Dizionario mitologico ad uso di giovanetti/Mitologia/D
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Traduzione dal francese di Francesco Rossi (1816)
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D
Dafne, figlia del fiume Peneo. Apollo, nel tempo del suo esilio, divenuto pastore, concepì amore per lei, ma ella gli preferì Leucippo, giovinetto di età pari alla sua. Apollo intanto non si scoraggì. Inseguendo un giorno questa ninfa insensibile ai suoi desiderj, la raggiunse sulla riva del fiume Peneo. Dafne, stanca per la fatica, implorò finalmente il soccorso di suo padre, il quale per sottrarla agl’insulti dell’audace Dio, la trasformò in alloro. Apollo non abbracciò che un tronco inanimato; ne strappo un ramo, di cui si formò una corona, e volle che d’allora in poi quest’albero fosse a lui sagro, e che costituisse la degna ricompensa de’ poeti.
Un pittore avendo tentato sbozzar la immagine di Apollo sopra una tavoletta di legno di alloro, i colori non poterono attaccarsi sul legno, come se Dafne anche tutto questa immagine avesse voluto respingere il suo persecutore. Questo racconto, per quanto sia favoloso, contiene una idea molto felice per esprimere la delicatezza del pudore.
Danae figliuola di Acrisio, re di Argo, e di Euridice. Acrisio, avendo inteso da un oracolo che doveva essere ucciso da un figlio che nascerebbe da Danae, rinchiuse costei in una torre di bronzo, per toglierla alla vista degli uomini. Giove, invaghitosi di questa principessa, discese dal Cielo, ed entrò nella torre in forma di pioggia d’oro. La bella Danae si arrese volentieri alle preghiere del Nume, che la rese madre di Perseo (il fondator di Micene). Acrisio, avendo inteso che sua figlia era gravida, fecela esporre in un battello sdrucito; ma ella fortunatamente approdò sulla spiaggia dell’isola di Serifo. Un pescatore, che la scoprì, la condusse tosto al re Polidetto, il quale sposolla e prese cura di Perseo. L’oracolo si avverò dopo qualche tempo; poichè Acrisio fu ucciso da Perseo con un colpo di disco. Nota 36..
Danaidi. Erano cinquanta sorelle figlie di Danao, re di Argo. Questi regnò dapprima in Egitto insieme con suo fratello Egitto, il quale dopo nove anni di unione e di concordia, si rese assoluto padrone, e assoggettò suo fratello alle sue leggi. Egitto aveva cinquanta figli, ed altrettante figlie aveva Danao. Egitto propose di dare per isposi i suoi figli alle sue nipoti. Danao, non volendo acconsentire a tali nozze, o perchè ne fosse avvertito da un oracolo, che gli aveva predetto di dover essere ucciso da un suo genero; o verisimilmente perchè si lusingava di fare delle parentele più utili a suoi interessi, se ne fuggì dall’Egitto in unione della sua famiglia, e ritirossi a Rodi, indi ad Argo, di cui divenne re. Egitto geloso dell’ingrandimento, che suo fratello avrebbe ricevuto dalle parentele di cinquanta generi scelti fra i principi della Grecia, inviò i suoi figli ad Argo alla testa di una poderosa armata, per dimandar le nozze delle loro cugine-germane. Danao, troppo debole per resistere alla loro forza, acconsentì; ma sotto la legge del segreto incaricò le sue figlie che nella notte delle loro nozze, ciascuna si armasse di un pugnale, nascondendolo sotto la veste, ed in un medesimo tempo uccidesse il proprio marito. Il progetto fu eseguito da tutte, fuorchè da Ipermnestra, che salvò suo marito Linceo. Giove, per punire la crudeltà di queste spose, le condannò a versare dell’acqua eternamente in una botte forata.
Dardano, figlio di Giove e di Elettra, figlia di Atlante. Avendo ucciso suo fratello Jasio, ovvero Giasio, fu costretto a fuggire dall’isola di Creta, altri dicono da Italia, donde passò in Asia, ed ivi fabbricò una città, cui diede il nome di Dardania, che dipoi divenne la celebre Troja. Nota 37.
Dattili Idei, ovvero Coribanti o Cureti. Gli uni erano figli del Sole di Minerva, gli altri di Saturno e di Alciope. Giove fu posto tra le loro mani, per essere allevato; ed eglino colle loro strepitose danze, impedirono che le grida del Dio fanciullino non pervenissero alle orecchie di Saturno, che lo avrebbe divorato. Erano sacerdoti di Cibele, appellati Idei dal monte Ida nella Frigia, ove questa Dea era venerata, e Dattili, perchè cantavano de’ versi, la cui misura ineguale imitava il tempo del piede, che i Latini chiamavano dattilo.
Dedalo, figlio d’Iniezione, nipote di Eumolpo e pronipote di Erecteo re di Atene. Fu discepolo di Mercurio, ed uno de’ più eccellenti artefici, cha la Grecia abbia prodotto; architetto e scultore distinto; inventore dell’ascia, del trapano, della livella, ossia traguardo e di altri strumenti; egli fu che sostituì l’uso delle vele a quello de’ remi, e fece delle statue che camminavano, e che furono perciò decantate come automati animati; ma il suo talento non lo rese superiore alla debolezza della invidia. Uccise Talo suo nipote e suo discepolo, perchè era divenuto abile al pari di lui, sul dubbio che avrebbe potuto superarlo in appresso. L’Areopago lo condannò alla morte, o, secondo altri, ad un perpetuo esilio. Costretto a fuggirsene, ritirossi in Creta alla corte di Minosse, ove costruì il Labirinto, tanto celebrato da poeti. Dedalo fu la prima Vittima della sua invenzione; poiché avendo favorito gli amori di Pasife, moglie di Minosse con un toro, fu rinserrato nel medesimo labirinto insieme con suo figlio Icaro e col Minotauro. Dedalo allora fabbricò alcune ale artifiziali, che attaccò a forza di cera alle sue spalle ed a quelle di Icaro, e ne uscirono 1. Icaro, dimentico delle istruzioni di suo padre, si avvicinò molto al Sole; la cera delle ale si liquefece, e precipitò nel mare Egeo, ove annegossi. Questo mare d’allora in poi portò il nome di mare d’Icaro. Dedalo salvossi in Sicilia, altri dicono in Egitto, presso il re Cocalo, che dapprima gli accordò l’asilo, ma dopo qualche tempo lo fece morir soffocato in una stufa, per prevenire l’effetto delle minacce di Minosse. Nota 38..
Deifobe, Sibilla di Cuma, figlia di Glauco, e sacerdotessa di Apollo. Questo Dio essendosi innamorato di lei, per renderla sensibile alla sua passione, le offrì tutto ciò che avrebbe desiderato. Ella dimandò di vivere tanti anni per quanti granelli di sabbia avesse potuto contenere in una mano; ma sfortunatamente dimenticò di chiedergli il vantaggio di conservar la sua giovinezza, durante un sì lungo tempo. Nulladimeno Apollo gliela offrì, purché volesse corrispondere alla di lui tenerezza; ma Deifobe preferì il vantaggio di una castità inviolabile al piacere di godere una eterna gioventù. Una lunga e tediosa vecchiezza succedette a’ suoi begli anni. Sin dal tempo di Enea aveva già vissuto settecento anni, e gliene rimanevano ancora altri trecento, dopo i quali il suo corpo doveva esser consumato e quasi annichilito, in guisa che non si sarebbe riconosciuta che alla voce. Questa Sibilla dava i suoi oracoli dal fondo di un antro, ch’era nel tempio di Apollo. Quest’antro aveva cento porte donde uscivano altrettante voci terribili, che facevano sentire le risposte della profetessa. A lei ricorse Enea per discendere nell’Inferno.
Uno de’ figli di Priamo appellavasi Deifobo. Sposò Elena dopo la morte di Paride; ma nella notte della presa di Troja, Elena, di concerto con Menelao, suo primo marito, l’uccise, per rientrare in grazia di costui.
Dejanira, figlia di Eneo, re di Calidone nell’Etolia, fu dapprima promessa in isposa ad Acheloo, indi ad Ercole; ciò che fu motivo di eccitarsi un’aspra contesa tra questi eroi. Acheloo essendo stato vinto in duello, la giovine principessa fu il premio del vincitore, il quale, mentre la conduceva nella sua patria, fu costretto di fermarsi sulla sponda del fiume Eveno, le cui acque erano oltremodo cresciute. Mentr’egli stava deliberando, se dovesse retrocedere, il Centauro Nesso venne ad offrirsi da se stesso di passar Dejanira sul di lui dorso. Ercole, avendo acconsentito, fu il primo ad attraversare il fiume. Arrivato all'altra sponda, si avvide che il Centauro lungi di passar Dejanira, disponevasi a farle violenza. Sdegnato allora l'eroe della baldanza di Nesso, gli scagliò una freccia tinta nel sangue dell’idra Lernea e lo trafisse. Nesso, sentendosi vicino a morte, diede a Dejanira la sua tunica (o camicia) insanguinata, dicendole che s’ella potesse persuadere suo marito a portarla, sarebbe questo un mezzo sicuro di affezionarselo inviolabilmente e d’insinuargli del disgusto per qualunque altra donna. La giovine sposa, troppo credula, accettò il dono per avvalersene all’uopo. Qualche tempo dopo, avendo saputo ch’Ercole era trattenuto in Eubea dalle attrattive di Jole, figlia di Eurito, gl’inviò la tunica di Nesso per mezzo di un giovine schiavo nominato Lica, cui incaricò di dire la sua parte al di lei marito cose le più tenere e le più commoventi. Ercole, che non sospettava affatto del disegno di sua moglie, ricevette con sporto di gioja questo dono fatale; ma appena se lo avea messo indosso che si sentì straziato da dolori cosi acuti, che, divenuto furioso, prese Lica e lo sbalzò nel mare, ove cangiassi in uno scoglio. Dopo di ciò questo eroe, sempre in preda a dolori che lo divoravano, e non potendo più sopportarli, troncò alcuni rami di alberi sul monte Oeta, e ne formò un rogo, sul quale coricatosi, pregò il suo amico Filottete di appiccarvi il fuoco. Quando Dejanira ebbe la notizia della morte di Ercole, ne concepì tanto rammarico che da se stessa si uccise. Dal di lei sangue sorse una pianta appellata Ninfea, o Eracleon.
Delfo città nella Focide situata in una valle presso il monte Parnasso. Gli antichi credevano che questa città fosse il centro della Terra. Giove, volendo segnare il centro dell’Universo, fece volare nel medesimo tempo e colla medesima rapidità due aquile, una da Levante, l’altra da Ponente: esse incontraronsi in questa città, celebre altronde per lo tempio e per l’oracolo di Apollo. Dicesi che un caprajo nominato Coreta, mentre custodiva il suo gregge presso il monte Parnasso, si avvide che le sue capre, in avvicinarsi ad una caverna, saltellavano, e spingevano delle grida: egli medesimo vi si avvicinò, ed inebbriato dai vapori, che ne uscivano, cominciò a profetizzare. In seguito gli abitanti del vicinato avendo anche sperimentato lo stesso entusiasmo supposero che il prodigio fosse prodotto dalla terra stessa. Vi si offrirono de’ sagrifizj, e vi si fabbricò il tempio e la città di Delfo. Apollo vestito de’ suoi abiti immortali, profumato di spiritosi odori, e suonando la sua celeste ed armoniosa lira, venne sul Parnaso, s’ impadronì dell’antro, e cominciò a rendervi degli oracoli. Da tutte le parti accorrevasi a consultarlo; quindi le infinite oblazioni e le immense ricchezze, delle quali il tempio e la città erano pieni; e che divennero considerevoli a segno di paragonarsi a quelle de’ re di Persia. Quest’oracolo era molto antico, e fioriva quasi un secolo prima della guerra di Troja.
Delo isola del mare Egeo. Nettuno con un colpo del suo tridente fece sorger questa isola dal fondo del mare, per assicurare a Latona, perseguitata da Giunone, un luogo, ov’ella avesse potuto mandare alla luce Apollo e Diana. Apollo, in riconoscenza di ciò, da fluttuante ch’era, la rese immobile, e la situò in mezzo alle Cicladi. Gli abitanti di questa isola adoravano Apollo sotto la figura di un dragone, ed egli vi dava i suoi oracoli per sei mesi in ogni anno.
Destino, cieca Divinità, che dicesi nata dalla Notte e dal Caos. Tutte le altre Divinità erano sottoposte a questa. I Cieli, la Terra, il Mare, l’Inferno erano sotto il suo impero. Non vi era potenza superiore, che avesse potuto mutare ciò ch’egli aveva stabilito. I destini erano scritti sin dalla eternità in un luogo, ove gli Dei andavano a consultarli. Giove vi andò con Venere, per osservare i destini di Giulio Cesare. Quelli de’ re erano incisi sul diamante. Le ministre del Destino erano le tre Parche, incaricate della cura di far eseguire gli ordini di questa cieca Divinità. Viene rappresentato tenendo sotto i suoi piedi il globo terrestre, e nelle sue nani l’urna, che rinchiude la sorte de’ mortali. Gli si dà anche una corona fregiata di stelle ed uno scettro, simbolo della sua sovrana potenza. Fig. 23.
Deucalione, re di Tessaglia, figlio di Prometeo e marito di Pirra. Nel tempo, in cui egli viveva, gli Dei sdegnati fecero perire tutti gli uomini con un diluvio universale, perchè essi erano divenuti malvagj. Tutta la superficie della Terra ne fu inondata, fuorché un sol monte della Focide, ove arrestossi la picciola barca, che portava Deucalione, il più giusto de’ mortali, e Pirra sua sposa, la più virtuosa donna di quel tempo. Ritirate che furono le acque, recaronsi amendue a consultare la Dea Temi, che dava i suoi oracoli a piè del Parnasso, e ne ricevettero questa risposta «Uscite dal tempio: velatevi il volto: sciogliete le vostre cinture, e gittate dietro la vostra schiena le ossa della vostra gran madre.» Essi non compresero dapprima il senso dell’oracolo, ed il loro zelo fu commosso da un comando, che lor sembrava terribile. Ma Deucalione, dopo avervi riflettuto, comprese che la terra era la loro madre comune, e che le pietre erano le sue ossa. Eglino dunque ne adunarono una quantità, e gittandosele dietro il dorso, si avvidero, che quelle ch’eran gittate da Deucalione, divenivano uomini, e quelle, ch’erano gittate da Pirra, cangiavansi in femmine. Nota39.
Diana, Dea della caccia, figlia di Giove, e di Latona e sorella di Apollo. Era adorata sotto tre nomi: Diana sopra la Terra, Luna nel Cielo, ed Ecate o Proserpina nell’Inferno. Allorché Latona stava per partire i due gemelli, diede alla luce in primo luogo Diana, la quale ajutò sua madre a sgravarsi di suo fratello Apollo. Testimone de’ dolori del parto materno, concepì tale avversione per lo matrimonio, che ottenne da Giove la grazia di conservare una perpetua verginità, del pari che Minerva sua sorella. Lo stesso Dio l’armò di arco e di saette; la fece regina de’ boschi, e formò il suo corteggio di un gran numero di Ninfe, ch’ella obbligava ad una inviolabile castità. Non tollerava quelle che non fossero caste come lei e discacciò dalla sua compagnia Calisto, perchè erasi fatta sedurre da Giove. Ciò non ostante le fu imputato di aver amato il pastorello Endimione, e che andasse a visitarlo in tempo di notte. Era ella quasi sempre occupata alla caccia, abitava i boschi, seguita da una meta de’ suoi cani. Vendicativa, implacabile, era sempre pronta ad incrudelire contro coloro, che provocavano il suo risentimento. Trasformò Atteone in cervo, e lo fece divorar da’ proprj cani; perchè aveva osato mirarla mentr’ella stava nel bagno insieme con le sue ninfe. La cerva ed il cervo erano a lei particolarmente consagrati. Le si offrivano alle volte delle vittime umane; Ifigenia n’è un esempio presso i Greci. Nella Tauride tutt’i forastieri naufragati presso quella spiaggia, dovevano essere immolati in suo onore. Viene rappresentata in abito da caccia coi capelli rannodati nella parte di dietro, oon un turcasso sulle spalle, ed un cane a fianco; tenendo in mano un arco teso in atto da scoccare una freccia. Le sue gambe e i suoi piedi non sono coverti che di un coturno. La sua mammella dritta è scoverta. Sovente vedesi con la mezza-luna sulla fronte in segno di esser la Luna nel Cielo. Vedesi talvolta sopra un carro tirato da cervi bianchi; talora correndo a piedi col suo cane, e quasi sempre circondata da ninfe armate similmente di arco e di saette; ma ella innalzasi al di sopra di tutte. Questa Dea aveva in Efeso il più superbo tempio, che fosse giammai stato nel mondo. Nota 40. fig. 24.
Didone, o Elisa, figlia di Belo, re di Tiro. Aveva sposato un sacerdote di Ercole, nominato Sicheo, il più ricco di tutt’i Fenizj. Dopo la morte di Belo, Pigmalione suo figlio salì sul trono. Questo principe, acciecato dalla propria avarizia, sorprese un giorno Sicheo, in atto che sagrificava agli Dei, e l’uccise a piè dell’altare. Per lungo tempo tenne segreto questo assassinio, lusingando sua sorella di una vana speranza. Ma l’ombra di Sicheo, privato degli onori della sepoltura, apparve in sogno a Didone con viso pallido e sfigurato, le additò l’altare a piè del quale era stato immolato, le scoprì il petto trafitto da un colpo mortale, e le insinuò di fuggire, e seco trasportare i tesori da lui radunati, e nascosti sin da molto tempo in un luogo, che le indicò. Svegliatasi Bidone, dissimulò il suo dolore, e preparò la sua fuga. Sì assicurò de’ vascelli, ch’erano nel porto; vi accolse tutti coloro, che odiavano il tiranno, e partì, seco trasportando le ricchezze di Sicheo, e quelle dell’avaro Pigmalione. Approdò dapprima nella isola di Cipro: quivi ella tolse cinquanta giovinette, delle quali fece altrettante mogli a suoi seguaci: di la condusse la sua colonia sulla costa di Affrica, ove fondò Cartagine. Per fissare il recinto della sua nuova città, comperò tanto terreno quanto potesse comprenderne in circuito la pelle di un bove divisa in corregge; ciò che le somministrò una quantità di territorio bastante a fabbricarvi anche una cittadella, che fu appellata Birsa, cioè cuojo di bove. Giarba, ovvero Jarba, re di Mauritania, chiese Didone in isposa; ma l’amore che tuttavia conservava per il suo primo marito, la determinò a rifiutare questa unione. Temendo poscia di dovervi esser forzata dalle armi del suo pretentore, e dai voti de’ suoi sudditi, si uccise con un colpo di pugnale; di quì è che le fu dato il nome di Didone, che in lingua fenizia significa donna di risoluzione, in vece di quello di Elisa, che aveva avuto fino a quel punto. Virgilio nel suo poema della Eneide suppone che Didone è talmente invaghita di Enea, che non può sopravvivere alla partenza del suo amante; ma ciò è un pezzo di pretta invenzione, o un anacronismo di più di trecento anni. Egli ha finto questa passione per ispiegare i principj dell’odio implacabile de’ Romani e de’ Cartaginesi, e per adulare Augusto. Nota 41.
Diomede, figlio di Marte e di Cirene, re di Tracia, aveva de’ cavalli furiosi, che vomitavano il fuoco per la bocca. Nutrivali di carne umana, e dava loro a divorare tutt’i stranieri, che avevano la disgrazia di cadere tra le sue mani. Ercole prese, Diomede, e lo fece divorare da’ proprj suoi cavalli. Un altro Diomede, figlio di Tideo, fu il più valoroso de’ Greci dopo Achille ed Ajace. Si distinse molto nell’assedio di Troja, ov’egli ferì Marte e Venere, e fu un di coloro, che rapirono il Palladio. Venere s’indispetti talmente, che, per vendicarsene, inspirò ad Egialea, sua moglie, una violenta passione per un altr’uomo. Diomede informato di quest’oltraggio, ed avendo saputo che sua moglie attentava contro la sua vita, abbandonò l’Etolia, ove regnava, e venne a stabilirsi in Italia. Dicesi che vi fu ucciso da Enea, e che i suoi compagni ne sentirono tal cordoglio, che furono cangiati in agbironi.
Discordia, divinità malefica. Giove la discacciò dal Cielo, perchè sconcertava gli Dei tra loro. Si sentì ella talmente offesa, per non essere stata invitata alle nozze di Teti_figlia_di_Nereo e di Peleo insieme con gli altri Dei, che, per vendicarsene, gittò sullaa tavola un pomo d’oro, ov’erano scritte queste parole Alla pia bella. Giunone, Pallade e Venere si disputarono questo pomo. Finalmente Paride, per ordine di Giove, terminò la contesa in favor di Venere; ciò che fu cagione di una infinità di disgrazie. La discordia viene rappresentata con la chioma di serpenti, tenendo in una mano una fiaccola ardente, una biscia ed un puguale nell'altra. Il colore della faccia è livido, gli occhi biechi, la bocca spumante e le mani insanguinate. Fig. 25.
Dodona, città di Epiro, presso la quale era una foresta consagrata a Giove: le querce di questa foresta rendevano degli oracoli: ecco la origine di questa favola. Giove avendo fatto dono a Teba, sua figliuola, di due colombe, che parlavano, un giorno queste partirono da Tebe in Egitto, per portarsi una nella Libia a fondare l’oracolo di Giove-Ammone, e l’altra in Epiro nella foresta di Dodona, ov’ella fermossi, e disse agli abitanti del paese che Giove voleva aver quivi un oracolo. Era in questa foresta una fonte dello stesso nome, che scaturiva a piè di una quercia. La sacerdotessa ne interpretava il mormorio. Finalmente le querce medesime davano degli oracoli, vale a dire, che i sacerdoti tenevansi nascosti ne’vuoti di questi alberi per dare le loro risposte; e perchè i divoti, che li consultavano, erano in qualche distanza, non potevano accorgersi dell’inganno.
Driadi, ninfe de’ boschi. Erano queste le divinità che presedevano ai boschi ed altri alberi in generale. Furono immaginate per impedire ai popoli la distruzione delle foreste. Per troncarsi gli alberi era d’uopo che i ministri della religione dichiarassero ch’erano stati abbandonati dalle loro ninfe. La sorte delle Driadi era più felice di quella delle Amadriadi. Esse potevano andar vagando liberamente, e danzare intorno alle querce, che loro erano consagr te consagrate consagrate ; e sopravvivere alla distruzione degli alberi de’ quali erano le protettrici. Era loro permesso di maritarsi. Euridice, moglie di Orfeo, era una Driade. Le Amadriadi morivano insieme con l’albero, al quale erano unite, allorché si fosse tagliato o diradicato, ed esse non potevano distaccarsene.
Note
- ↑ Le ale erano le vele del naviglio, sul quale riuscì a Dedalo di fuggire.