ricercati i rei. Edipo fece fare le più esatte diligenze per ritrovarsi l’omicida, e gradatamente pervenne a scoprire il mistero della sua nascita, ed a riconoscere in se medesimo il parricida e l’incestuoso. Giocasta, spinta dalla disperazione, salì nel più alto luogo del palazzo, ove avendo attaccato un fatale laccio, s’impicco. Edipo cavossi gli ochhi; e poichè fù discacciato dai suoi propri figli, fecesi condurre da sua figlia Antigone, e fermossi presso un borgo dell’Attica, nominato Colono, in un bosco consagrato all’Eumenidi. Alcuni Ateniesi volevano discacciarselo a forza. Antigone intercedette per suo padre e per lei, ed ottenne di esser condotti in Atene, ove Teseo gli accolse graziosamente, ed offrì loro i suoi stati per asilo. Edipo si ricordò allora di un oracolo di Apollo, il quale gli aveva predetto ch’egli morirebbe in Colono, e che la sua tomba sarebbe un pegno della vittoria per gli Ateniesi sopra tutti i loro nimici. Egli dunque vi si stabilì, malgrado le premure di Creonte, che lo richiamava a Tebe. Un giorno avendo sentito il colpo di un tuono, lo apprese come un augurio di sua vicina morte, e senza alcuna guida incamminossi verso il luogo ove doveva morire. Giunto presso un precipizio in una strada divisa in varj sentieri, si assise sopra una pietra, si spogliò de’ vestimenti lugubri, si rivestì di una specie di abito, di cui solevasi vestirne i morti, fece chiamar Teseo, cui raccomandò le due figlie, e loro impose di allontanarsi da lui. Trema la terra, e si spalaca poco a poco senza violenza per ricevere Edipo, che muore così alla presenza di Teseo, solo testimone del segreto della sua morte, e del luogo della sua sepoltura.
Quantunque la volontà di Edipo non avesse avuta alcuna parte negli eccessi della sua vita, pure i poeti gli assegnano un luogo nel Tartaro insieme coi più famosi scellerati.
Egeo, re di Atene, marito di Etra e padre di Teseo. Allorchè questo suo figlio fu destinato insieme con gli altri a recarsi in Creta per combattere il Minotauro, Egeo incaricò i marinaj, che se mai Teseo sarebbe rimasto vincitore nel combattimento, nel ritorno avessero spiegata una vela bianca, in vece della solita nera, che era in uso di mettersi nel naviglio, che portava quegli infelici. I marinari ebbri di gioja, per la vittoria riportata dal figlio del loro re, aumentata oltremodo nell’avvicinarsi alla loro patria, dimenticaronsi di eseguire tal ordine. L'impaziente Egeo recavasi ogni giorno sulla sommità di un alto scoglio. Un giorno avendo scoperto il naviglio, che ritornava colla solita vela nera, credette che suo figlio fosse morto; e vinto dalla disperazione, precipitossi nel mare, che d’allora in poi porta il nome di Mare-Egeo, oggidì Arcipelago. Nota 44.
Egeria, ninfa trasformata da Diana in fonte. I Romani l’adoravano: le donne principalmente le offrivano de’ sagrifizj, onde ottenere il parto felice. Numa-Pompilio volendo dare un’apparenza di autorità divina alle sue nuove leggi, ad oggetto d’imporne la osservanza ai crudeli ed ancor selvaggi Romani, si nascose in un bosco presso Roma, fingendo di aver delle segrete conferenze con questa ninfa. Credesi che la morte di Numa abbia recato ad Egeria un dolor così vivo ed incessante che abbandonò Roma; e per piangerla liberamente, ritirossi nella foresta di Aricia. Quivi Diana la cangiò in una fonte, le cui acque perenni ritennero il nome di Egeria.
Egida, scudo coverto di pelle di capra. I poeti danno questo nome a tutt’i scudi degli Dei. Essendo morta la capra Amaltea, nutrice di Giove, questo Dio coprì della di lei pelle il suo scudo, cui diede il nome Egida, parola greca che significa capra. Dopo di ciò restituì la vita alla capra, e la collocò tra le costellazioni. Giove diede di poi questo scudo a Pallade, che vi attaccò la testa di Medusa; quindi è che divenne terribile, perchè aveva la virtù di pietrificare coloro, che lo guardavano. Erano all’intorno di questa Egida il terrore, la discordia, la violenza, la guerra. Talora sotto questo nome s’intende ancora la corazza di Minerva. Egipani, soprannome di alcune divinità campestri. Gli antichi credevano che abitassero ne’ boschi e nelle montagne. Erano rappresentati a guisa di omiciattoli vellosi, con le corna in testa e i piedi di capra. Alcuni fanno di Egipane una Divinità particolare, che dicono esser figlio di Pan e di Ega sua moglie.
Egisto, figlio di Tieste e di Pelopea. Un oracolo aveva predetto a Tieste che un suo figlio, ch’egli avrebbe da Pelopea sua figlia, vendicherebbe un giorno le scelleragini di Atreo. Per impedire il compimento di questo oracolo, Tieste fece allevar Pelopea in un tempio di Minerva in un luogo a lui stesso ignoto. Molto tempo dopo avendola incontrata in un bosco, senza conoscerla, le usò violenza, e la rese madre di Egisto. Dicesi che il bambino essendo stato esposto appena che era nato, fu allevato da una capra, da cui prese il nome di Egisto. Divenuto adulto, ricevette da Pelopea la spada di suo padre, e fu introdotto alla corte di Atreo. Questi gl’impose di andare ad uccidere Tieste, a fine d’invaderne gli stati. Tieste avendo riconosciuto la sua spada in mano di Egisto, lo avvertì ch’egli era suo padre. Egisto sdegnato di aver ubbidito ad Atreo, e di essere stato sul punto di commettere un parricidio, ritornò subito a Micene, ed uccise Atreo. Tieste occupò allora il suo trono; ma ne fu dipoi discacciato da Agamennone, soccorso da Tindaro suo suocero. Agamennone in atto di partire per la guerra di Troja, si riconciliò con Egisto, gli perdonò la morte di Atreo, e gli affidò la propria moglie e i suoi figli con la cura del suo regno. Questa imprudente confidenza fu mal corrisposta. Egisto sedusse Clitemnestra, perseguitò ed allontanò i di lei figli, uccise Agamennone stesso dopo il ritorno da Troja, e s’impadronì del trono, di cui godé per lo spazio di sette anni. Finalmente il giovine Oreste vendicò la morte di suo padre e di suo avo, avendo ucciso il tiranno nel suo proprio palazzo.
Elena, principessa famosa per la sua bellezza, ragione di una infinità di sciagure. Era figlia di Giove e di Leda e sorella di Clitemnestra, di Castore e di Polluce: altri la credono figlia di Tindaro. Fin da suoi primi anni la sua bellezza fece tanto rumore, che Teseo la rapì dal tempio di Diana, ov’ella stava danzando; ma i suoi fratelli ne la liberarono bentosto, e la ricondussero a Sparta. Tindaro, suo padre, vedendola richiesta in isposa da un gran numero di principi, e temendo di disgustare coloro ai quali la niegarebbe, fece giurare tutt’i proci, che se la scelta cadesse sopra uno di essi, dovessero gli altri collegarsi tutt’insieme per difenderlo contro coloro, che volessero contrastargliela. Ciò fatto determinossi per Menelao. Questo matrimonio cominciò felicemente; ma poichè Menelao fu costretto ad allontanarsi, Paride, ch’erasi recato in Grecia sotto il pretesto di offrire un sagrifizio ad Apollo, colse il momento della lontananza di Menelao, insinuossi nel cuore di Elena, la rapì, e la condusse seco in Troja; ciò che cagionò una generale sollevazione in tutta la Grecia contro la città di Troja, che, dopo dieci anni di assedio, fù da Greci saccheggiata e distrutta. Dopo la morte di Paride, Elena sposò Deifobo, figlio di Priamo, ed in seguito lo tradì per rientrare in grazia di Menelao; Questi non ebbe difficoltà di riconciliarsi con lei, e la ricondusse in trionfo in Sparta. Morto suo marito, ritirossi a Rodi presso Polixo, sua parente, la quale fece appiccarla su di un albero, perchè era stata la cagione della perdita di moltissimi eroi, tra quali era anche il marito della stessa Polixo, ucciso nell’assedio di Troja. Credesi ch’ella abbia procreato quattro figli con Menelao, ed uno con Teseo. Altri le attribuiscono due figlie Ermione, ch’ebbe da Menelao, ed Elena, ch’ebbe da Paride, fatta morire da Ecuba. Nota 45
Eleno, figlio di Priamo e di Ecuba, famoso indovino. Instruito da Cassandra sua sorella nell’arte della divinazione fece le sue predizioni per mezzo del tripode, dell’alloro gittato nel fuoco, della cognizione degli astri, della inspezione del volo degli uccelli e della intelligenza del loro linguaggio. Verso la fine dell’assedio di Troja, disgustato per non aver potuto ottener Elena in isposa, ritirossi sul monte Ida. Ulisse, avvisato da Calcante, lo sorprese di notte, e lo condusse prigioniero nel campo de’ Greci. Tra gli altri oracoli, Eleno loro predisse che non abbatterebbero Troja, se prima non cercassero di obbligar Filottete ad abbandonar la sua isola, ed a portarsi all’assedio. Divenuto schiavo di Pirro, ne guadagnò l’amicizia con delle predizioni, che riuscirono molto felici per questo principe. Questi in riconoscenza, non solamente gli cedette Andromaca in isposa, ma lo lasciò suo successore nel regno di Epiro, ed in effetto questo principe trojano occupò il trono di Achille.
Elettra, figlia di Agamennone e di Clitemnestra e sorella di Oreste. Visse lungo tempo nello stato di donzella, e di qui è che fu nominata Elettra, poichè il suo primitivo nome era Leodice ovvero Laodicea. Ella salvò il giovine Oreste, suo fratello, dal furore di Egisto, che voleva farlo perire. Ella medesima fu bersagliata da tiranni di sua famiglia, ed era sempre occupata a sottrarsi dalle loro insidie, giacchè non osavano muoverle apertamente la guerra, per timore del popolo. Egisto l’avea forzata a sposare un nobile di Micene, ma povero, affinchè non avesse affatto motivo di temerne. Questo Micenese, ch’era un uomo dabbene, divenne il di lei protettore piuttosto che il marito; egli la riguardò come un sagro deposito confidatogli dagli Dei, e la restituì tosto che Oreste riascese al trono. Elettra dipoi sposò Pilade. Per agevolare suo fratello a ricuperar la corona, lo fece entrare segretamente in Micene, lo tenne nascosto in sua casa, e fece correr voce di esser morto. Egisto e Clitemnestra, credendo a tal voce, concepirono tanta allegrezza che subito recaronsi nel tempio di Apollo per renderne grazie agli Dei. Oreste, essendo ivi penetrato insieme con alcuni soldati, disperse le guardie, ed uccise di propria mano sua madre e l’usurpatore.
Eliadi, figlie del Sole e di Climene e sorelle di Fetonte. La disavventura di costui fu loro così sensibile che lo piansero quattro mesi interi. Gli Dei le cangiarono in pioppi, e le loro lagrime in ambra.
Elicona, famoso monte della Beozia, consagrato alle Musee ad Apollo. Vi si vedeva un tempio dedicato a queste Dee, il fonte Ippocrene, la grotta delle ninfe Libetridi e la tomba di Orfeo. Vi si celebrava annualmente una festa in onor delle Muse. Elisi, o Campi-Elisi, soggiorno felice delle anime virtuose. Quivi godevasi una eterna primavera; l’aura de’ venti non vi spirava che per ispargervi soavemente l’odor de’ fiori. Quel paese era illuminato da un altro Sole, e d’alcuni astri particolari, i quali non si vedevano giammai velati da nuvole. Boschetti odorosi e selve di roseti e di mirti, cuoprivano colle loro fresche ombre le amene contrade, ove soggiornavano quelle anime fortunate. Il solo usignuolo aveva il dritto di cantarvi i suoi piaceri, ed il suo canto non era interrotto che dalle voci commoventi de’ musici famosi. Vi scorreva con un soave mormorio il fiume Lete, le cui onde facevano obbliare i mali della vita. Un suolo sempre ridente vi rinnovellava le sue produzioni tre volte all’anno, ed offriva alternativamente o fiori o frutta. Non più dolori, non più vecchiezza; ivi conservavasi eternamente la età, in cui erasi goduta la maggior felicità; e vi si gustavano i piaceri, che avevano dilettato la vita. Ai beni fisici univasi la privazione de’ mali dello spirito. L’ambizione, la cura delle ricchezze, la invidia, l’odio, e tutte le vili passioni, che agitano l’animo de’ mortali, non alteravano più la tranquillità degli abitanti dell’Eliso. Ivi in somma godevasi una felicità perfetta, premio di coloro, che avevano condotta onestamente la vita sulla terra. Nota 46
Emo, figlio di Borea e di Orizia, marito di Rodope, e di Tracia. Fu cangiato in un monte insieme con sua moglie, per aver preteso di essere adorati, esso come Giove, e sua moglie come Giunone, attribuendosi i nomi di queste divinità. Emone, figlio di Creonte, re di Tebe, amante di Antigone, figlia di Edipo e di Giocasta. Avendo inteso che Creonte aveva condannato Antigone a morte, per aver dato gli onori della sepoltura a Polinice suo fratello, gittossi a suoi piedi, supplicando istantemente di voler rivocare la barbara sentenza; ma non avendo potuto ottenere tal grazia, si trafisse il petto colla propria sua spada, e cadde morto sul cadavere di Antigone.
Encelado, gigante terribile, figlio del Tartaro e della Terra. Ribellatosi contro Giove, tentò scalare il Cielo per detronizzarlo; ma il sommo nume rovesciò sopra di lui il monte Etna. D’allora in poi il suo spirito infuocato essala i vorticosi turbini di fiamme, ch’erutta il Vulcano; ed allorchè si dimena, fa tremar la Sicilia e la Calabria, e un denso perenne fumo oscura l’aere all’intorno.
Endimione, bellissimo pastore della Caria, nipote di Giove, da cui fu ammesso nel Cielo; ma avendo tentato di sedurre Giunone, fu condannato ad un sonno perpetuo, o secondo altri, di trent’anni. Credesi che, durante questo sonno, la Luna, invaghitasi di lui, venisse a visitarlo ogni notte in una grotta del monte Latmos, e che n’ebbe più figli; dopo di che Endimione lungi di essere un pastorello della Caria, era un re d’Elide. Discacciato dal suo regno, ritirossi nel monte Latmos, ed ivi applicossi alla osservazione del corso degli astri; quindi diedesi luogo alla favola de’ suoi amori per Diana (ossia la Luna). Il pittore Girodet ha dipinto Endimione semi-nudo in atto che dorme in un boschetto. Amore, travestito da Zefiro, apre tra le frondi un varco, per lo quale un raggio della Luna va a posar sulla bocca del bel dormiente. Il color degli oggetti o del corpo dello stesso Endimione, non lascia alcun dubbio sul tempo di notte, in cui accadde il fatto, e sulla presenza della Dea.
Enea, principe reale discendente dal sangue degli antichi re di Troja, figlio di Anchise e di Venere. Allevato dal famoso Chirone, apprese da lui tutti gli esercizj, che possono contribuire a formare un eroe. Sposò Creusa figlia di Priamo. Allorchè Paride rapì Elena, Enea previde le triste conseguenze della violata ospitalità; e fu di avviso di restituirsi colei, che doveva cagionare la rovina della patria. Entrati i Greci in Troja, egli sostenne vigorosamente molti combattimenti nelle strade della città; ma troppo debole per resistere al numero de’ nimici, si pose in dosso Anchise suo padre insieme con i suoi Dei-Penati, tenendo per mano il suo figlio Ascanio, e ritirossi sul monte Ida, accompagnato da quanti potè radunare de’ migliori Trojani. Smarrì in tal rincontro Creusa sua moglie, senza che avesse mai potuto sapere ciò che le fosse avvenuto. Equipaggiò una flotta di venti vascelli, costeggiò la Tracia, ed una parte della Grecia, diede fondo in Epiro; e dopo di aver sofferte molte tempeste, approdò in Affrica, e fu ricevuto in Cartagine alla corte di Didone. Amato da questa regina, soggiornò alcun tempo presso di lei; di là passò in Sicilia, ove rese gli estremi uffizj ad Anchise, che ivi era morto l’anno precedente. Finalmente dopo essere stato il bersaglio de’ venti, approdò in Italia, consultò la Sibilla, che gli additò la strada dell’Inferno, ove discese, dopo di aver trovato il ramuscello di oro, ch’ella gli aveva indicato, per farne un dono a Proserpina. Riconobbe ne’ Campi Elisj gli eroi trojani e suo padre, da cui fu istruito intorno al di lui destino e della sua posterità. Ritornato dall’Inferno, venne ad accamparsi sulla riva del Tevere, ove Cibele cangiò i suoi vascelli in altrettante ninfe. Sostenne la guerra contro Turno, re de’ Rutuli, per cagion di Lavinia, ch’egli sposò dopo aver combattuto ed ucciso questo re in duello. Fondò la città di Lavinio, che i Romani riguardavano come la cuna del loro impero. Si disse che Venere lo rapì, e seco lo trasportò nel Cielo ad onta di Giunone, ch’era stata cagione di tutte le sue disavventure, e che erasi dichiarata contro di lui, come trojano. Fu onorato da Romani sotto il nome di Giove Indigete. Le sue avventure hanno somministrato a Virgilio l’argomento del suo ammirabile poema l’Eneide.
Enomao, re di Pisa, padre d’Ippodamia, giovine famoso per la di lei bellezza. Avendo inteso da un oracolo che suo genero l’ucciderebbe, o che perirebbe allorchè sua figlia si maritasse, determinò di condannarla ad un perpetuo celibato. Per liberarsi dalla folla dei proci, promise la principessa in isposa a colui che le avvanzerebbe nel corso delle carrette, e che ucciderebbe tutti coloro che restassero da lui vinti. L’amante doveva correre avanti, ed il re lo seguiva colla spada alla mano. Enomao aveva per cocchiero Mirtilo, il più abile in tal mestiere. Tredici sfortunati amanti d’Ippodamia perirono in tal cimento, ed Enomao li fece sotterrare l’un dopo l’altro in un luogo eminente. Finalmente si presentò Pelope; ma prima di entrare in lizza, aveva corrotto Mirtilo, il quale tolse dalla carretta del suo padrone le chiavette, che attaccano le ruote all’asse. Enomao, correndo, fu rovesciato, e rimase con la testa fracassata. Pelope riportò la vittoria, e sposò Ippodamia.
Enone, figlia del fiume Cebreno nella Frigia, e ninfa del monte Ida. Fu amata d’Apollo, alle cui voglie si abbandonò, e n’ebbe in ricompensa la perfetta cognizione del futuro e della medicina. Nel tempo che Paride stava nel monte Ida, ridotto alla condizione di pastore, si attirò l’amore di Enone, e n’ebbe un figlio, che fu nominato Corinto. Quando ella intese il progetto del suo viaggio in Grecia, invano fece i suoi sforzi per distornelo, e gli predisse tutte le disgrazie, che dovevano risultarne, aggiungendogli che un giorno sarebbe ferito mortalmente; che in quel momento si sovverrebbe di Enone, ma che invano ricorrerebbe alla di lei arte. In effetto Paride ferito da Filottete all’assedio di Troja, fecesi portare sul monte Ida presso Enone, la quale, malgrado la di lui infedeltà, impiegò la sua arte per guarirlo; ma i suoi sforzi furono inutili; poichè fa freccia, di Ercole, ond'egli era stato ferito, era avvelenata. Paride morì tra le braccia di Enone, e questa Ninfa morì anch’ella di dolore1.
Eolo, Dio de’ venti e figlio di Giove. Regnava nelle isole appellate Vulcanie ed indi Eolie. La sua ordinaria residenza era in Lipari, ch’è una di queste isole. Egli tiene incatenati i venti in un antro profondo per impedire i danni, che cagionerebbero sulla terra e sul mare. Allorché i venti gittarono Ulisse negli stati di Eolo, questo Dio lo accolse con molta cortesia, e gli fece dono di alcuni otri, ov’erano rinchiusi i venti contrarj alla sua navigazione. I compagni di Ulisse, non potendo contenere la loro curiosità indiscreta, aprirono questi otri; i venti scapparono, e mossero una furiosa tempesta, che disperse quasi tutt’i vascelli di Ulisse. Questo principe ritornato presso Eolo, ne fu ributtato con isdegno, come un uomo che si aveva attirata la indignazione degli Dei. Eolo dominava talmente sopra i venti, che li riteneva, e liberava a suo arbitrio. E rappresentato con uno scettro in mano, simbolo della sua autorità. Gli si attribuiacono dodici figli, sei maschi e sei femmine, che sposaronsi tra loro. Si è voluto forse sotto questa allegoria alludere ai dodici venti principali. Nota 47.
Epidauro Delle tre città di questo nome, la più celebre era quella del Peloponneso, ov’Esculapio, Dio della medicina, aveva un tempio sempre pieno di ammalati e di tavolette, nelle quali eran descritte le guarigioni che vi si erano ottenute. Dicesi che Ippocrate avesse avuta parte di queste raccolte preziose per la umanità.
Epimenide, nato in Gnosso nella isola di Creta, era contemporaneo di Solone. Nella sua gioventù fu inviato da suo padre a custodire il gregge nella campagna; cammin facendo traviò, ed entrato in una caverna fu sorpreso dal sonno, che durò 57 anni. Risvegliato finalmente per qualche rumore, andò in cerca del suo gregge, e non avendo potuto ritrovarlo, ritornò al suo villaggio, ove tutto ritrovò cangiato di aspetto. Entrato nella sua casa, nessuno lo riconobbe, fuorché suo fratello, già molto vecchio. La fama di questo avvenimento essendosi sparsa per la Grecia, Epimenide fu riguardato d’allora in poi come un uomo favorito dagli Dei, e andavasi a consultarlo come un oracolo. L’ammirazione e la riconoscenza volevano ricolmarlo di doni e di onori, ma Epimenide li rifiutò, e non volle che un solo ramo di ulivo. Morì in età di duecento ottantanove anni. I Cretesi dopo la sua morte gli offrirono de’ sagrifizj, come ad un Dio.
Epimeteo, figlio di Giapeto e fratello di Prometeo. I poeti dicono, che Prometeo aveva formato gli uomini prudenti ed ingegnosi, ed Epimeteo gl’imprudenti e gli stupidi. Quest’ultimo sposò Pandora, la quale ricevette in dono da tutti gli Dei alcune belle qualità per renderla perfetta. Da questa unione nacque Pirra, che sposò Deucalione, figlio di Prometeo.
Eraclidi, figli o discendenti di Ercole, i quali, dopo essere stati perseguitati da Euristeo, ritiraronsi in Atene. Dopo la morte di Euristeo, s’impadronirono del Peloponneso, di Argo, di Sparta, di Micene e di Corinto. Questo avvenimento, che forma una delle principali epoche della storia greca, fece cangiare aspetto a tutta la Grecia.
Erato, musa che presiede alla poesia lirica e all’anacreontica. Viene rappresentata sotto la figura di una giovinetta ninfa gaja, coronata di mirto e di rose: tenendo a man sinistra la lira e a dritta un archetto. Veggonsi a fianco a lei un amorino alato con un arco, ed una fiaccola accesa; a presto a’ suoi piedi alcune tortorelle, che si dan delle beccate, emblema degli argomenti amorosi che tratta. Fig. 27.
Ercole. Molti sono stati gli eroi di questo nome; ma il più famoso è quello di Tebe, figlio di Giove e di Alcmena, moglie di Amfitrione. La vanità greca ha attributo all’eroe Tebano le segnalate imprese e le avventure di tutti gli altri. Noi parleremo del figlio di Alcmena.
Nel giorno della sua nascita i tuoni, che sentironsi in Tebe a colpi raddoppiati, e molti altri prodigj annunziarono la gloria del figliuolo di Giove. Alcmena si sgravò di due gemelli Ercole ed Ificlo, o, secondo altri, Euristeo. Amfitrione, volendo sapere chi dei due fosse suo figlio, pose presso la loro cuna due serpenti. Ificlo si sbigottì, e cercò fuggire: ma Ercole li strozzò, e da quel momento die’ bastanti pruove di esser egli il degno figlio di Giove. La maggior parte de’ mitologi dicono, che la gelosa Giunone, per isfogare sopra il fanciulletto l’odio, che nutriva contro sua madre, inviò due serpenti orribili per far divorare Ercole nella cuna; ma che costui, senza sbalordirsi, gli afferrò, e li fece in pezzi. Giunone si mitigò allora a preghiere di Pallade, e consentì anche a dargli del suo latte, per renderlo immortale. Una stilla di questo latte, essendo caduta nel Cielo, formò quella macchia bianca, che chiamasi via lattea.
Ercole ebbe molti maestri: imparò a tirare l’arco da Radamanto e da Eurito, ed apprese da Castore a combattere tutto armato. Chirone fu il suo maestro nell’astronomia e nella medicina: Lino gl’insegnò a suonare uno strumento, che toccavasi con l’archetto; e perchè Ercole un giorno stonava, Lino lo riprese con qualche severità; ciò che l’indocile giovinetto non potendo tollerare, scagliò sulla testa del maestro lo stesso strumento e l’uccise. Divenne di una statura straordinaria, e di una forza di corpo incredibile, ed era un gran mangione. Un giorno mentre viaggiava, spinto dalla fame, dimandò viveri ad un bifolco, che guidava un carro; e non avendo costui cosa dargli, Ercole distaccò uno de’ buoi dal carro, lo immolò agli Dei, e lo mangiò. Il vaso, di cui ordinariamente servivasi per bere, era così grande che bisognava portarsi da due uomini, ma egli nell’atto che beveva, lo teneva con una sola mano.
Giunone, non potendo determinarsi a lasciarlo godere del suo destino, suscitò contro lui suo fratello Euristeo. Questi gl’impose alcune imprese molto pericolose, credendo di dovervi soccombere; Ercole però le superò con gloria. Desse son dette le dodici fatiche di Ercole.
La prima fu il combattimento contro lo smisurato leone della foresta Nemea, che fu da lui strozzato, e della cui pelle d’allora in poi andò sempre coverto.
La seconda fu contro la spaventevole Idra del lago di Lerna, serpente mostruoso a più teste, le quali rinascevano a misura che recidevansi. Ercole uccise l’Idra, e il cancro marino inviato da Giunone contro lui nell’atto del combattimento, e da cui fu morsicato nel piede.
La terza impresa fu contro il cinghiale di Erimanto, che dava il guasto al paese di Arcadia. Ercole lo prese vivo. Euristeo suo fratello, vedendolo portar questo cinghiale sulle spalle, fu sorpreso da così grande spavento che andò a nascondersi sotto un tino di rame. La quarta fatica fu contro la velocissima cerva del monte Menalo. Ella aveva i piedi di bronzo e le corna di oro. Come consagrata a Diana, non era permesso di ucciderla. Ercole per ubbidire ad Euristeo che la voleva per se, la inseguì per un anno; finalmente la raggiunse un giorno sulle sponde del Ladone, se ne caricò le spalle, e la portò a Micene.
Il quinto travaglio, ch’ebbe a sostenere, fu contro gli uccelli mostruosi del lago Stinfalio. Questi avevano le ale, la testa ed il becco di ferro, e le unghie estremamente uncinate. Erano in così gran numero e di una grossezza così enorme che alloraquando volavano, annebbiavano colle loro ale la luce del Sole. Erano così schifosi che rendevano impraticabili le sponde del lago. Ercole gli uccise tutti a colpi di frecce.
Il sesto combattimento fu contro il toro di Maratona. Nettuno sdegnato contro i Greci, suscitò un furioso toro, che buttava fuoco per le narici, faceva de’ guasti sorprendenti nell’Attica, ed uccideva molta gente. Ercole incaricato da Euristeo di prenderlo, lo domò, e e glielo condusse.
La settima impresa fu contro i cavalli di Diomede, re di Tracia. Questi cavalli furiosi vomitavano fuoco per la bocca. Diomede li nutriva di carne umana, e loro dava a divorare tutti gli stranieri, che avevano la disavventura di cadere nelle sue mani. Ercole avendo preso Diomede, lo fece divorare da suoi proprj cavalli, che in seguito egli stesso condusse ad Euristeo, e li liberò sul monte Olimpo, ove anch’essi furono divorati dalle bestie feroci.
L’ottavo combattimento fu contro le Amazzoni, donne guerriere della Cappadocia sulle sponde del fiume Termodonte. Queste donne sostenevano le più aspre guerre contro i loro vicini. Ercole le debellò, e fece prigioniera Ippolita, loro regina, e la diede a Teseo in premio del suo valore.
Il nono travaglio fu quello di aver nettate le stalle di Augia, re di Elide, le quali contenevano tre mila buoi, e non erano state nettate da trent’anni. A quest’oggetto sviò egli il fiume Alfeo, facendolo scorrere attraverso le stalle. Menato via il letame e l’aria essendo purificata, Ercole dimandò la ricompensa del suo travaglio, che consisteva nella decima pane di quel bestiame. Avendo Augia ricusato di adempire la promessa, contro il parere di Fileo suo figlio, che per tal motivo fu discacciato da suo padre, Ercole sdegnato, uccise Augia, richiamò Fileo, ch’erasi rifugiato nella isola di Dulichio, e lo pose sul trono di suo padre.
Il decimo combattimento fu contro Gerione, re di Eritia, figlio di Crisaore, il quale aveva tre corpi, e nutriva i suoi buoi di carne umane. Un cane a tre teste ed un dragone a sette custodivano questi buoi. Ercole uccise Gerione e i mostri, e condusse seco i buoi.
Per l'undecima fatica contasi di aver tolto i pomi d’oro dal giardino dell’Esperidi. Allorchè Giunone sposò Giove, loro fece dono di alcuni alberi, che producevano pomi d’oro. Questi alberi furono piantati nel loro giardino, e dati in custodia ad un orribile dragone, che aveva cento teste, e sibilava orribilmente. I pomi ch’egli sorvegliava, avevano una virtù sorprendente. Euristeo impose ad Ercole di andare in cerca per aver questi pomi. L’eroe si recò nella Mauritania, penetrò nel giardino dell’Esperidi, uccise il dragone, e recò ad Euristeo i pomi d’oro. Finalmente l’ultima impresa di Ercole fu la sua discesa nell’Inferno per liberarne Teseo. Costui insieme con Piritoo eravi disceso per condurne via Proserpina, moglie di Plutone; ma l’effetto non corrispose al loro temerario ardire. Cerbero si avventò sopra Piritoo e lo strangolò: Teseo fu caricato di catene, e detenuto prigioniero. Dicono altri, che Teseo, per ordine di Plutone, fu legato ad un sasso, e vi fu tenuto finchè Ercole, spedito da Euristeo, venne a liberarnelo. Egli stava così strettamente attaccato a quel sasso che vi dovette lasciar la sua pelle.
Oltre a queste dodici fatiche, attribuisconsi ad Ercole molte altre famose imprese. Tale fu quella allorchè, per disgravare Atlante, sostenne sul proprio dosso, per qualche tempo, il Cielo. Sterminò i centauri; uccise Busiride, Anteo, Ippocoonte, Eurito, Erice, Lico, Caco e molti altri assassini o tiranni. Strappò Cerbero dall’Inferno; ne liberò Alceste, che restituì a suo marito Admeto. Uccise l’aquila, che pascevasi del fegato di Prometeo legato sulla sommità del monte Caucaso. Uccise il mostro marino, cui era stata esposta Esione, figliuola di Laomedonte; e per punire in seguito lo stesso Laomedonte, che gli niegò i cavalli promessigli, rovesciò le mura di Troja, e diede Esione a Telamone. Separò le due montagne Calpe ed Abila, appellate dipoi le Colonne d’Ercole. Vinse Erice alla lotta. Combattè contro il fiume Acheloo, e gli svelse un corno. Per vendicarsi delle continue persecuzioni di Giunone, le lanciò una freccia a tre punte, e la ferì nel seno, per la quale sentì ella dolori acutissimi. Ferì Plutone con un colpo di freccia sulla spalla; ciò che obbligò questo Dio a recarsi in Cielo per farsi guarire dal medico di Giove. Molestato un giorno dagli ardori del Sole, montò in collera contro questo astro, e tese il suo arco per tirar contro lui. Il sole, ammirando il di lui coraggio, gli fece dono di una barchetta d’oro, sulla quale egli imbarcossi. Finalmente Ercole essendosi presentato ai giuochi olimpici per disputare il premio, e non avendo alcuno osato contendere contro lui, Giove stesso, sotto la figura di atleta, volle lottar contro suo figlio; e perchè, dopo un lungo contrasto, il vantaggio era uguale da entrambe le parti, Giove si scoprì, e fece i più grandi encomj al valore di suo figlio.
Ercole ebbe molte mogli ed un gran numero di favorite. Le più conosciute sono Megara, Onfale, Jole, Epicasta, Partenope, Auge, Astiochea, Astidamia, Dejanira e la giovinetta Ebe, ch’egli sposò nel Cielo. L’amore che concepì per Onfalo, lo indusse a vestirsi da femmina, per compiacerla, ed a filare insieme con lei.
La morte di Ercole fu un effetto della gelosia di Dejanira. Questa principessa avvedutasi che suo marito amava la giovinetta Jole, figlia di Eurito, gl’inviò una tunica (specie di camicia) tinta del sangue del centauro Nesso, credendo così impedirlo dall’amare altre donne; ma Ercole appena che si era coverto di questa fatal vesta, il veleno, ond’era infettata, fece sentirsi efficacemente nel suo corpo, e serpeggiando per le vene, penetrò fino nelle midolla delle ossa. Invano cercò egli strapparsi d’adosso questa tunica funesta, perchè erasi attaccata alla pelle, e quasi incorporata colle sue membra ed a misura ch’egli ne la distaccava, laceravasi la pelle e la carne. Ercole in tale stato infelice spingeva de’ gridi orribili, e profferiva le più detestabili imprecazioni contro la sua perfida sposa. Vedendo finalmente diseccarsi tutte le sue membra, e già vicino il termine di sua vita, innalzò un rogo sul monte Oeta, sul quale distese la sua pelle di leone, vi si coricò sopra, pose la sua clava sotto la testa, ed impose indi a Filottete di appiccarvi il fuoco, e di aver cura di conservar le sue ceneri. Appena acceso il rogo, un fulmine cadde dal Cielo sopra di lui, e in un istante lo ridusse in cenere, per purificare ciò che era in Ercole di mortale Giove lo trasportò subito nel Cielo, e lo collocò nel numero de’ Semi-Dei. Filottete gli eresse un tempio, e bentosto vi si offrirono de’ sagrifizj. I Tebani ed altri popoli della Grecia gl’innalzarono degli altari, ed il suo culto fu trasferito in Roma, in Ispagna e nelle Gallie.
Ercole viene rappresentato sotto la sembianza di un uomo forte e robusto, con la clava in mano, coverto della pelle del leone nemeo, che porta sul braccio e sulla testa. Nota 48. fig. 28.
Ermione, figlia di Menelao e di Elena. Fu data in isposa a Pirro, quantunque fosse stata destinata da Tindaro, suo avo materno, ad Oreste; il quale sdegnato per tale ingiuria, assalì Pirro nel tempio di Apollo e l’uccise.
Ero, sacerdotessa di Venere, dimorava a Sesto, città situata sulle spiagge dell’Ellesponto dalla parte d’Europa. Leandro, suo amante, dimorava in Abido dalla parte dell’Asia rimpetto a Sesto. Questo giovane, avendola veduta in una festa di Venere, se ne invaghì, e s’insinuò nel di lei cuore; e perchè voleva nascondere a’ suoi parenti tal passione; recavasi a Sesto in tempo di notte, tragittando a nuoto l’Ellesponto, che quivi era di 875 passi. Ero teneva ogni notte una fiaccola accesa sull’altura di una torre per guidarlo nel suo tragitto. Dopo varj felici abboccamenti, un giorno il mare si turbò, e così scorsero sette giorni senza poterlo passare. Leandro impaziente, non potè determinarsi ad attendere la calma; gittossi a nuoto, mancò di forze, si annegò, e le onde spinsero il cadavere sulla spiaggia di Sesto, ove fu riconosciuto. Ero risoluta di non sopravvivere alla disgrazia del suo amante, si precipitò nel mare. Una medaglia rappresenta Leandro preceduto da un amorino che vola, con una fiaccola in mano per guidarlo nel suo pericoloso tragitto.
Esculapio, Dio della medicina, figlio di Apollo e di Coronide, la quale lo partorì sul monte Titeo dalla parte che guarda Epidauro. Allevato da una donna nominata Trigone, passò ben presto sotto la disciplina di Chirone. I suoi progressi furono rapidi nella conoscenza delle piante, e nella composizione de’ medicamenti: egli stesso ne inventò un gran numero e molto salutari. Fu compagno di Ercole e di Giasone nella spedizione della Colchide, e rese de’ grandi servigi agli Argonauti. Non contento di guarire le malattie, giunse a risuscitare i morti. Plutone Dio dell’Inferno, lo citò innanzi al tribunale di Giove, querelandosi che l’impero de’ morti diminuivasi di giorno in giorno, e correva rischio di desolarsi interamente. Giove sdegnato, uccise Esculapio con un fulmine. Apollo offeso per la morte di suo figlio, uccise i Ciclopi, che avevano fabbricato quel fulmine. Poco dopo la sua morte ricevette onori divini. Adoravasi in Epidauro sotto la figura di un serpente. Gli ammalati venivano in folla ne’ tempj di questo Dio, situati per lo più fuori la città, per esser guariti delle loro malattie: vi passavano per l’ordinario tutta la notte, ed allorquando ricevevano qualche sollievo, vi lasciavano delle immagini rappresentanti le parti del corpo ch’erano state guarite. Fig. 29.
Esione, figlia di Laomedonte re di Troja. Questo re aveva convenuto con Nettuno ed Apollo di pagar loro una certa somma di denaro, purchè lo ajutassero a fabbricare le mura di Troja. Compita l’opra, Laomedonte non adempì la promessa. Apollo perseguitò il paese colla peste; e Nettuno, dopo una terribile inondazione, fece uscire un mostro marino, che ingojava gli abitanti della spiaggia. I Trojani consultarono l’oracolo, il quale rispose, che per esser liberati dalle loro afflizioni, doveasi riparare la ingiuria fatta agli Dei con esporre al mostro uno de’ loro figliuoli da estrarsi a sorte. Furono descritti i nomi di tutti, e messi in una urna. La sorte cadde sopra Esione, figlia di Laomedonte. Questa principessa era già incatenata ed esposta nel lido del mare per esser divorata dol mostro, allorchè scese ivi a terra Ercole insieme coi suoi compagni Argonauti. L’eroe avendo inteso da Esione stessa il di lei infortunio, spezzò le catene ond’era cinta, ed entrato ben tosto nella città, promise al re di uccidere il mostro. Commosso il re da questa generosa offerta, gli offrì, in ricompensa, i suoi cavalli invincibili, e così agili che correvano sopra la acque; e permise altresì ad Esione di seguire il suo liberatore. Questa principessa, temendo di non esser di nuovo esposta dai Troiani, nel caso che comparisse il mostro, consentì a seguir Ercole, che se ne innamorò; ma perchè doveva andare prima in Colchide per la spedizione del vello d’oro; lasciò in custodia di Laomedonte Esione e i cavalli, che gli erano stati promessi. Al suo ritorno spedì Telamone a prendere Esione e i cavalli; ma Laomedonte, in vece di adempire, fece arrestar Telamone. Ercole sdegnato assediò la città di Troja, la saccheggiò, uccise Laomedonte, tolse Esione, e la diede a Telamone, che seco la condusse in Tracia.
Esperidi, figlie di Espero, appellate Aretusa, Egle, ed Esperetusa (ovvero Ipertusa). Possedevano un bel giardino pieni di pomi d’oro, custodito da un dragone a cento teste, che fu in seguito ucciso da Ercole. Nota 49.
Espiazione, in latino expiatio da piaculum, delitto e metonimicamente, sagrifizio di espiazione; quindi le parole purgare, lustrare, februare, expiare significano un atto di religione, per mezzo del quale gli antichi credevano cancellare le colpe o allontanare le temute disgrazie, ovvero purificare i luoghi contaminati. Le teologie de’ barbari fondate sulle incerte basi della speranza e del timore, trovavano nella espiazione un sedativo onde calmare gli allarmi prodotti della loro fantasia. Gli Ebrei celebravano ogni anno la festa dell’espiazione per li peccati del popolo il giorno 10 del mese Tisri che corrisponde ad una parte de’ nostri mesi di settembre e di ottobre. Il gran sacerdote offriva un bove in sagrifizio, riceveva indi dal popolo due becchi e un montone, che gli venivano presentati all’entrata del tabernacolo o del tempio. Tirava la sorte sopra questi due becchi, mettendo in una urna due viglietti, uno per lo Signore, l’altro per Azazel, cioè per lo becco, che doveva esser condotto fuori della città, e che credevasi di aversi addossato i peccati del popolo. In tutte le nazioni lo spirito di siffatte pratiche fu presdo a poco lo stesso: la vittima doveva pagare il fio dei peccati altrui. I Romani anche celebravano ogni anno; il dì 5 Febbrajo la festa dell’espiazione della città, detta amburbium. Di quì è che S. Agostino nella sua Città di Dio chiama il mese di febbrajo Sacrum purgatorium. Questa medesima festa ricorreva ogni cinque anni, e chiamarsi Suovetaurilia o Solitaurilia, perchè sagrificavano un porco, una pecora ed un toro, di qui vien detto lustrum lo spazio di cinque anni. Gli antichi Galli nel giorno della espiazione per li peccati del popolo, facevano morire a colpi di pietre un uomo, che avevano bene ingrassato per un anno intero di cibi i più dilicati. Vi erano l’espiazioni per le armate armilustrium, per le campagne ambarvale; per le greggi, per gli spiritati, per coloro, che intervenivano né funerali, o toccavano un corpo morto, per coloro, che volevano iniziarsi ai misteri di Cerere, o alle Orgie. La idea del purgatorio vale espiazione delle anime di coloro, i quali muojono senz’aver soddisfatto interamente alla giustizia divina. L’abluzione battesimale, l’acqua benedetta, sono una immagine delle antiche purificazioni, il cui oggetto è di lavar le anime dalle colpe.
Età dell'oro. La prima delle quattro età, che seguirono la formazione dell’uomo. I poeti fissarono questa età nel regno di Saturno, durante il quale videsi regnar sulla terra la innocenza e la giustizia. Allora la terra produceva, senza il soccorso dell’arte, tutto ciò ch’è necessario ed utile alla vita. Ruscelli di latte e di miele scorrevano da ogni parte. Questa età viene rappresentata sotto la figura di una giovinetta che sta in piedi all’ombra di un ulivo, simbolo della pace, sul quale è uno sciame di api. I suoi orecchini indorati pendono negligentemente sulle sue spalle: le sue vesti sono un intessuto di oro senza ornamento, e tiene in mano un corno dell’abbondanza, dond’escono differenti specie di fiori e di frutta. Nota 50.
Età dell'Argento. Saturno passò questo tempo in Italia, ove insegnò l’arte di coltivar la terra, la quale ricusava produrre, perchè gli uomini cominciavano a divenire ingiusti. Allora si osservarono le prime vicende delle stagioni, e le arti divennero necessarie per supplire alle cose che la natura niegava. Cominciò allora il regno di Giove. Questa età viene raffigurata da una giovine meno bella della precedente, per significare che da quel tempo cominciò l’alterazione nelle perfezioni della natura umana. I suoi abiti sono fregiati di un ricamo di argento, e la sua testa è adorna di perle disposte con arte. Appoggiata su di un aratro, sta in piedi innanzi ad una capanna con alcune spighe di biada in una mano, per indicare che in questa età ebbe il suo cominciamento la coltura delle terre, e la costruzione delle umili case. Fig. 36.
Età del rame. Questo fu il tempo, in cui dopo il regno di Saturno, il libertinaggio e la ingiustizia cominciarono a manifestarsi, senza che però la umana perversità si dichiarasse così apertamente come avvenne nella età seguente. In questo tempo fissaronsi le leggi della proprietà de’ beni; l’uomo percorse le più rimote regioni e penetrò fino nelle profonde viscere della terra per trarne i preziosi metalli. Questa età viene espressa sotto la sembianza di una donna riccamente vestita con un portamento ardito, coronata di un caschetto, la cui sommità ha per ornamento un ceffo di lione. Tiene nella man dritta una spada e con la sinistra sta appoggiata sopra uno scudo. Veggonsi intorno a lei delle fabbriche di una struttura alquanto elegante. Fig. 38.
Età del ferro. Così fu appellato quel tempo in cui commettevansi i più orribili delitti. I poeti hanno finto che la terra tenesse chiuso il suo seno, e non producesse più alcuna cosa, poichè gli uomini non si occupavano che della cura di nuocersi scambievolmente. Questa età viene rappresentata da una donna di aspetto feroce, armata da capo a piedi, con un caschetto sul capo, guernito di una testa di volpe, con una spada nuda a man dritta in atto di combattere, ed alla sinistra uno scudo sul quale è incisa la immagine della frode sotto figura umana, col corpo di sirena o di serpente. Veggonsi a suoi piedi differenti trofei di guerra, e in lontananza alcune fortezze.
Eteocle, figlio incestuoso di Edipo e di Giocasta, e fratello di Polinice. Dopo la morte di Edipo, Eteocle e Polinice erano convenuti di regnare alternativamente ciascuno di essi un anno; e per evitare ogni contrasto, quello di essi che non fosse sul trono nell’anno di sua vicenda, doversi allontanare da Tebe. Eteocle regnò il primo, come maggiore, ma allettato dallo splendore della corona, terminato l’anno non volle lasciare religno. Polinice accompagnato da Adrasto suo suocero venne alla testa di un’armata di Argivi per ricuperare lo scettro. Questi due fratelli nimici, per risparmiare il sangue de’ popoli, vennero a duello, e si uccisero l’un l’altro in presenza delle due armate. La loro discordia era stata così grande durante la loro vita che durò anco dopo la loro morte. Le fiamme del rogo sul quale si fecero bruciare i loro cadaveri, si separarono e lo stesso accadeva ne’ sagrifizj, che loro offrivansi in comune. Nota 51.
Etna, montagna nella Sicilia, famosa per il suo vulcano, e per li Ciclopi che l’abitavano. I poeti hanno immaginato che in questa montagna erano le fucine di Vulcano, e che i Ciclopi travagliavano ivi continuamente a fabbricare i fulmini a Giove.
Etra, figlia di Piteo, re di Trezene. Fu ingravidata da Egeo, re di Atene, il quale stava alloggiato in casa del di lei padre. Egeo costretto a ritornarsene in Attica le raccomandò che, sgravandosi di un maschio, glielo inviasse fatto che fosse grande, e lascialle una spada ed alcune scarpe, per mezzo delle quali potesse esser riconosciuto. Il bambino che nacque fu il famoso Teseo. Piteo per salvar l’onore di sua figlia, fece correr voce che il di lei amante era Nettuno; circostanza che dipoi fece passar Teseo per figlio di questo Dio. Elena essendo stata rapita nella sua fanciullezza da Teseo, fu lasciata sotto la custodia di Etra nella città di Afidne. Castore e Polluce, sdegnati per lo ratto della loro sorella, assediarono Afidne, in assenza di Teseo, ne ricondussero Elena e seco Etra, che le fu assegnata per sua schiava. Etra seguì la sua padrona nelle diverse avventure sino alla presa di Troja, ove ella fu riconosciuta da suoi nipoti Acamante e Demofoonte, e liberata dalla schiavitù, allorchè i Greci volevano arrestarla come una principessa della famiglia di Priamo.
Ettore, figlio di Priamo e di Ecuba, uno de’ più valorosi principi trojani. In molti combattimenti trionfò de’ più valorosi guerrieri, come Ajace, Diomede ec. Gli oracoli avevano predetto che l’impero di Priamo non potrebbe esser distrutto fintantochè esisterebbe il terribile Ettore. Durante la ritirata di Achille, egli appiccò il fuoco ai vascelli de’ nimici, ed uccise Patroclo, che voleva opporsi ai suoi disegni. Il desiderio di vendicar la morte dell’amico richiamò Achille al campo. Priamo ed Ecuba, alla vista di questo formidabile guerriero, palpitarono per la vita del loro figlio e colle più vive istanze cercarono persuaderlo ad evitare il combattimento; ma Ettore fu inesorabile, ed obbligato dal suo destino, prese le sue armi, fece i suoi complimenti di congedo ad Andromaca, e marciò contro il suo competitore. Achille trionfò di Ettore, lo uccise, lo espose al furore de’ Greci, e tre volte trascinò il di lui corpo intorno alle mura di Troja, dopo averlo attaccato pei piedi al suo carro. Priamo supplichevole presentò ad Achille alcuni donativi capaci di mitigare il suo sdegno; gli baciò la mano ancor lorda del sangue di suo figlio, e gli chiese piangendo il cadavere, che gli fu concesso a preghiere di Teti. Apollo prese cura di lui, e gli fece rendere gli estremi uffizj.
Eumenidi, altramente dette Furie, figlie dell’Inferno. Erano tre, Aletto, Megera e Tesifone. Castigavano nel Tartaro, e flagellavano con serpi e con faci ardenti coloro, che avevano vissuto malamente. Vengono rappresentate col crine intralciato di serpi in vece di capelli, tenendo nelle mani alcuni aspidi e delle fiaccole accese. (Vedi Furie).
Eumeo, intendente degli armenti di Ulisse, e suo confidente. Era figlio del re della isola di Siros. Nella sua infanzia essendo stato preso da alcuni corsali di Fenicia, fu condotto in Itaca, e venduto, come schiavo, a Laerte padre di Ulisse, che dopo di averlo fatto allevare nel suo palazzo, lo destinò alla custodia de’ suoi armenti. Ulisse al suo ritorno da Troja dopo venti anni di assenza, portossi a dirittura a casa di Eumeo, e coll’ajuto di questo suo famigliare, riuscì a sterminare gli amanti di Penelope.
Eurialo, figlio di Ofelte; guerriero trojano, di una rara bellezza, amato teneramente da Niso, altro giovine trojano. Questi due amici guerrieri non si separavano mai ne’ combattimenti. Dopo la presa di Troja, entrambi seguirono Enea. Ne’ giuochi dati da questo principe in onore di Anchise, Eurialo fu debitore del premio della corsa alla scaltrezza di Niso, il quale, essendosi lasciato cadere a bella posta innanzi a Salio, lo rovesciò, e così diede tempo all’amico di arrivare il primo alla meta. In Italia Niso concepì il disegno di fare una irruzione nel campo de’ Latini. Eurialo volle divider seco la gloria di questa pericolosa impresa. La fortuna secondò i primi loro sforzi; ma essendo stati investiti da un distaccamento nimico, Eurialo fu ucciso da Volscente: questi cadde anch’egli sotto i colpi di Niso, il quale, trafitto dalle lance nimiche, morì contento di aver vendicato il suo amico.
Euridice, moglie di Orfeo. Passeggiando un giorno in un prato smaltato di fiori, Aristeo, figlio di Apollo e della Ninfa Cirene, si pose a perseguitarla. Euridice fu morsicata nel calcagno da un serpente, che stava nascosto sotto l’erba, dalla quale morsicatura morì nel giorno medesimo delle sue nozze. Orfeo inconsolabile della di lei morte, prese la sua lira, e sperando ricuperarla, penetrò fin nell’Inferno per andare ivi a cercarla, e fece risuonare le profonde stanze del Tartaro di concerti sì dolci e commoventi che Plutone e Proserpina gli restituirono Euridice, a condizione però di non rivolgersi a guardare indietro finchè sarebbe uscito dall’Inferno. Euridice lo seguiva. Non gli restava a fare che un sol passo per uscire; ma impaziente di vedere s’ella lo seguiva, rivolse indietro lo sguardo; all’istante Euridice disparve, e gli fu involata per sempre.
Euristeo, re di Micene, figlio di Amfitrione e di Alcmena, altri dicono di Micippe. Giunone lo fece nascere prima di Ercole, affinchè, come primogenito, avesse qualche autorità sopra Ercole. Euristeo temendo esser detronizzato da suo fratello, lo tenne occupato fuori de’ suoi stati; onde così toglierli la occasione di turbare il suo regno. Altronde egli lusingavasi che Ercole perirebbe certamente in alcuna di quelle pericolose imprese, delle quali lo incaricava: ma Ercole restò sempre vittorioso: queste appunto sono le così dette fatiche di Ercole. Allora Euristeo costretto di contentarsi del regno di Argo, cessò di perseguitarlo.
Europa, figliuola di Agenore, re di Fenicia, e sorella di Cadmo. Ella era estremamente bella. Il roseo colore delle sue guance e la sua rara bianchezza diedero motivo a dirsi ch’ella avea tolto il belletto di Giunone. Giove s’invogliò di lei, ed avendola veduta un giorno trastullare sul lido del mare insieme con le sue compagne, si trasformò in toro, le si avvicinò con aria dolce e carezzante, lasciò ornarsi di ghirlande, mangiò dell’erbe presentategli dalla di lei leggiadra mano, e le inspirò tal fiducia ch’ella gli montò sul dorso; all’istante il trasformato Nume gittossi in mare, e pervenne, nuotando, nell’isola di Creta. Siccome questa principessa era molto bianca, credesi perciò che abbia dato il nome all’Europa, i di cui abitanti sono bianchi. Ella si attirò la stima e l’amicizia de’ Cretesi, i quali, dopo la sua morte, la onorarono come una divinità. Ebbe da Giove tre figli, Minosse, Sarpedone e Radamanto. Nota 52.
Euterpe, una delle nove muse, inventrice del flauto; presedeva alla musica. Viene rappresentata sotto la figura di una giovinetta coronata di fiori, tenendo in mano alcune carte di musica ed un flauto, con varie chiarine, ed altri strumenti musicali presso a lei; allegoria graziosa, con la quale gli Antichi han voluto esprimere le attrattive delle belle arti per coloro che le coltivano. Fig. 3o.
Evandro, capo di una colonia di Arcadi, che venne a stabilirsi in Italia presso il monte Aventino. Questo saggio principe vi recò con l’agricoltura l’uso delle lettere; ciò che gli attirò la stima, ed il rispetto de’suoi sudditi. Ricevette in sua casa Ercole, e fu egli il primo ad onorarlo, ancor vivente, come una divinità; gli eresse un altare, ed immolò in onor suo un torello. Virgilio suppone che Evandro vivesse ancora al tempo di Enea; che abbia fatto seco un’alleanza, e lo abbia soccorso con truppe. Evandro dopo la sua morte fu collocato nel numero degl’Immortali, ed ebbe onori divini.
Note
- ↑ Altri dicono che si strangolò con la propria cintura.