Della consolazione della filosofia/Libro III
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Traduzione dal latino di Benedetto Varchi (1551)
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LIBRO TERZO
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PROSA PRIMA.
Già aveva la filosofia il suo canto finito, quando io, il quale tanta avea di quei versi dolcezza sentito, che, ingordo d'udire e pieno di stupore, stava con gli orecchi tesi e a bocca aperta per ascoltarla, stato così alquanto: O sommo conforto, (le dico), degli animi affaticati, quanto m'hai tu sì colla gravità delle sentenze ricreato e sì colla giocondità del canto! di maniera che io mi credo di dover potere da qui innanzi essere bastevole di resistere a' colpi della fortuna. Laonde io non solo non ho paura di quelli rimedii che tu dicevi dianzi che erano alquanto più agri e possenti; ma, vago d'udirli, te li chieggo con ogni istanza. Allora ella: Io me n’accorsi, rispose, quando tu così cheto stavi e così attento ad ascoltarmi, e aspettai sempre che tu così dovessi disporti nell’animo, come tu sei; anzi, per più vero dire, t’ho io medesima fatto cotale. E di vero le cose che restano a dirsi sono di maniera, che, messe in bocca e assaggiate così un poco, pare che pungano e siano aspre alquanto; ma, ingojate e mandate giù, divengono dolci e soavi. E, dove tu di’ che sei desideroso d’ascoltare, oh di quanto ardore avvamperesti tu, se, dove a menarti già cominciamo, conoscessi! E dove? dissi io. Alla vera felicità, rispose ella, la quale è ben conosciuta ancora e desiderata dall’animo tuo, ma come per un sogno; perciocché, essendo tu vôlto tutto e intento a riguardare le immagini e sembianze sue, lei stessa vedere non puoi. Allora io: Deh fallo, dissi, chè io te ne priego; e quale quella vera sia, senza indugio mi dimostra. Farollo volentieri, mi rispose, per amor tuo; ma prima mi sforzerò di disegnare con parole e quasi formarti quella, della quale tu hai contezza maggiore, a fine che, veduta da te la falsa felicità, possa, quando rivolgerai gli occhi nella parte contraria, conoscere la vera.
LE PRIME RIME.
Chi seminar terra non colta, e frutto
Coglier da campo non più arato vuole,
Sveller gli sterpi, e colla falce suole
Di roghi e felci pria purgarlo tutto.
5Il mel, se 'l ver comprendo,
Dopo alcun breve amaro
Si gusta più soave, e vien più caro.
Dopo aspra pioggia e tempestosi venti
Par che più dolce rimiriam le stelle;
10Dopo atre notti, più lucenti e belle
Luci più vago il sol mena alle genti:
Così tu, prima i ben falsi scorgendo,
Comincia a trar dal duro giogo il collo;
Poi de’ veri sarai lieto e satollo.
PROSA SECONDA.
Allora ella, bassati alquanto gli occhi e quasi nella santa sedia della sua mente raccoltasi, così cominciò: Tutta la sollecitudine de' mortali, la quale per molti e varii studii fatica, sebbene procede per diverse vie, si sforza nondimeno di pervenire a un fine solo, cioè a quello della beatitudine; e la beatitudine non è altro che quel bene, il quale acquistato che alcuno ha, egli non può desiderare più oltra cosa nessuna: e questo bene è senza alcun dubbio il primo e più alto di tutti i beni, e quello il quale contiene in sè tutti gli altri; perchè, se gli mancasse cosa nessuna, egli non sarebbe il primo e più perfetto, posciachè fuor di lui rimarrebbe alcuna cosa da potersi desiderare. È dunque manifesto che la beatitudine è uno stato perfetto, nel quale sono tutti i beni ragunati. Questo cotale stato brigano di conseguire tutti i mortali, come abbiamo detto, ma per diverse vie, perciocchè nelle menti degli uomini è naturalmente il desiderio del vero bene innestato; ma l'errore, che gli mena fuor di strada, gli travía a' beni falsi. Onde credendo alcuni che il non abbisognare di cosa nessuna sia il sommo bene, solo per abbondare di ricchezze s'affaticano. Altri, giudicando che il più degno bene consista nell'essere onorato, s'ingegnano di farsi, mediante i magistrati e dignità, riguardevoli e degni d'onore appresso i loro cittadini. Nè mancano di quegli, i quali pongono la somma felicità nel potere assai; e questi tali o vogliono regnare essi, o cercano d'accostarsi a coloro che regnano. Ma quegli, a cui pare che la migliore di tutte le cose sia la chiarezza della fama, s'affrettano o coll'arti della guerra o con quelle della pace di distendere il grido e perpetuare la gloria del nome loro. Moltissimi poi sono coloro, i quali misurano il frutto del bene col godere e darsi buon tempo; e questi pensano la suprema beatitudine essere posta ne' piaceri e diletti corporali. Trovansi eziandío di quegli che i fini e le cagioni d'essi beni o con l'uno di loro o coll'altro scambiano, come sono coloro i quali desiderano le ricchezze per essere possenti e aver de' piaceri, o appetiscono l'essere possenti per aver de' danari o per acquistarsi fama. In queste cose dunque e in altre così fatte tutta l'intenzione degli atti e desiderii umani si ravvolge e travaglia, come sono, esempigrazia, la nobiltà e il favore popolare; le quali cose par che ne acquistino e arrechino una certa chiarezza e splendore, come la moglie e i figliuoli, che si desiderano per trarne giocondità. Degli amici, che sono la più santa generazione che trovare si possa, non dirò al presente, perciocchè eglino non nei beni di fortuna, ma tra quegli di virtù si debbono annoverare. Tutte l'altre cose o per cagione d'essere possenti si pigliano, o per cavarne dilettanza; e che i beni del corpo si riferiscano a' beni detti di sopra già è manifesto da sè, perciocchè la gagliardía e la grandezza della persona pare che n'apportino potenza, la bellezza e la velocità grido e nomea, la sanità diletto: per le quali tutte cose chiaro è che sola la beatitudine si desidera, conciosiachè ciascuno quello giudica essere il sommo bene che egli sopra tutti gli altri appetisce. E noi abbiamo pur testè diffinito che la beatitudine non è altro che il sommo bene. Laonde quello stato giudica esser beato ciascuno, cui egli più degli altri desidera: e così hai quasi posta dinanzi agli occhi tutta la forma o vogliam dir modello della felicità umana. E ciò sono ricchezza, onori, potenza, gloria, piaceri, li quali soli considerando l'Epicuro, e veggendo come tutte l'altre cose pare che n'arrechino diletto all'animo, fermò in sè medesimo conseguentemente e determinò che il sommo bene fosse il piacere. Ma io ritorno a' desiderii degli uomini, l'animo de' quali, tuttochè con memoria oscura e piena di nebbia, ricerca nondimeno il sommo bene sempre; ma, come gli ebbri fanno, non sa per qual via a casa si torni. Ma tu potresti dimandarmi: pàrti egli che coloro errino, i quali di non aver bisogno di cosa alcuna si sforzano? conciosiachè null'altra cosa può tanto ben compiere e far perfetta la beatitudine, quanto uno stato copioso di tutti i beni, e che, non avendo bisogno dell'altrui, sia per sè stesso sufficiente e bastevole a sè medesimo: párti che fallano coloro i quali quello che è la miglior cosa di tutte l'altre, giudicano ancora che si debba più che tutte l'altre e onorare e riverire? affè no; perciocchè quello che quasi tutti i mortali intendono e faticano di conseguire, non è credibile che sia cosa alcuna vile e da doversi dispregiare. Or non è da dovere essere contata tra' beni la possanza? qual dunque cosa debbe per tale mettersi? dobbiam noi pensare che quella, la quale manifestamente è più degna di tutte l'altre, sia cosa debile e senza forze? Dirai tu che la chiarezza del nome debba stimarsi per niente? Ora egli non è possibile che cosa alcuna, la quale sia eccellentissima, non paja eziandío degnissima di grandissimo grido: perciocchè raccontare che la beatitudine non è nè angosciosa nè trista, nè a dolori e molestie sottoposta, non penso io che accada punto, posciachè ancora nelle cose menomissime quello s'appetisce solo, che, avendolo e godendolo, ci diletta. Ora queste sono quelle cose che cercano gli uomini di conseguire; e non per altra cagione le ricchezze, le dignità, i regni, la gloria desiderano e i piaceri, se non perchè mediante cotali cose pensano dover loro venire sufficienza, riverenza, possanza, fama e letizia. È dunque buona cosa quella che gli uomini con tanto diversi studii vanno cercando: nel che agevolmente si dimostra quanto sia grande la forza della natura, posciachè, sebbene i pareri sono varii e discordanti, nondimeno in amando il fine del bene tutti concordano.
LE SECONDE RIME.
Quanto possente regga
Natura e volga delle cose il freno,
Con quai leggi provvegga
E servi il tutto, con che laccio a pieno
5Il leghi, e tal che mai non venga meno,
Con grave cetra e canto
Sonoro intendo ragionare alquanto.
Sebbene i leon feri
Di Libia, fatti mansueti, d'oro
10Portan collari alteri;
Se l'esche e i cibi, che si porgon loro,
Pigliano senza offesa; e se dei loro
Temon maestri irati,
Soffrir da quei dure percosse usati;
15Tosto che 'l muso fiero
Veggion tinto di sangue, immantinente
Riede il valor primiero,
E recan col ruggir sè stessi a mente;
Spezzano i lacci, e sanguinoso il dente,
20Sfogando l'ira, fanno
Prima in color che già domati gli hanno.
Se all'augel, che lieto
Di questo ramo in quel cantando gía,
Poscia che in mansüeto
25Loco o racchiuso in picciol gabbia sia,
Larghe vivande e ber melato uom dia,
Tosto che i boschi vede
S'attrista, e muove a quei voce, ali e piede.
Tratto da viva forza
30Piega talor la cima a terra stelo;
Ma se chi tal lo sforza
Cessa, dritto ritorna e guarda il cielo.
Cade nell'onde ibere il re di Delo;
Ma per occulto calle
35Torna al Gange, ond'ei nasce, e mai non falle.
Tutte le cose insieme
E ciascuna per sè lieta ritorna
Là 've natura preme:
Ogni una allor dell'ordin suo s'adorna,
40Quando al suo fine il suo principio torna;
E con natural pace
Stabile cerchio di sè stessa face.
PROSA TERZA.
Voi ancora, o animali terreni, avvengachè con sottile e debile immagine, sognate nondimeno il principio vostro, e quello verace fine della somma beatitudine vedete col pensiero, se non perspicace e chiaro, almeno tale, quale egli è. Laonde, come al vero bene l'intendimento naturale vi guida e invía, così vi sviano dal medesimo e vi ritraggono molti errori di varie maniere; il perchè considera un poco se mediante quelle cose, per mezzo delle quali si fanno a credere di poter conseguire la beatitudine, possano gli uomini al destinato fine arrivare. Perciocchè, se la moneta, se gli onori, e quell'altre cose n'arrecano cosa alcuna così fatta, che nessuno bene le paja mancare, noi ancora confesseremo che divengano felici coloro i quali le conseguono. Ma se elleno non possono attendere quanto promettono, e oltra ciò mancano di molti beni, non è egli manifesto che non la vera in loro, ma una falsa sembianza di beatitudine si ritrova? Io dunque te medesimo primieramente, il quale poco fa eri ricchissimo, dimando se fra quelle tante ricchezze perturbò mai l'animo tuo alcuna angoscia per qualunque villanía in verun modo fattati. E io: Certamente, risposi, non posso ricordarmi d'esser mai di sì franco animo stato, che alcuna cosa nol tormentasse. Or dimmi, rispose ella, non t'avveniva cotesto o perchè tu non avevi quello che avresti voluto avere, o perchè tu quello avevi che voluto avere non avresti? Ben sapete, risposi io. Dunque tu desideravi, soggiunse, la presenza di quello, e di questo la lontananza. Confessolo, le risposi. Ed ella: Non manca ciascuno, rispose, di quella cosa, la quale egli desidera? Manca, risposi. Chi manca, disse ella, d'alcuna cosa, non può chiamarsi al postutto sufficiénte e bastevole a sè medesimo. Madonna no, risposi. Tu dunque, cominciò ella, così pieno di ricchezze, come tu eri, pativi cotale insufficienza? E io: Perchè no? le soggiunsi. Adunque, disse ella, le ricchezze non possono fare che uno non abbia bisogno di nulla, e sia a sè stesso bastevole, come pareva che promettessero. Ora io per me penso che ancor questo si debba grandissimamente considerare, che i danari non hanno di loro propria natura cosa nessuna in sè, per la quale non possano essere a coloro, che gli posseggono, tolti contra lor voglia. Lo confesso, dissi. Il meglio sarebbe che tu il negassi, rispose, veggendosi ogni dì che alcuno più possente gli toglie mal grado suo a chi manco può. E di vero onde nascono tante lamentanze e tanti piati in tante corti, se non perchè quei danari, che sono o per forza o per inganno stati tolti a chi non avrebbe voluto, si raddomandano? Così è, dissi io. Dunque avrà, replicò ella, bisogno ogni ricco d'alcuno ajuto di fuori per poter guardare la moneta sua? E io: Cotesto chi negherebbe? le risposi. E pure non avrebbe, seguitò ella, bisogno, se egli non avesse pecunia, la quale potesse perdere. Non è dubbio, risposi. Dunque la cosa è trascorsa nel suo rovescio, soggiunse ella, perchè, dove si pensava che le ricchezze facessero gli uomini sufficienti per sè stessi e ripieni di tutte le cose, elleno gli fanno più tosto bisognevoli dell'ajuto d'altri. Ma dimmi: quale è quel modo, per lo quale mediante le ricchezze si caccino via le bisogne? Perchè i ricchi possono eglino non aver fame, possono non aver sete, le membra degli uomini danarosi possono elleno non sentire la vernata il freddo? Ma tu mi dirai: gli uomini facoltosi hanno onde possano saziar la fame, onde trarsi la sete, onde scacciare il freddo. Sì; ma a questo modo i bisogni possono bene consolarsi colle ricchezze, ma non già torsi del tutto. Perchè se i bisogni, che stanno sempre a bocca aperta e sempre chieggono alcuna cosa, non si sbramano nè s'empiono colle ricchezze, egli è giuocoforza che sempre alcuna cosa rimanga da doversi empiere e satollare, per non dir nulla che alla natura ogni poco basta, e all'avarizia non è cosa alcuna sì grande che la contenti; per lo che, se le ricchezze non possono levar via i bisogni, anzi hanno bisogno esse di chi le guardi, ond'è che voi crediate che elleno la sufficienza e pienezza di tutte le cose arrecare vi possano?
LE TERZE RIME.
Se ricco avaro core
Raguni in un quanto oro il Tago mena,
Se 'l collo orni ed onore
Di quante perle ha la vermiglia arena,
5Se fertil terra amena
Con cento aratri e più fenda e lavore,
Non perciò mai si sazia, anzi a tutte ore
S'affligge, mentre è vivo,
E, morendo, riman d'ogni ben privo.
PROSA QUARTA.
Ma le dignità, dirai tu, rendono onorabili e degni di riverenza coloro a cui vengono. Dimmi: hanno i magistrati cotal forza, che possano mettere le virtù nelle menti di coloro che gli esercitano, e scacciarne i vizii? Certamente non iscacciare la nequizia, ma più tosto scoprirla sogliono e farla più chiara; e quinci è che noi ci sdegniamo di vederli molte volte toccare a uomini niquitosissimi. Onde Catullo nobilissimo poeta, veggendo Nonio sedere in orrevolissimo magistrato, sdegnandosi che a uomo sì vizioso toccassero così nobili uffizii, lo trafisse con un suo epigramma, chiamandolo da una scrofa, che egli aveva in sul collo, struma. Vedi tu quanto vitupero n'aggiungano le dignità agli uomini rei. E per certo la loro indegnità sarebbe meno manifesta, se non avessero magistrati che gli palesassero: e tu finalmente potesti mai condurti a credere, non ostante che a ciò molti pericoli ti costrignessero, di essere collega di Decorato, essendo amendue in un magistrato medesimo, e conoscendo in lui mente di malvagissimo buffone e di sceleratissima spia? E di vero egli non è possibile che noi giudichiamo degni di riverenza per amor de' magistrati coloro i quali d'essi magistrati essere indegni giudichiamo; ma, se tu vedessi alcuno dotato di sapienza, potresti tu o di riverenza, o di quella sapienza di che egli è dotato, giudicarlo non degno? Messernò che tu non potresti, conciosiacosachè la virtù ha una sua propria dignità, la quale ella versa subito e infonde in coloro, a chi ella s'aggiugne; la qual cosa perchè non possono fare gli onori e magistrati popolari, chiaro è loro non avere propria bellezza di dignità; nella qual cosa quello è di maggiore considerazione degno, che, se ciascuno è tanto più vile, quanto è peggiormente dispregiato da più persone, non potendo le dignità far reverendi gli uomini cattivi, elleno gli fanno più tosto più dispregievoli, scoprendogli e facendo conoscergli da più persone, ma non mica senza pena; perciocchè i malvagi rendono bene egual cambio alle dignità, macchiandole colla corrotta lordura de' vizii loro: e, a fine che tu conosca quella verace riverenza non potere avvenire per mezzo di queste più tosto ombre di dignità che dignità, raccogli così: se alcuno, il quale fosse più volte stato Console, venisse per sorte fra le nazioni barbare, credi tu che cotale onore potesse farlo venerabile appresso i barbari? E pure non è da dubitare, se cotal dono fosse naturale alle dignità, che elleno, in qualunque luogo fossero, mai dall'uffizio loro non cesserebbero, come si vede nel fuoco, il quale, stia dove vuole, sempre è caldo. Ora, perchè non la propria virtù, ma la fallace opinione degli uomini aggiugne loro questo, avviene che elle vaniscono subito fra coloro pervenute, i quali per dignità non le stimano. Ma questo, potresti tu dire, occorre loro tra le nazioni strane. Or dimmi: tra coloro, appo i quali sono nate, durano elleno sempre? L'esser maestro del palazzo era anticamente potestà grande; oggi non è altro che un nome vano: così l'entrata dell'ordine senatorio altro non è che grave soma. Se alcuno ne' tempi andati fosse stato sopra le grasce del comune, era tenuto grande: ora quale uffizio è più dispregiato di questo? perciocchè, come dicemmo pur testè, quello che non ha in sè onore alcuno proprio, piglia ora chiarezza e ora la perde, secondochè a chi l'usa pare. Dunque, se le dignità non possono far gli uomini degni di riverenza, se di loro natura per la corruzione de' cattivi divengono laide e sozze, se per mutamento di tempo lasciano d'essere chiare e onorate, se per la stimazione delle genti inviliscono, che bellezza non dico possono elleno dare ad altrui, ma hanno in sè, che si debba desiderare?
LE QUARTE RIME.
Sebben superbo di porpora e d'ostro
Giva e di gemme ornato,
Era però da tutto il mondo odiato
Neron crudel, d'ogni lussuria mostro.
5E pur malvagio a sì buon senatori
Dava già sozzi imperi.
Chi dunque penserà felici e veri
Quei, che ne danno i rei, non degni onori?
PROSA QUINTA.
Or forse crederemo noi che li reami e la familiarità dei re possano fare alcuno possente? Perchè no, dirai tu, poichè la felicità loro dura perpetuamente? anzi tutta l'antichità è piena d'esempii, piena è ancora la presente età di quei re che, di felici, sono miserissimi divenuti. Oh bella potenza, la quale, non che altri, a conservare sè medesima non è bastevole! e, se questa potenza de' regni è quella che ne fa la beatitudine, non è egli necessario che ella, mancando d'alcuna parte, menomi la felicità e n'apporti miseria? Ora, avvengachè gli imperi mondani largamente si distendano, è nondimeno di necessità che molte nazioni si lascino, alle quali niuno delli re signoreggi; onde da quella parte che cotale potestà, la quale fa gli uomini felici, viene a mancare, da quella sottentra la impotenza, la quale gli fa miseri; e così è di necessità che nei regi sia maggiore la parte della miseria, che quella della felicità non è. Dionisio tiranno di Sicilia, sapendo per prova quanti e quali fossero i suoi pericoli e degli altri tiranni, assomigliò il timore del regno a quella paura che s'ha d'una spada, la quale continovamente ti penda ignuda e stia per caderti sopra la testa. Qual dunque potenza è questa, la quale non può nè scacciare da sè i morsi delle sollecitudini, nè schivare le punture e trafitte delle paure? E' non è da dire che essi non volessero vivere sicuri; che vorrebbono, ma non possono: e si gloriano poi d'essere possenti? Giudichi tu potente colui, il quale vedi che vuole di quelle cose che egli non può avere? Tu colui giudichi potente, il quale s'attornia e guernisce di sergenti e masnadieri? colui, il quale ha maggior paura di coloro cui egli cerca di spaventare, che non hanno essi di lui, il quale per parer d'essere potente si ripone nelle mani di coloro che lo servono? Ora che bisogna che io de' famigliari delli re disputi, avendo mostrato che i regni stessi sono di tanta debolezza ripieni? i quali famigliari la potestà regale, molte volte essendo ella ancora in istato, e molte volte caduta che ella n'è, abbatte per terra e ruina. Nerone costrinse Seneca famigliare suo e maestro ad eleggersi qual morte più gli piacesse. Antonio imperadore fece tagliare a pezzi da' suoi soldati Papiniano, il quale tra' suoi cortigiani era lungamente potentissimo stato; e non è dubbio che amendue vollero rinunziare la potenza loro: e Seneca di più le ricchezze, che egli aveva grandissime, tentò di dare a Nerone, e ritirarsi in una vita solitaria per potersi riposare: ma nè l'uno nè l'altro, mentre che la grandezza loro, che dovevano mal capitare, per forza tira, fece quello che fare avrebbe voluto. Qual dunque potenza è questa, della quale chi l'ha teme, la quale chi vuole avere non è sicuro, e chi vuole lasciarla non può? Dobbiam noi forse credere o possiamo sperare che gli amici la ci difendano, i quali non la virtù ci aggiugne, ma la fortuna? Or non sai tu che colui, cui la ventura fece amico, farà la disavventura nemico? E qual peste si può trovare più efficace a nuocere, che un famigliare che ti sia nemico?
LE QUINTE RIME.
Chi vuol veracemente
Esser possente, vinca e domi pria
La sua sfrenata mente;
Nè per ardente indegna voglia ria
5Sommetta il collo ad empio giogo e vile:
Perchè, sebben dal mar Indico a Tile
Sian temute tue leggi, e tu non possa
Scacciar da te le nere
Cure, e dar bando alle meste querele,
10Questa non è nè dee chiamarsi possa.
PROSA SESTA.
Oh gloria, gloria, che di noi mortali
Alla parte maggior sei nata solo
Per l'orecchie gonfiar, nè altro vali!
Perciocchè molti hanno spesse volte tolto dalle false opinioni del volgo la grandezza del nome loro: del che qual si può pensare cosa più sozza? perchè coloro, i quali sono falsamente lodati, forza è che, vergognandosi delle lor lodi, arrossiscano; le quali, posto che ancora siano meritamente acquistate mediante l'opere, che però aggiugneranno elleno alla coscienza d'uno uomo savio, il quale non dalle grida del popolo, ma colla verità della coscienza il suo bene misura? E, se pure l'avere cotal nome divulgato pare che bella cosa sia, séguita che il non averlo disteso si giudichi sozza. Ma essendo necessario, sì come io poco fa disputai, che molte nazioni si ritrovino, alle quali la fama d'uno uomo solo pervenire non possa, ne viene che colui, il quale tu stimi glorioso, paja in un altro paese, dico ancora prossimano, non avere gloria nessuna. Nè penso io per me che tra queste cose debba non dirò mettersi, ma ricordarsi il favore popolare, il quale nè viene da giudizio, nè dura mai fermo. Ora quanto alla nobiltà, chi non vede oggimai quanto sia vano, quanto disutile e di niuno momento cotal nome? perciocchè, se tu vuoi riferirla alla chiarezza, ella non è nostra, ma d'altrui; conciosiacosachè la nobiltà non pare che sia altro che una certa lode che dalli meriti venga de' padri e passati nostri: ma, se cotale chiarezza nasce dall'essere lodato e celebrato, quegli solamente fieno di necessità chiari, i quali e lodati e celebrati saranno. Laonde non può l’altrui splendore, se tu non sei chiaro da te, farti rilucere; e, se pure nella nobiltà è bene alcuno, egli (secondo il giudizio mio) è questo solo, che a’ nobili pare che sia posta necessità di non tralignare dalla virtù de’ maggiori loro.
LE SESTE RIME.
Tutto l’uman lignaggio
D’un nascimento eguale
E d’un principio stesso al mondo sorge,
Chè di tutte le cose un solo è saggio
5Vero padre immortale,
Ch’a tutte il tutto ognor ministra e porge.
Questi, chi dritto scorge,
I raggi al sol, le corna a Cintia diede;
Questi agli uomin la terra, al ciel le stelle;
10Questi dall’alta sede
L’anime tolte pargolette e belle,
D’ogni saper, d’ogni ignoranza nude,
Nelle membra caduche inspira e chiude.
Dunque tutti i mortali
15Egualmente produce
Un medesimo chiaro e nobil germe.
A che le schiatte e i vostri avi con tali,
S’un sol n’è capo e duce,
Romor narrate, vane menti inferme?
20Se le stabili e ferme
Prime origini vostre, se pon mente
Dio, che ne fece tutti e tutti regge,
Nïun di bassa gente
Può dirsi o vil, se non colui ch’elegge,
25Oblïando onde nacque e dove aspire,
Gir dietro a’ vizii, e le virtù fuggire.
PROSA SETTIMA.
Ma che dirò io dei diletti del corpo, il cui appetito è pieno d'ambascia, e la sazietà di pentimento? Quanti morbi sogliono essi, quanti incomportabili dolori, quasi come un frutto di lor malvagità, nei corpi recare di coloro che gli godono? Il movimento de' quali qual giocondità s'abbia non so; ma che i fini de' piaceri siano dolorosi, chiunque vorrà ricordarsi delle sue libidini conoscerà; i quali se possono fare beati, niuna cagione vieta che anco le bestie non debbano chiamarsi beate, le quali ad altro, che a riempiere la votezza del corpo, non intendono. Onestissimo certamente sarebbe il diletto della moglie e dei figliuoli; ma troppo fu detto naturalmente non so chi aver trovati i figliuoli per nostri tormentatori: la condizione de' quali, e sia qual si voglia, quanto sia mordace non fa mestiero di ricordarlo a te, il quale e l'hai provato altre volte, e ora ne stai pensieroso: nella qual cosa io approvo la sentenza del mio Euripide, il quale disse che chi è senza figliuoli ha una felicissima disavventura.
LE SETTIME RIME.
Tutti i diletti umani
Han per natura tormentar coloro
Che, preda fatti e vil mancipii loro,
4Son divenuti insani.
E quasi ape, che, poscia
C'ha versato il liquor che tanto piace,
Fugge, e, lasciato al cor l'ago tenace,
8Ne dà perpetua angoscia.
PROSA OTTAVA.
Non è dunque alcun dubbio, che queste vie di andare alla beatitudine non sono vie, ma traviamenti, nè possono condurre alcuno colà, dove elle di volerlo condurre promettono. E io brevissimamente in quanti mali siano rinvolte e avviluppate ti mostrerò. Perchè, dimmi, sforzeráti tu di ragunare moneta? tu verrai a torla a un altro che l'abbia. Vorrai tu risplendere di dignità? ti converrà supplicare a chi te le dia; e così tu, che cerchi d'andare innanzi gli altri d'onore, sarai costretto abbassarti, umiliandoti a chiederle. Desideri tu di essere possente? ti bisognerà essere sottoposto agli agguati de' tuoi soggetti, e sottostare a mille pericoli. Dimandi tu gloria? ti fia forza che per ciascuno luogo aspro e malagevole ora in qua tirato, e quando in là, mai non vivi sicuro. Vita carnale vivrai? sarai vilipeso da ciascuno; perchè chi è quegli che non dispregi e getti via uno schiavo di tanto vile cosa e tanto cadevole, quanto il corpo è? Ma veggiamo ora a quanto picciola possessione s'appoggiano e a quanto frale quegli che de' beni del corpo si vantano; perciocchè potrete voi mai avanzare di grandezza gli elefanti, e i tori di gagliardía? Trapasserete mai di velocità i tigri? Risguardate lo spazio del cielo, la fermezza, la celerità, e finite qualche volta di guardare con meraviglia le cose vili; il qual cielo però non è tanto per queste cose mirabile, quanto per la ragione, onde egli è retto. Ma lo splendore della bellezza oh come è egli rapido, come veloce, e più fuggitivo che i fiori, a primavera non sono? E se noi, come disse Aristotile, avessimo gli occhi cervieri sì, che il lor vedere penetrasse le cose opposte, e che ne tolgono la vista, non credi tu che quel corpo d’Alcibiade, il quale di sopra e nella superficie ci pare sì bello, non credi tu, dico, che vedutolo dentro, ci paresse bruttissimo? Adunque che tu pai bello non la tua natura il fa, ma la debolezza degli occhi di chi ti guarda; ma stimate pure troppo più che voi non volete i beni del corpo, solo che sappiate questo: quello, qualunque sia, che voi con tanta meraviglia guardate, potersi per un caldicciuolo d’una febbre terzana dissolversi. Delle quali tutte cose si può ridurre in somma che queste, le quali non possono nè attendere quei beni che promettono, nè sono perfette per lo non avere in sè il ragunamento di tutti i beni, elleno nè menano alla beatitudine, come alcuni quasi sentieri, nè fanno esser beati.
le ottave rime.
Oimè lasso, in quanti errori e quali
Il non saper n’adduce
3Gli egri del tutto e miseri mortali!
Chi l’oro brama, non tra verdi foglie
Di folti boschi il cerca,
6Nè di vite giammai gemma si coglie.
Chi vuol d’alteri pesci ornar la mensa,
Non mai per gli alti monti
9Tender le reti o i lacci asconder pensa.
A chi fere seguire cacciando piace,
Mai non guarda se l’onde
12Del gran Tirreno abbiano o guerra o pace;
Anzi del mare i più riposti fondi
Sanno le genti, e quale
15Di maggior perle o miglior ostro abbondi.
Sanno qual lido più tenero soglia
Pascer, qual più spinoso
18Pesce a saziar lor voglie ingorde accoglia.
Ma dove il sommo ben nascoso giaccia,
Ch'ogn'uom desía, non sanno,
21Nè per trovarlo mai cercan la traccia.
E quel che sopra il ciel passò lontano,
Essi nel fango immersi
24Sotto terra trovar sperano invano.
Che pregar deggio a così stolte menti
Degno di lor follía?
27Cerchin roba ed onor mai sempre intenti:
Ma quando poscia i falsi ben con tante
Fatiche avuti avranno,
30Quai siano i veri ognor stia lor davante.
PROSA NONA.
Infin qui voglio che l'avere dimostrato la forma della felicità falsa mi basti, la quale se tu perspicacemente vedi, l'ordine richiede che io da qui innanzi ti dimostri qual sia la vera. Io per me veggo, risposi, non essere possibile che nè le ricchezze abbiano sufficienza, nè i regni potenza, nè le dignità riverenza, nè la gloria nominanza, nè i piaceri contento. Dimmi: hai tu anco, rispose ella, compreso le cagioni, per che così sia? A me pare, dissi io, di vederle, come per una stretta fessura; ma ben vorrei intenderle da te più apertamente. Questa è cosa agevolissima, soggiunse ella; imperciocchè quello che di sua natura è semplice e indiviso, l'error de' mortali lo disparte, e dal vero e perfetto lo conduce al falso e all'imperfetto. Giudichi tu che quello, il quale non abbisogna di cosa nessuna, abbia bisogno di potenza? Non io, risposi. Ben hai risposto, disse ella; perchè, se cosa alcuna è, la quale in alcuna parte sia di piccola e debolissima possa, egli è necessario che ella abbia in quella cotal parte bisogno dell'ajuto altrui. Così è, risposi. Dunque, disse ella, la sufficienza e la potenza sono d'una natura medesima? Così pare, dissi io. Ed ella: Una cosa che sia così fatta, párti che debba essere dispregiata? o più tosto meriti che ciascuno l'onori sovra ogni cosa? E di questo anco, soggiunsi, non si può dubitare. Aggiugniamo dunque, riprese ella, alla sufficienza e alla potenza la riverenza, di maniera che giudichiamo tutte e tre queste cose essere una sola. Aggiungiamovela, perchè a me piace di confessare il vero. Or tu, disse ella, pensi che cotal cosa sia oscura e ignobile, o pur d'ogni gloria e nominanza chiarissima? Ma considera che egli non paja che quello, che si è conceduto non aver bisogno di nulla ed esser potentissimo ed esser degnissimo d'onore, manchi di chiarezza, e così non possa farsi illustre per sè medesimo, onde venga in alcuna parte ad essere vile e dispregievole. Non posso, risposi, non confessare che quello, sì come è, non sia celebratissimo e ripieno d'ogni gloria. Séguita dunque, disse ella, che noi confessiamo che la gloria o chiarezza non è differente in nulla dalle tre cose dette di sopra. Seguitane, dissi. Or non è manifesto, ripigliò ella, che quello che non ha bisogno di nulla, quello che può tutto colle sue forze, quello che è glorioso e reverendo, essere ancora allegrissimo, e cagione di tutta gioja? Io per certo non saprei, risposi, non che altro pensare, onde a una così fatta cosa possa sottentrare dolore o tristezza nessuna. Laonde è necessario confessare, stando ferme le cose di sopra, che ella di letizia e d'ogni allegrezza ripiena sia. Sì, rispose ella; e di più è necessario, per le medesime ragioni, che la sufficienza, la potenza, la chiarezza, la riverenza e la giocondità siano bene quanto a' nomi diverse, ma quanto alla sostanza e natura una cosa medesima, non essendo differenti tra loro in modo niuno d'intorno l'essenza. È necessario, risposi io. Questo dunque, soggiunse ella, che è un solo e semplice per natura sua, la pravità e perversità umana spartisce e divide, e, mentre che d'acquistare una parte di quella cosa, che non ha parti, si sforza, ella nè la parte, che non è, consegue, nè esso tutto, che ella non desidera. E in che modo? risposi io. Chi cerca le ricchezze, rispose ella, per fuggire la povertà, non si cura della potenza, e più tosto vuole essere vile e oscuro; togliesi ancora molti di quei piaceri che sono naturali, per non perdere la pecunia che s'ha guadagnata, e così non può toccare sufficienza a costui, lo quale la potenza abbandona, la molestia pugne, la viltà fa umile, la scurezza nasconde. Ma chi solo il potere desidera, sparge e getta via le ricchezze, disprezza i piaceri e quegli onori che sono privati di potenza; ha la gloria per nulla, e anco a costui mancano, come puoi vedere, molte cose; perciocchè avviene alcuna volta che ancora delle cose necessarie abbisogni, e sia dalle cure e ansietà morso e trafitto; e, non potendo egli scacciare da sè queste cose, manca d'essere possente; la qual cosa egli sopra tutte l'altre desiderava. Nel medesimo modo si può degli onori, della gloria e de' piaceri discorrere; perciocchè essendo, qual s'è l'una di queste cose, quella stessa che tutte l'altre cinque, chiunque chiede alcuna di loro senza l'altre, nè quella ancora, che egli desidera, non conseguisce. E io: Che debbo dunque dire, soggiunsi, se alcuno tutte insieme desidera d'acquistarle? Ed ella: Che egli voglia, rispose, la somma della beatitudine; ma pensi tu che egli debba in quelle cose trovarla, che poco fa dimostrammo non poter dare quello che promettono? Mainò che nol penso, risposi io. Dunque, seguitò ella, non si debbe la beatitudine per nessun modo in alcuna di quelle cose cercare, le quali si crede che una sola diano di quelle cose che si desiderano. Ed io: Confessolo, dissi, e niuna cosa può dirsi più vera di questa. Tu hai dunque, rispose ella, la forma della falsa felicità e le cagioni, per che sia tale: piega ora lo sguardo della mente nella parte contraria, perchè quivi incontanente vedrai la vera, la quale promessa t'abbiamo. Al che io risposi: Questa è chiara infino a coloro che sono ciechi; e tu poco fa, mentre che d'aprire le cagioni della falsa ti sforzavi, la dimostrasti. Perchè quella, se io non sono ingannato, è la vera e perfetta felicità, la quale può fare compiutamente colui, che l'ha, sufficiente, possente, riverendo, famoso e lieto: e, a fine che tu conosca me avere bene addentro considerato, io non ho dubbio alcuno che quella sia l'intera beatitudine, la quale può una sola di queste cinque cose veracemente arrecare, essendo elleno tutte quante una medesima. Oh felice te, allievo mio, per cotesta opinione, disse ella, se tu però v'aggiugnerai! E che cosa? risposi io. Pensi tu, soggiunse ella, che tra queste mortali e caduche alcuna cosa si ritrovi, la quale uno stato così fatto possa arrecarne? Ed io: Mainò che nol penso, risposi; e ciò è stato da te cotalmente dimostrato, che desiderare più oltra non si può. Queste cose dunque, soggiunse ella, pare che n'apportino a' mortali o imagini e sembianze del vero bene, o alcuni beni imperfetti; ma il vero bene e perfetto arrecare non possono. Lo concedo, risposi. Avendo tu dunque, rispose ella, qual sia la vera felicità conosciuto, e quali siano quelle che falsamente la rappresentano, resta ora che tu, onde possa dimandare e conseguire questa vera, conosca. Questo è quello, dissi io, che già buona pezza grandemente attendo. Allora ella: Con ciò sia cosa, cominciò, che, come piace nel Timeo al nostro Platone, ancora nelle cose menomissime si debba l'ajuto divino chiedere supplicemente, che pensi tu che ora far si debba a fine che la sedia del sommo bene di ritrovare meritiamo? Da invocare, risposi io, il Padre di tutte le cose, lo quale tralasciato, niuno cominciamento rettamente si fonda. Bene hai detto, rispose ella; e tantosto a cantare incominciò:
LE NONE RIME.
Alto Signor, che 'l ciel, la terra e 'l mare
Creasti solo, e con eterne leggi
Quanto si cela agli occhi e quanto appare
Governi solo e reggi,
5Tu fai che ’l tempo, da principio eterno,
Vada senza alcun fine:
Tu stabile in eterno
Muovi tutte le cose, amato fine:
Te nulla, fuor di te, dar forma spinse
10Al gran Caòs, ch’ornò il mondo e ’l distinse.
Ma la forma del primo e sommo bene,
Che in te fu sempre senza invidia alcuna,
Tu la cui mente il bel mondo contiene,
Dove ’l tutto s’aduna,
15In cui supremo esempio e vera norma
Fisse avendo le luci,
Con somigliante forma
In ogni loco ogni cosa produci,
E vuoi che, come il tutto è in sè perfetto,
20Così nullo le parti abbian difetto;
Tu con proporzïon certa e misura
Debita gli elementi insieme leghi,
Perchè il freddo col caldo e ’l secco dura
Col molle, onde non spieghi
25L’ale il foco più puro e ’l ciel sorvole,
Nè la terra il suo grave
Tragga u’ non debbe o suole:
Tu quell’alma, ch’è in mezzo, e tre, sola, áve
Nature in sè, quella che muove il tutto,
30Giugni e diffondi alle sue membra in tutto.
Questa, poi che divisa il moto avvolge,
Per due gran cerchi in sè stessa rigira;
Questa d’intorno l’alta mente volge,
E ’l ciel volgendo tira:
35Tu con pari cagion l’alme e le vite
Minor produci, e a lievi
Carri le più gradite
Giugnendo in terra, e ’n ciel le poni e lievi,
E con benigna legge a’ tuoi soggiorni
40Di zelo ardenti le rivolgi e torni.
Dammi, Padre pietoso, che nell'alta
Divina sede colla mente io saglia;
Dammi che 'l fonte, ov'ogni ben s'esalta,
Cerchiar cogli occhi vaglia;
45Dammi, Signor, che, la tua vera ed alma
Luce trovata, possa
In te la vista e l'alma
Fisar sì, ch'indi mai non sia rimossa:
Scaccia la nebbia; e'l peso, che m'ingombra,
50Terren col tuo splender da me disgombra.
Tu sol sereno ai buoni,
Tu sol riposo: il te vedere è porta,
Fin, nocchier, duce, via, termine e scorta.
PROSA DECIMA.
Poscia dunque, che tu qual sia la forma ovvero immagine del bene imperfetto, e quale quella del perfetto veduto hai, penso che sia bene dimostrarti ora dove sia posta, e in che consista questa perfezione della felicità; nella qual cosa stimo che primieramente cercare si debba se nelle cose della natura possa un cotal bene, chente tu poco innanzi diffinisti, ritrovarsi o no; a fine che non c'ingannassimo, immaginandoci col pensiero una cosa, la quale in verità, eccetto che nella mente e fantasia nostra, non si trovasse in luogo nessuno. Ma che cotal bene si ritrovi, e sia come una fontana di tutti gli altri beni, non può negarsi; imperciocchè tutto quello che si dice essere imperfetto, si dice essere imperfetto per diminuimento e scemanza del perfetto. Onde avviene che, se in qual si voglia genere o materia di cose sarà alcuna cosa imperfetta, in quella stessa di necessità ne fia ancora alcuna perfetta; perciocchè, tolta via la perfezione, non si può nè immaginare ancora onde stato quello e venuto sia, che essere imperfetto si dice: però che la natura non piglia cominciamento dalle cose sceme e non compiute, ma, procedendo dalle intere e perfette, sdrucciola quaggiù in queste ultime, e vôte d’ogni buon frutto. Ora, se egli, come poco fa dimostrammo, si ritrova una certa imperfetta felicità di bene frale, che se ne ritrovi ancora una salda e perfetta dubitare non si può. E io: Gagliardissima è stata questa conchiusione e verissima, le risposi. Ma dove abiti, continovò ella, considera in questa maniera. Dio principe di tutte le cose essere buono, prova una certa immaginazione e concetto comune di tutti gli animi, che tale lo comprendono e credono; perciocchè, non si potendo immaginare cosa alcuna migliore di Dio, chi può dubitare che quello, del quale nulla è migliore, non sia buono? Anzi in tal modo mostra la ragione Dio essere buono, che egli è necessario confessare che in lui sia ancora il perfetto bene: perciocchè, se egli non fosse cotale, essere principe di tutte le cose non potrebbe, perchè si troverebbe alcuna cosa, la quale gli soprastarebbe; e questa sarebbe quella che possedesse il bene perfetto, e così parrebbe che fosse prima e più antica di lui: perciocchè chiara cosa è che tutte le cose perfette sono prima, che le meno intere e perfette non sono. Onde bisogna confessare, perchè altramente si procederebbe in infinito, che il sommo Dio sia del sommo bene e perfetto pienissimo: ma noi abbiamo determinato che il bene perfetto sia la somma beatitudine; dunque è necessario che la vera beatitudine nel sommo Dio sia collocata. Intendo, risposi, nè si può contradire in verun modo. Ma per l'amor di Dio, soggiunse ella, considera bene quanto tu approvi santamente e inviolabilmente quello che è da noi stato detto, il sommo Dio essere pienissimo del sommo bene. E in che modo? risposi io. Che tu non pensi, replicò ella, e presuma che questo padre di tutte le cose o abbia ricevuto di fuori quel sommo bene, del quale si dice che è colmo, o l'abbia in guisa naturalmente, che tu stimi che la sostanza di Dio che ha la beatitudine, e quella della beatitudine che è avuta da lui, siano sostanze ed essenze diverse, essendo amendue una natura medesima; perchè, se tu pensassi che egli lo avesse di fuori avuto, tu potresti stimare che più fosse eccellente quella cosa che ha cotale bene dato, che quella la quale lo ha ricevuto. E noi, come è degno, confessiamo che Dio è più eccellente dell'altre cose tutte quante; e, se egli ha il sommo bene per sua natura, ma in guisa però che egli sia diverso dalla sostanza di lui, favellando noi di Dio principe di tutte le cose, immagini pure chi può, chè mai troverà niuno chi colui fosse, il quale congiugnesse insieme queste due cose diverse. Ultimamente quella cosa la quale è diversa da qual si voglia altra, non è quella dalla quale ella s'intende essere diversa; il perchè quello che di sua natura è diverso dal sommo bene, non è 'l sommo bene; la qual cosa è empio pensare di Dio, del quale manifestamente non è cosa alcuna più degna, perciocchè senza fallo alcuno alcuno nessuna natura di nessuna cosa è possibile che sia del suo principio migliore. Laonde con verissima ragione conchiudere si può, che quello che è il principio di tutte le cose, è ancora per natura e sostanza sua il sommo bene. Dirittissimamente, dissi io. Ed ella: Ma noi abbiam conceduto che il sommo bene sia la beatitudine. Così è, dissi. Dunque è di necessità, soggiunse, che noi confessiamo Dio essere la stessa beatitudine. Io non posso, risposi, nè contrastare alle primiere proposte, e veggo che questo, che tu ora ne inferisci, è da quelle conseguente. Risguarda un poco, rispose ella, se noi potessimo provare il medesimo più fermamente, dicendo che due sommi beni, i quali siano tra sè diversi, essere non possono, perciocchè due beni che discordano tra loro, manifestamente non sono l'un quello che l'altro, conciosiachè ad uno d'essi manchi l'altro. E chiara cosa è, che quello il quale non è perfetto, non è il sommo bene; dunque in nessun modo quei beni che sono sommi, possono essere diversi; e noi pure abbiam sillogizzato che amendue, la beatitudine e Iddío, sono il sommo bene; per la qual cosa necessariamente seguita quella essere la somma beatitudine, che sia la somma Divinità. Nessuna cosa, risposi io, nè più vera in effetto, nè più ferma di ragione, nè più degna di Dio può conchiudersi, che questa. Ed ella: Dunque sopra queste, rispose, non altramente che sogliono i geometri, i quali, poscia che hanno dimostrato le loro proposte, ne inferiscono alcune cose, che essi chiamano porismati, e noi potremmo per ventura dir vantaggi; così ti darò ancora io come un corollario, ovvero giunta; perchè, diventando gli uomini beati mediante l'acquisto della beatitudine, ed essendo la beatitudine essa Divinità, chiaro è che gli uomini mediante l'acquisto della beatitudine divengono beati: ma, come chi acquista la giustizia diventa giusto, chi la sapienza saggio; così chi acquista la divinità è necessario per la medesima ragione che divenga Dio: di che séguita che ciascuno, il quale è beato, sia Dio; e, sebbene Dio per sua natura è un solo, possono però essere per participazione moltissimi Dii. E io: Questo è, risposi, un bello e prezioso o porisma o corollario o giunta o vantaggio, che tu te 'l voglia chiamare. E di quello, soggiunse ella, che la ragione persuade che debba congiugnersi e annodarsi con questo, non è cosa alcuna più bella. E quale è? dissi io. Con ciò sia cosa, rispose, che la beatitudine paja molte cose contenere, dobbiamo noi dire che tutte queste cose si congiungano insieme, e facciano quasi il corpo della beatitudine con una certa varietà di parti, ovvero che sia alcuna d'esse, la quale compia la sostanza della beatitudine, e ad essa si riferiscano l'altre? Io vorrei, risposi, che tu mi aprissi quello, che dir vuoi, col ricordarmi quali siano esse cose. Non giudichiamo noi, disse ella, che la beatitudine sia bene? Sì, risposi io, e il sommo. Tu puoi, rispose ella, aggiugnere cotesto a tutte, perchè la medesima somma sufficienza, la medesima somma potenza, la riverenza ancora, la chiarezza e il piacere si giudica che sia la beatitudine. Che dunque vuoi inferire? dissi io. Se tutti questi beni, rispose, la sufficienza, la potenza potenza, e gli altri tre detti, sono come alcuni membri della beatitudine, oppure si riducono tutti come a un capo. Intendo, risposi, quello che tu proponi che si debba investigare; ma desidero udir quello che tu ne risolvi e determini. Piglia, disse ella, come si debbe dividere e distinguere questa cosa, in cotal maniera. Se tutti questi beni fossero membri della beatitudine, essi sarebbero ancora tra loro differenti; perciocchè questa è la natura delle parti, che più cose diverse compongono un corpo. Ora egli s'è mostrato che tutte queste cinque sono una cosa medesima: dunque non sono membri; altramente parrebbe che la beatitudine fosse composta d'un membro solo, il che non può essere. Cotesto veramente, risposi, non è dubbio; ma io aspetto il rimanente. Che tutte si riferiscono al bene è, disse ella, palese; perciocchè la sufficienza si cerca, perchè è giudicata esser bene; la potenza medesimamente si cerca, perchè si crede buona: il medesimo possiamo dell'onore, della gloria e della giocondità conghietturare. La somma dunque e la cagione di tutte le cose desiderabili si è il bene; perciocchè quello il quale non ritiene in sè nè in fatto nè in apparenza alcun bene, desiderare in nessun modo non si puote. E per lo contrario eziandio quelle cose che per natura buone non sono, solo che pajano tali, come veri beni si desiderano. Onde avviene che la somma, il colmo e la cagione di tutte le cose che si desiderano, si crede che sia, e non a torto, la bontà; e quella cosa per cagione della quale se ne desidera alcun'altra, pare che sopra tutte debba desiderarsi: come se alcuno, per atto d'esempio, volesse cavalcare per cagione di salute, egli non desidera tanto il movimento che si fa nel cavalcare, quanto l'effetto della sanità. Conciosia dunque che tutte le cose si desiderino per cagione del bene, non più tosto elleno che esso bene da tutti si desidera; ma quello, per lo quale tutte l'altre cose si desiderano, essere la beatitudine, fu da noi conceduto; onde così ancora sola la beatitudine è quella che si desidera: dalla qual cosa appare chiaramente che la sostanza del sommo bene e della beatitudine è una medesima. Io non veggo cosa nessuna, risposi, perchè alcuno possa non consentire. Ed ella: Ma noi abbiamo, riprese, dimostrato che Dio e la vera beatitudine sono una cosa stessa. È vero, soggiunsi. Posso dunque, rispose ella, conchiudere sicuramente, la sostanza di Dio in esso bene, e non altrove, essere posta.
LE DECIME RIME.
O voi, che in forti lacci e ree catene
Vinti, presi e legati
Sfrenata voglia del vil mondo tiene,
Qua tutti al sommo bene
5Venite, che sol può farvi beati.
Qui grata requie alle fatiche avrete;
Qui tranquillo e sicuro
Porto con placidissima quiete:
Questa una aperta avete
10Franchigia al vostro acerbo stato e duro.
Non ciò che 'l Tago o l'Ermo o l'Indo dánno
D'oro e di gemme, puote
Schiarar la vista; anzi pur d'anno in anno
Più cieche e in maggior danno
15L'anime lascia, d'ogni valor vôte.
Quel che sveglia le menti e che sì piace,
Nelle caverne umili
Nudrío la terra. Quel lume verace,
Che regge il tutto e face,
20Schiva d'anime oscure i pensier vili.
Chiunque potrà mai mirar tal luce,
Certo dirà: vêr lei Febo non luce.
PROSA UNDECIMA.
Consento, risposi, perchè tutte le dette cose, annodate con fermissime ragioni, sono manifeste. Allora ella: Quanto stimeresti tu, disse, il conoscere che cosa sia esso bene? Infinitamente, risposi, posciach'egli m'avverrà di conoscere insiememente ancora Dio, il quale è il sommo bene. Questo, disse, ti manifesterò io con verissima ragione, solo che ferme stiano quelle cose, le quali poco dinanzi furono da noi conchiuse. Staranno, risposi. Ed ella: Non abbiam noi, disse, dimostrato, quelle cose che sono dai più desiderate, perciò non essere veri e perfetti beni, perchè elleno sono discordanti e differenti tra sè, e, conciosiachè all'una di loro manchi l'altra, non potere il pieno e assoluto bene arrecarne? e allora farsi e risultarne il vero bene, quando elleno come in una forma e quasi composizione si raccolgono insieme tutte quante, di maniera che quella, la quale è sufficienza, ovvero bastanza, la medesima sia ancora potenza, riverenza, chiarità e piacere? E se tutte queste non sono una medesima, non doversi annoverare a patto niuno fra le cose desiderevoli? Abbiamo, risposi, nè se ne può in modo alcuno dubitare. Quelle cose dunque, disse, le quali, quando sono discordanti, non sono beni, ma quando ad essere una sola cominciato hanno, sono beni, non divengono elleno beni mediante l'acquistamento dell'unità? Così pare, risposi. Tutto quello che è bene, concedi tu, disse, che sia bene per participazione di bene, o no? Concedolo, risposi. Conviene dunque che tu concedi, disse, per somigliante ragione, che l'uno e il bene siano una cosa stessa, perciocchè la sostanza di quelle cose, l'effetto delle quali non è naturalmente diverso, è la medesima. Nol posso negare, risposi. Sai tu dunque, disse, che ogni cosa che è, tanto dura e ha l'essere, quanto ella è una, e che ella, tosto che fornisce d'essere una, fornisce ancora d'essere, morendo e risolvendosi? In che modo? risposi. Come negli animali, disse, quando l'anima e il corpo si congiungono in uno o durano insieme, questo si chiama animale; ma quando questa unità per dispartimento e separazione dell'uno e dell'altro si scioglie e divide, chiaro è che egli muore, e non è più animale: esso corpo ancora, mentre che dura d'essere una forma sola mediante la congiunzione delle membra, vi si vede la spezie umana; ma se le parti disgiuntesi e separatesi l'una dall'altra avranno guasta e disfatta l'unità, egli non è più quello che era. E nel medesimo modo a chi andrà discorrendo una per una tutte le cose, si farà manifesto senza alcun dubbio che ciascuna cosa tanto ha l'essere, quanto ella è una; ma quando ella manca, e si rimane d'essere una, subito muore e vien meno. A me, risposi, andandone considerando molte, non pare altramente. È egli cosa alcuna, disse, la quale, operando naturalmente, desideri, lasciato l'appetito dell'essere, di morire e corrompersi? Se io considero, dissi, gli animali, i quali hanno alcuna natura di poter volere e disvolere, non ne trovo nessuno il quale, non isforzato da alcuna cagione di fuori, si spogli e getti via la voglia dell'essere, e corra alla morte di sua spontanea volontà; perciocchè ogni animale fatica difendere la sua salute, fuggendo ogni cosa e schivando, la quale o morte o danno apportare gli possa: ma io non so già quello che dell'erbe, degli arbori, e poscia delle cose inanimate debba rispondere. Di questo certamente non puoi tu, disse, dubitare, veggendo l'erbe e gli alberi nascere primieramente nei luoghi a loro convenienti, dove non possono, quanto comporta la natura loro, nè seccarsi tosto, nè morire: conciosiachè alcune nei campi, alcune nascono nelle montagne, altre ne menano i pantani, alcune stanno appiccate ai sassi, certe sono fecondamente dalle sterili e infruttuose arene prodotte. Le quali chi si sforzasse di trasporre e trapiantare in altri luoghi, si seccherebbero; ma la natura dà a ciascuna cosa quello che le si conviene, e, mentre che possono durare, fa ogni sforzo che non manchino. Che dirò che tutte, fitta quasi la bocca sotterra, e, come noi diciamo, capovolte, traggono i nutrimenti colle radici, e poi per le midolle, per lo pedale e per le corteccie gli spandono? Che dirò ancora, che quello il quale è più tenero, come la midolla, sempre nella più addentro sedia si ripone e nasconde, e di fuori da una certa fermezza del legno è difeso? L'ultima è la scorza, la quale, come quella che può sostenere il male, s'oppone, a guisa d'un difenditore gagliardissimo, contra l'intemperanza del cielo. Ma quanta è oggimai la diligenza della natura a fare che tutte di seme, che in loro è abbondantissimo e in molti doppii moltiplicato, nascano e si distendano? le quali tutte cose chi non sa che sono come alcune macchine e stromenti da farle non solo a tempo durare, ma bastare ancora di generazione in generazione, quasi in perpetuo? Quelle cose ancora, le quali sono credute mancar di anima, non desiderano elleno per somigliante ragione quello che a lei si conviene ciascuna? perciocchè per qual cagione porta la leggerezza le fiamme in su, e il peso spigne la terra e l'abbassa ingiuso, se non perchè a ciascuno di loro cotali luoghi e movimenti si convengono? E non è dubbio, che quello che si confà ad alcuna cosa, e le è convenevole, la conserva, siccome la corrompono quelle cose che nemiche le sono. Ecco ancora, che quelle cose le quali sono dure, come le pietre, stanno ristrette e fermissimamente appiccate alle parti loro, e che niuno possa di leggieri spartirle fanno ogni cosa. Ma quelle che sono liquide, come l'aria e l'acqua, si lasciano bene agevolmente dividere, ma tosto ritornano poi a quelle cose onde furono divise, eccetto il fuoco, il quale in niun modo patisce d'essere diviso. Nè noi parliamo al presente dei movimenti volontarii dell'anima, che conosce; ma trattiamo della intenzione naturale, come è verbigrazia quando noi smaltiamo i cibi presi, senza pensare a ciò; e come è quando, dormendo, rifiatiamo, non accorgendocene: perciocchè nè negli animali ancora l'amore, che hanno di bastare, procede dalla volontà dell'anima, ma dai principii della natura; onde la volontà costretta da alcuna cagione la morte, la quale la natura dotta e rifugge, spesse volte elegge e abbraccia; e per lo contrario quella opera del generare, mediante la quale sola dura la lunghezza delle cose mortali, e la quale la natura sempre desidera, raffrena la volontà. Tanto è vero l'amore, che portano tutte le cose a loro stesse, non da movimento d'animo venire, ma da istinto di natura, perchè la provvidenza di Dio diede a tutte le cose create da lei questa cagione, la quale è grandissima, di dover durare, che elle naturalmente desiderino d'essere quanto possono il più. Laonde tu non hai cagione nessuna di poter dubitare in modo alcuno che tutte le cose che sono, non appetiscano naturalmente il durare d'essere, e schifino quello che le dissolve e corrompe. Io confesso, risposi, di vedere ora indubitatamente quelle cose che mi parevano dianzi incerte. Ma quello, disse, che d'essere e di durare desidera, desidera ancora d'essere uno; perchè, levato via questo, a niuna cosa rimarrà nè l'essere ancora. È vero, risposi. Dunque tutte le cose, disse, desiderano l'uno. Risposi di sì. Ora noi abbiamo, disse, dimostrato che l'uno è quel medesimo che il bene. Così è veramente, risposi. Dunque tutte le cose, disse, desiderano il bene, il quale tu puoi descrivere così. Il sommo bene è quello quello il quale è da tutti desiderato. Nulla cosa, risposi, si può immaginare più vera, perciocchè o tutte le cose non si riferiscono a cosa nessuna, e private come d'un capo andranno scorrendo e quasi ondeggiando senza avere chi le regga; o, se egli è cosa alcuna, alla quale tutte l'altre universalmente traggano, quella sarà il sommo di tutti i beni. Ed ella: Troppo, disse, m'allegro, avendo tu, figliuol mio, dato coll'arco della tua mente nel mezzo appunto del segno della verità; nel che fare ti s'è quello manifestato, che tu sopra dicesti di non sapere. Che cosa? risposi. Qual fosse, disse, il fine di tutte le cose, perchè veramente quello è desso, che da tutti si desidera; il quale, perchè noi abbiamo sillogizzato e raccolto che è il bene, necessaria cosa è che confessiamo, il bene essere il fine di tutte le cose.
LE UNDECIME RIME.
Chïunque vuol profondamente il vero
Cercar, nè fuor di strada uscir giammai,
Dell'interno vedere i chiari rai
In sè saggio rivolga, e del pensiero
5I lunghi movimenti
In cerchio pieghi, ch'a sè stesso riede.
Mostri alla mente sua che quei contenti,
Che fuori invan trovar cercando crede,
Dentro ne' suoi tesor tutti possiede.
10Così quel, che pur dianzi d'alto errore
Densa nube ed oscura ricopría,
Più che 'l sol, chiaro a mezzo giorno fia;
Perchè non tutto quanto il suo valore
Toglie il corpo alla mente
15Quando la cuopre del terrestre manto.
Certo del vero il buon seme eccellente
Entro riman, che poi s'accende quanto
Dottrina il soffia, o bel costume santo.
Perchè, come se dentro non aveste
20Nel profondo del cor scintille tali,
Quando alcun vi dimanda i beni e i mali,
Risponder per voi stessi saperreste?
E, se l'alta e preclara
Musa del gran Platone il ver dicea,
25Quanto ciascuno appara
È sol membrar quel che nel ciel sapea,
Ma poscia il vel mortal tolto gli avea.
PROSA DODICESIMA.
Io per me convengo, dissi allora, grandemente con Platone, perciocchè questa non è la prima volta che io mi ricordo delle cose che tu di sopra m'hai raccontate, ma la seconda. La prima volta, che io le sdimenticai, fu quando presi la mortal vesta delle membra terrene; la seconda poi quando, gravato dalla grandezza del dolore, perdei la memoria. Allora ella: Se tu riguardi, disse, le cose concedute di sopra, tu non sei molto lontano dal ricordarti quello che dianzi confessasti di non sapere. Che? risposi io. Con quai timoni, disse ella, e reggimenti si governi il mondo. Ben mi ricordo, risposi, d'aver confessata la mia ignoranza; e, comechè io già vegga quello che tu déi dire, desidero nondimeno d'intenderlo da te più chiaramente. Che questo mondo sia retto da Dio, disse ella, pensavi tu poco fa che non fosse da dubitarne. Nè ora anco il penso, risposi, nè mai penserò che debba dubitarsene; e le ragioni, che a ciò credere mi conducono, ti sporrò io brevemente. Questo mondo, essendo composto di tanto diverse parti e tanto contrarie, mai non sarebbe convenuto e ridottosi in una forma, se uno non fosse, il quale cose così diverse avesse insieme congiunto; e, congiunte che furono, la natura stessa delle cose, discordevole l'una dall'altra, l'avrebbe scompagnato e divelto, se uno non fosse, il quale quello, che ha congiunto e legato insieme, mantenesse. Nè è da pensare che l'ordine della natura procedesse tanto certo, e spiegasse movimenti tanto ben disposti di luoghi, di tempi, d'effetti, di spazii e di qualità, se non fosse uno, il quale, stando fermo esso, disponesse questa varietà di movimenti. Questo, che che egli sia, mediante lo quale tutte le cose prodotte stanno ferme e si muovono, chiamo io con vocabolo usitato da tutti Dio. Posciachè tu, rispose ella allora, intendi queste cose in cotal maniera, penso che poca faccenda mi resti a fare che tu, posseditore della felicità, sano e salvo a rivedere la tua patria te ne ritorni. Ma ritorniamo un poco e consideriamo le cose proposte di sopra da noi. Non dicemmo noi che nella beatitudine s'annoverava e si conteneva la sufficienza? non concedemmo che Dio era la stessa beatitudine? Sì per certo, risposi. Adunque, disse, Dio a reggere il mondo non avrà uopo d'ajuto alcuno di fuori; altramente, se d'alcuno bisogno avesse, egli non avrebbe la piena e intera sufficienza. Così è, dissi, necessario che sia. Dunque egli dispone, disse, tutte le cose per sè solo. Non si può negare, risposi. E Dio essere il sommo bene è stato, disse, dimostrato da noi di sopra. Me ne ricordo, risposi. Egli dunque, disse, dispone ogni cosa per lo bene, posciachè egli regge ogni cosa per sè, lo quale esser bene abbiamo consentito; e questo è come un certo timone e governo, per lo quale si mantiene la fabbrica del mondo stabile e incorrotta. Piacemi, risposi, grandemente, e m'accorsi infin dianzi; avvengadiochè con debile sospezione, che tu questo dovevi dire. Credolti, disse, perchè tu omai, secondo che mi par di vedere, volgi gli occhi più desto a conoscere le cose vere; ma quello che dirò ora, non è meno aperto a potersi vedere. Che cosa? risposi. Con ciò sia cosa, disse, che Dio sia ragionevolmente creduto governare tutte le cose col timone della ragione, e che tutte le medesime cose per inclinazione naturale corrano, come s'è dimostrato, al bene, dimmi, puossi egli dubitare che elleno siano volontariamente rette e si volgano spontaneamente al cenno di lui, che le dispone, come quelle che convengono e sono contemperate a cotal rettore? Così è di necessità, risposi; nè parrebbe che cotale reggimento fosse beato, se egli più tosto giogo fosse di chi ricusasse portarlo, che salute a chi volesse ubbidirlo. Niuna cosa dunque si trova, rispose ella, la quale, servando la natura sua, si sforzi di opporsi a Dio. Nessuna, risposi. E, sebbene alcuna se ne sforzasse, disse ella, credi tu che facesse profitto alcuno contra colui il quale abbiamo conceduto che per lo essere egli beato sia potentissimo? Nessuno, dissi, nessuno. Non è dunque cosa alcuna, disse, la quale o voglia a questo sommo bene contrastare, o possa. Non, ch'io creda, risposi. È dunque, disse, il sommo bene quello il quale regge tutte le cose fortemente, e tutte soavemente le dispone. Quanto, risposi io allora, mi diletta non solamente la somma e moltitudine delle ragioni che è stata da te conchiusa, ma molto maggiormente queste parole medesime, le quali tu usi, tanto che qualche volta finalmente dovrebbe di sè medesima vergognarsi la follía di coloro che lacerano cose sì grandi. Tu hai, disse, apparato nelle favole de' poeti che i giganti vollero, combattendo, pigliare il cielo; ma ancor loro trattò la benigna fortezza di Dio come meritarono. Ma vuoi tu che noi percotiamo queste ragioni l'una coll'altra? forse che di cotale percotimento salterà fuori alcuna bella scintilla di verità. Come ti piace, risposi. Che Dio sia onnipotente, non può, disse, dubitare nessuno. Nessuno, risposi, che sia di sana mente. Ma chi è onnipotente, disse, non è cosa nessuna che egli non possa. Nessuna, risposi. Or può dunque, disse, fare Dio male? Mainò, risposi. Il male dunque, disse ella, non è niente, posciachè colui fare nol può, il quale può tutte le cose. Beffimi tu, risposi, tessendomi con coteste tue ragioni un laberinto da non potersene strigare e sviluppare mai, entrando ora donde si debbe uscire, e ora uscendo onde entrasti? o mi pieghi tu più tosto un certo maraviglioso cerchio della divina semplicità? conciosiacosachè tu poco addietro, cominciando dalla beatitudine, dicevi lei essere il sommo bene, la quale favellavi esser posta nel sommo Dio: disputavi ancora, esso Dio essere il sommo bene e la piena beatitudine; onde niuno poteva esser beato, il quale parimente non fosse Dio, come un vantaggio e quasi per giunta ne donavi: poi, ripigliando da capo, la forma stessa del bene essere la propria sostanza di Dio, e della beatitudine ragionavi: dicevi ancora, che esso uno è quel proprio bene che da tutte le cose naturalmente si desidera: disputavi medesimamente, che Dio col timone della bontà l'universo reggeva, e che tutte le cose l'ubbidivano di loro volere, e che il male non aveva natura nessuna: e queste cose tutte quante non con argomenti spiegavi presi di fuori; ma con prove interne e dimestiche, l'una cosa traendo fede dall'altra, dimostravi. Noi non beffiamo, disse allora, e abbiamo, la buona mercè di Dio, lo quale dianzi pregavamo, fornito la maggiore di tutte le cose; perciocchè la forma della sostanza divina è cotale, che ella nè va a cosa alcuna di fuori, nè alcuna di fuori in sè ne riceve; ma, come disse di lei Parmenide, ella ruota il cerchio mobile di tutte le cose, e sè medesima conserva immobile. E, se non abbiamo usato ragioni cavate di fuori, ma locate dentro il cerchio della materia che trattavamo, non te ne debbi maravigliare tu, avendo imparato che le parole, secondo che determinava Platone, debbono essere convenienti alle cose delle quali favellano.
LE DODICESIME E ULTIME RIME.
Oh felice colui
Che 'l chiaro fonte altero
Del ben veder poteo,
E chi sciolto e leggiero,
5Domi gli affetti sui,
Volò dal grave terren carcer reo!
Gía di sua donna Orfeo
L'aspra morte piangendo,
Poscia che, ognor dolendo,
10Ebbe con meste note
Fatto mobil le selve, e l'onde immote.
Poi che la timidetta
Cerva lieta e sicura
Coi leon feri giacque,
15Nè del cane ebbe cura
La lepre semplicetta,
Mitigato dal suon che tanto piacque;
Poi che degli occhi l'acque
Non spegnevano il foco
20Del cor, nè molto o poco
Giovava a lui quel canto,
Ch'avea d'ogn'altra cosa avuto il vanto;
Chiamando gli alti Dei
Privi d'ogni pietate,
25Ne' bassi regni scese.
Ivi alle corde amate
Temprando i dolci omei,
Quanto dai fonti di sua madre apprese,
O per sè stesso intese,
30Quanto il dolor dettava,
Quanto amor gl'insegnava,
Che raddoppia i dolori,
Mandò, per far pietà, cantando, fuori.
E con dolci parole
35Chiede agli Dii dell'ombre
Pace e perdono umíle.
Cerber, che par ch'ingombre
L'entrata con tre gole,
Preso dal nuovo canto, stupe e sile.
40Le Dee che in fero stile
Con perpetuo affanno
Spavento ai miser dánno,
Fuor delle leggi antiche
Piangon, venute di pietade amiche.
45Non Issïon la ruota
Veloce in cerchio gira;
Tantal, morto di sete,
L'acque non pur rimira;
Sta colla bocca vôta,
50Sazio de' versi, e di Tizio non miete
Più l'avoltojo la rete.
Vinti sem finalmente,
Gridò Pluton dolente;
Diam compagna al marito
55La moglie compra col carme gradito:
Ma con legge, che mai,
Se non del Tartar fore,
Gli occhi a mirarla volga.
Chi dia legge ad Amore,
60Ch'ogni legge d'assai
Vince, che le sue leggi o scemi o tolga?
Già, perchè più si dolga,
Al fin del carcer tetro
Gli occhi rivolse indietro;
65Onde ogni suo disío
In un punto mirò, perdè, morío.
Questa favola voi,
Che nel superno lume
Cercate alzarvi, sguarda;
70Chè chi da reo costume
Vinto rivolge i suoi
Occhi alla terra, e le vil cose guarda,
Tutto quel che risguarda
Di bello e buon lassuso
75Perde, come quaggiuso
Torce la vista; e vede
L'inferno: onde al suo ben giammai non riede.
FINE DEL LIBRO TERZO.