Storia della rivoluzione di Roma (vol. I)/Capitolo XXIII
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[Anno 1847]
Lasciammo nel capitolo XV tuttavia in sospeso la soluzione delle vertenza austriaca per la occupazione di Ferrara. La medesima però lungi dal rimaner sopita, teneva pendenti le negoziazioni fra le due corti, sia per mezzo del nunzio in Vienna monsignor Viale Prelà, sia per l’intermediario del conte Lützow austriaco ambasciatore in Roma; cosicchè finalmente nel dicembre di quest’anno 1847 venne composto in quel miglior modo che permettevano le convenienze reciproche dello rispettive corti, siccome or ori narreremo.
Intanto non possiamo non convenire, essere vero pur troppo che il ministro prussiano barone di Usedom, recandosi da Roma in Austria, volle officiosamente adoperarsi per compor la vertenza; e se diciamo volle, gli è perchè non vi fu mai autorizzato diplomaticamente.
A torto come il Farini, dando maggiore importanza che non merita alla interposizione dell’Usedom, si permette di proverbiare monsignor Viale Prelà, quasichè per mancanza di scaltrezza o di coraggio avesse mal sostenuto gl’interessi della corte pontificia. Ad insinuar ciò esce il Farini nella seguente sentenza.
«La Prussia, ad Austria parziale, dava lusinga al nunzio di facile ed onorevole componimento; ed il nunzio, o fosse di facile contentatura, o tenero d’Austria più che della dignità di Roma, stava ad udire indegne proposte.»
Noi per lo contrario portiamo opinione, ed abbiamo nelle mani tale un autografo da mostrarla giusta, che cioè il nunzio pontificio sostenne sempre strenuamente e dignitosamente gl’interessi e l’onore della corte di Roma.
Le parole dell’autografo a giustificazione del nunzio son le seguenti:
«L’Usedom si presentò al principe di Metternich dicendo di essere stato incaricato dalla corte di Roma per comporre con Austria gli affari di Ferrara. Fu invitato a quella conferenza il nunzio monsignor Viale. Ei ricusò d’intervenirvi, non gli sembrando possibile che la corte romana avesse dato l’incarico delle trattative ad un diplomatico estero. L’Usedom lo volle persuadere e mostrògli una lettera del suo re, in cui si diceva aver la corte romana accettato la mediazione della Prussia. Si tacque, ma egli dichiarò di non voler prendere parte in queste trattative da qualunque parte venissero autorizzate.»1
Le parole dell’autografo da noi riportate troviamo essere in corrispondenza con quelle del dispaccio dell’eminentissimo Ferretti del 1 di ottobre allo stesso nunzio: dispaccio che il Farini riporta per intiero nelle sue storie. 2 Ne togliamo il brano seguente:
«Non posso bastantemente esprimere a vostra signoria illustrissima e reverendissima la disgustosa sorpresa cagionatami dalla lettura del suo dispaccio N. 583 ove si espone la serie delle trattative costì fatte dal signor Usedom ministro prussiano presso la Santa Sede, in ordine alle presente questione austro-ferrarese. Vede ciascuno come io vi sostenga una parte per nulla dicevole a un individuo che abbia fior di senno, e molto meno ad un primo ministro curante gl’interessi della sua corte, e coerente a se stesso. Esige quindi l’onore della Santa Sede e mio di porre le cose in evidenza, prevenendo in un tempo il pericolo che si gettino le nostre trattative coll’Austria nell’affare di Ferrara in una nuova complicazione. Il signor conte Usedom essendosi avvisato di condursi ad incontrare il suo sovrano, mi offerse d’interessarlo nella nostra spiacevole vertenza colla corte d’Austria. Quest’officio amichevole venne da me accettato con quei modi onde suol corrispondersi a qualunque cortesia; ma giammai egli ebbe da me qualsiasi autorizzazione a trattare diplomaticamente, e molto meno a proporre condizioni evidentemente lesive degli interessi della Santa Sede, e contradittorie allo spirito ed alla lettera dei miei dispacci a lei notissimi.
» E qui prescindo dalle osservare che come il richiedere una mediazione di questa fatta, quando si protesta altamente e pubblicamente del proprio diritto, è cosa assurda, così l’invocarla da una potenza protestante sembra ben poco conveniente in presenza di altre corti egualmente amiche, ma cattoliche.»
Queste parole son più che sufficienti a provare una perfetta consonanza tra il linguaggio del cardinal Ferretti e quello di monsignor nunzio in Vienna. Entrambi agirono con molta scaltrezza, entrambi sostennero dignitosamente gl’interessi della corte pontificia: ed è debito nostro di tribuirne loro le meritate lodi, e la lettera qui sopra in parte riportata del cardinale segretario di stato mostra che i chierici, come sempre si è detto, san tenere in mano la penna.
Essendo state pertanto proseguite le trattative in via diplomatica fra le due corti nella vertenza austro-ferrarese, ne venne finalmente annunziata la composizione dal Giornale officiale di Roma il 16 dicembre,3 colle parole seguenti
«Rimanendo per ambe le parti nella sua piena integrità la questione di diritto, si è convenuto fra il governo di Sua Santità e quello di S. M. I. R. A. che la guaniigione della città di Ferrara sia restituita alle truppe pontificie. — L’eminentissimo e reverendissimo signor cardinale Ciacchi, che per urgenti motivi di salute erasi condotto a respirare l’aria nativa, ritornerà espressamente a Ferrara onde essere presente e provvedere alla tranquilla e regolare consegna. — A scanso poi di gratuite supposizioni giovi al pubblico di conoscere che la difficile trattativa e prospera risoluzione di questo affare è stata condotta in guisa da non compromettere menomamente il passato e l’avvenire della questione di diritto, la dignità delle due corti nella parte di esecuzione, gì’ interessi sotto ogni rapporto della popolazione ferrarese.»
In seguito di questa composizione se rasserenossi il cielo nelle alte regioni, e se l’iride di pace mostrò il suo aspetto benigno sul palazzo dei Cesari in Vienna e sulla torreggiante mole del Vaticano in Roma, non ne vider l’aspetto i popoli concitati eminentemente, perchè se prima l’avversione contro l’austriaco nome era fomentata dalle sette e caldeggiata sopra tutto dagli uomini che coltivavano le lettere e le scienze, dopo i fatti di Ferrara e le papali proteste quest’avversione era divenuta presso che universale. E quando le idee di tal fatta sono entrate nelle teste, non bastan più nè i bandi minacciosi nè la esplosione dei cannoni per isbarbicarle.
E questi sentimenti ostili, queste avversioni nazionali sviluppavansi in guisa tale, che ogni giorno di più facevano presagire il frutto che andavasi maturando e che doveva coglierai un giorno inevitabilmente. La pace in somma fra le due corti per nulla affievoliva que’ desideri, e quelle sperance che per sei lustri nutrironsi negl’italici petti, e che già minacciavan di erompere fra breve in sanguinosi conflitti.
Che se i germi di questi sentimenti eransi tanto a mano a mano sviluppati nell’ombra, qual frutto non dovevano necessariamente produrre dopo esser stati fecondati e maturati dal sole che sfolgorava in allora?
Che importa poi che il Santo Padre agendo rettamente od in conformità della sua pacifica missione, mai poi mai non abbia incoraggiato i popoli nel insorgere, ed in ispecie i popoli della Lombardia contro il loro governo? Che importa che ciò non fosse, se si ebbe l’astuzia di farlo credere, e questi popoli sel credettero?
Dorvà dunqu convenirei che con quella scaltrezza ch’è propria degl’Italiani, o con innegabile inganno si fece creder così: a questo bastò perchè le teste ne fosser riscaldate siffatamente, che lo stesso papa regnante, il quale ritenevasi esserne l’auspice, non ebbe in forza di far rispettare la sua voce, e rattenere gl’impeti incomposti di tanti giovani quanto coraggiosi altrettanto inconsiderati. Che se per buona fortuna ciò gli fosse riuscito, avrebbe risparmiato all’Italia le patite sciagure, alla navicella di Pietro gli urti terribili che minacciarono di sommergerla, ed alla Europa tutta quella furiosa tempesta che poco mancò non la ravvolgesse ne’ suoi flutti.
Difatti noi siamo non più in là del mezzo dicembre colle nostre narrazioni storiche; la irruzione austriaca di Ferrara avvenne dopo la metà del luglio, cosicchè cinque mesi soltanto n’eran decorsi: eppure in questo breve periodo quanti scritti anti-austriaci non si eran diffusi, quanti incitamenti e grida e manifestazioni non erano accadute? I sintomi pertanto della futura esplosione potevansi presagire, ove soprattutto si fosse per un momento portata l’attenzione su queste manifestazioni che in molte città d’Italia eran occorse e delle quali facciamo un riepilogo affinchè raffrontandole insieme, i nostri lettori possano meglio apprezzarne l’importanza.
E primo fra tutti si presenta in iscena il consiglio agrario tenutosi in Casale il 30 agosto, ove bastarono alcune calde parole del re Carlo Alberto al conte di Castagnetto per accendere gli animi e provocar subito un indirizzo dei Casalesi accorsi anche dalle provincie del regno: indirizzo il cui senso chiaramente rispondeva alle bellicose parole del re. Messina poi levavasi a romore il primo settembre fra le grida di viva l’Italia.4
L’8 di settembre si vider subito per tutta Italia dei moti i quali sotto colore di festeggiare Pio IX, indicavano evidentemente che un accordo esisteva fra i regolatori dì queste faccende onde provocare nelle città principali d’Italia tali manifestazioni in cui apertamente si venisse gridando: viva l’Italia. E in fatto nello stesso giorno in cui facevasi in Roma una di queste dimostrazioni patriottiche, se ne facevano eziandio in Firenze,5 in Livorno,6 ed in Milano;7 nè mancaron dei conflitti fra la truppa e il popolo che produssero arresti e spargimento di sangue. In Genova poi il conflitto fu più che altrove accanito, e si ricercò perfino il mortaio che nel 1746 vomitò fuoco contro gli Austriaci.8 Una petizione frattanto sottoscritta dall’arcivescovo e dai sindaci del municipio genovese, diretta a Carlo Alberto, esprimeva gli stessi sensi che aveva espresso il congresso di Casale.
In Novara fu una simile dimostrazione il 12 di settembre accompagnata da un bando dei sindaci. A Firenze lo stesso giorno 12 vi fu una festa federale,9 e a Sarzana un’altra simile il 19.10
Nel viaggio poi del re di Sardegna in sulla metà del settembre per inaugurare i nuovi ponti sulla Bormida e sul Po, venner provocate le stesse manifestazioni cui presero parte Acqui, Alessandria, Valenza ed Asti; cosicchè potè dirsi che da Turino allo sponde dell’Eridano non fosse che una festa popolare di colore anti-austriaco.
La festa del 30 settembre in Livorno e l’armamento istantaneo successero alle prenarrate dimostrazioni.11
Seguì quindi la colossale dimostrazione della città di Torino quasi in ispreto dell’autorità.12 E nei giorni 21, 22, 23, 24. 25 e 26 proseguendo le dimostrazioni, furon quegli assembramenti funestati da conflitti fra le soldatesche ed i cittadini. Nuove dimostrazioni ebber luogo in Genova in sul finire di ottobre, e Mondovì pure volle imitarne l’esempio. In seguito poi delle riforme piemontesi del 30 ottobre fu un festeggiare continuo in ogni parte.
Si diè in Genova un banchetto il 5 dicembre per festeggiar la cacciata de’ Tedeschi centun anni prima, e poi il giorno 10 ebbe luogo la festa solenne in commemorazione della vittoria di Balilla, ed una consimile dimostrazione si fece in Roma alcuni giorni dopo, ma di tale esiguità che, salvo qualche giornale, niuno parlonne.
Basta svolgere in somma i diari piemontesi o toscani di quell’epoca per rinvenirvi ad ogni istante annunzi di consimili feste non solo nei luoghi per noi rammemorati, ma ancora in parecchie altre città, le quali qui ricordare sarebbe lungo e noioso.
Per ultimo rammenteremo che la bandiera inviata dai Ferraresi ai Romani, e che fece di sè così bella mostra il 24 novembre accanto a quella di Roma per dividerne con essa gli applausi, ebbe per iscopo soltanto l’eccitamento dell’odio contro l’austriaca potenza.
Considerato pertanto in complesso quello che per sommi capi abbiamo accennato sulle molte dimostrazioni occorse, e sull’evidente indettamento dei promotori di dimostrazioni pacifiche in tutte le città d’Italia, le quali furono essenzialmente in senso anti-austriaco, chiaro n’emerge esser vero ciò che abbiamo asserito di sopra, cioè che la composizione fra le due corti della vertenza austro-ferrarese, se pure riconciliò i due governi, non riconciliò affatto le popolazioni, e che quindi non era atta ad impedir lo scoppio della rivoluzione che avvenne nei mesi successivi come diremo a suo luogo.
Nello stesso Diario poi che ci dette la composizione della vertenza austro-ferrarese, si annunziava al pubblico che quella lega doganale, la quale auspice il sommo pontefice era stata stretta fra il governo pontificio e quelli di Piemonte e di Toscana, veniva per dissenso del duca di Modena interrotta. Le parole del Giornale officiale furon le seguenti:
«S. A. R. l’arciduca duca di Modena alle proposizioni fattegli in nome della Santità di Nostro Signore, di S. M. il re di Sardegna, e di S. A. I. R. il granduca di Toscana, per accedere alla lega doganale, ha rispo sto che mentre particolari circostanze gli rendono necessaria una più matura considerazione per riconoscerne l’utilità rispetto a’ suoi sudditi, gli è però grato il dichiarare fin da ora che l’interruzione di territorio fn gli Stati sardi e toscani per cagione del ducato di Massa e Carrara, non metterà verun ostacolo al pieno effetto della lega fra gli Stati sopradetti già conchiusa. nota»
Detta lega della quale il papa ebbe il merito della iniziativa, e per concluder la quale aveva spedito in Torino
13 monsignor Corboli Bussi, venne stretta diplomaticamente nella stessa Torino fin dal giorno 3 novembre.14
Riprendendo il filo interrotto delle narrazioni sui fatti di Roma, racconteremo come il giorno 17 decembre fu tenuto dal Santo Padre un concistoro segreto nel quale creò il patriarca delle Indie occidentali, provvide a tre chiese arcivescovili e a diciassette vescovili, accordò il pallio a cinque arcivescovi, e pronunziò l’allocuzione ove fra le altro cose riprovò colle seguenti parole la dimostrazione occorsa in Roma la sera del 3 contro il Sonderbund15.
Versione Italiana
«Dopo ciò non possiamo non tenervi parola, venerabili fratelli, dell’acerbo dolore che provammo essendosi veduti non ha guari in questa nostra città, baluardo e centro della cattolica religione, alcuni benchè pochissimi, quasi deliranti, che spogliati dello stesso senso di umanità, con fremito ed indignazione comune, non ebbero ad orrore di menar pubblico e manifesto trionfo per la luttuosissima guerra intestina ora suscitatasi nella Svizzera. La qual guerra altamente deploriamo, sì pel sangue che si è sparso in quella nazione, e per la strage fraterna, e per le atroci, lunghe e funeste discordie, e per gli odi e dissensioni che sogliono principalmente ridondare ai popoli dalle guerre civili, sì pei danni che apprendemmo essere avvenuti alla religione cattolica, e che temiamo essere ancora per accadere, sì finalmente pei deplorandi sacrilegi commessi nel primo conflitto, che l’animo nostro rifugge dal rammentare ec.»
Queste gravi e severe parole del pontefice passarono inosservate. Niuno le riportò, niuno le commentò affinchè il popolo non le conoscesse. Questa era la buona fede della stampa di allora. — Ma passiamo ad altro.
Rammenteranno i nostri lettori che nel febbraio scorso Chekib-Effendi inviato del gran Sultano recossi in Roma per complimentare il Santo Padre. Ora la stessa Santità Sua, la quale aveva divisato fin d’allora di contraccambiare il complimento per mezzo di un suo rappresentante, inviò espressamente monsignor Ferrieri arcivescovo di Sida come ambasciatore pontificio presso il Sultano, per ringraziarlo dell’atto gentile compiuto in allora, ed inoltre offerirgli in suo nome alcuni donativi. Partì dunque monsignor Ferrieri per compiere la sua missione il giorno 21 dicembre col suo seguito, e ne fece parte il conte Ferretti nipote dell’eminentissimo segretario di stato.16
Il giorno 23 dello stesso mese giunse in Roma la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso.
Questa dama milanese, ragguardevole per nascita e per cultura d’ingegno, lo era del pari per lo sviscerato amor suo per l’Italia, nel senso però di volerla rendere felice mediante la rivoluzione. Secondo la principessa l’Italia era malata, ed ella professando in politica il principio fondamentale degli omeopatici, che «similia similibus curantur,» voleva guarirla con quel farmaco terribile che chiamasi rivoluzione.
Dicesi ch’ella fosse fin dal 1831 tra i membri più attivi dell’italiana rivoluzione, e certuni informatissimi delle cose italiane asseriscono che in quel tempo s’intertenesse in Isvizzera con Pellegrino Rossi per concertare i piani conducenti alla riuscita del movimento. Comunque si voglia, la principessa di Belgioioso esule dalla Lombardia fu la protettrice se non la fondatrice del giornale italiano L’Ausonio, che pubblicavasi in Parigi nel 1845 e 1846. Venuta come tanti altri in pellegrinaggio a Roma, fu ammessa al circolo romano che in quel tempo faceva quasi gli onori della città, frequentò il caffè delle Belle Arti, parlò, scrisse, predicò in favore della causa della così detta libertà17 Ma siccome avremo occasione di parlarne in seguito, così arrestiamo a questo punto i nostri cenni biografici sul suo conto, diciamo dell’onomastico del Santo Padre.
Il giorno 26 di dicembre era la vigilia della festa di san Giovanni, giorno onomastico del papa Pio IX. Volevasi in detto giorno fare non tanto una festa, quanto una dimostrazione, quasi diremmo ostile al pontefice, poichè meditossi di recare al Quirinale tanti cartelli appiccati ad altrettante insegne, dei quali fosse scritto a lettere cubitali ciò che la rivoluzione e non il popolo (come dice il Ranalli) desiderava.
E se diciamo che non fu il popolo, egli è perchè questo popolo mai non fu consultato, mai non discusse, mai non deliberò quelle cose che in nome suo si chiedevano.
Per un Romano, che siasi trovato in Roma in quei tempi, il leggere in oggi quello che ne scrive il Ranalli, il quale in Roma non trovossi, e considerare che tanti e tanti avran letto creduto, e leggeranno e crederanno siffatte apertissime falsità che da lui rispetto alla suespressa progettata dimostrazione vannosi spacciando, non può non suscitare sentimenti di tristezza sul nostro scadimento morale, perchè cose simili non si arrischierebbe di scriverle se non vi fossero molti e molti che han piacere di leggerle. Che poi siano o non siano, che ripugnino pure al buon senso non importa; egli è di queste cose che devesi scrivere per farsi leggere; egli è a queste fonti che deve attingere, ed a questo dissetarsi il popolo che ovunque è fatto bersaglio e vittima dei mestatori. Sentiamo dunque che cosa ne dice il Ranalli.18
«Le domande, che trascrivo colle stesse parole colle quali il popolo romanesco le dettò, erano: — Libertà di stampa: allontanamento dei Gesuiti: armamento civico: strade ferrate: abolizione degli arbitri nella polizia: codici con leggi utili e imparziali: istruzione pubblica: scuola politecnica: incoraggiamento alle arti: abolizione del monopolio: lega italiana: emancipazione israelitica: commercio animato: municipi provinciali riformati: corrispondenze postali riformate e garantite: scuola di pubblica economia: artiglieria civica: pubblicità degli alti della consulta di stato: secolarizzazione di alcuni impiegati: riforma negli asili infantili di carità: industria animata: colonie nell’agro romano: riordinamento della milizia: libertà individuale garantita: riserva della guardia civica organizzata: marina incoraggiata: abolizione del giuoco del lotto: amnistia ai ventiquattro politici reclusi in Civita Castellana: fiducia nel popolo: freno agli incessanti arbitri: abolizione degli appalti camerali: abolizione dei fidecommissi: riforma delle mani morte: imporre ai preti e corporazioni religiose ciò che devono a Pio IX e alla chiesa, cioè amore e rispetto. —»
Di cotal guisa venne a dirci sul serio il Ranalli che il popolo, cioè i compagni di Ciceruacchio (perchè come ci racconta la Pallade,19 Ciceruacchio solo capitanò quel movimento), richiedeva la emancipazione israelitica, la colonizzazione dell’agro romano, e la scuola politecnica, mentre eran questi tali vocaboli, e tali cose ignote del tutto ai carrettieri, friggitori, pescivendoli, legnaiuoli e artieri che componevano il suo corteggio. E non è questo un abusare dell’altrui buona fede, e volere far passare gli uomini per gonzi?
E sarebbe stato al certo un bel complimento pel giorno onomastico del papa il presentarsi con trenta o quaranta cartelli per dirgli che non vi era cosa alcuna che andasse pel suo verso, e che conveniva rifar tutto di nuovo! Persone autorevoli però, soggiunge il Ranalli, diffusero 1 cartelli, e le domande inviaronsi scritte al Quirinale.20
La verità del fatto è la seguente. Roma era divenuta assai trista perchè ormai multi eransi avveduti che si andava a cadere in una semi-anarchia, e i fatti che avvennero qualche giorno dopo lo provaron chiaramente. L’atmosfera era in uno stato di perturbazione e di tempesta, sicchè non incoraggiava quelle radunate di gente che somministra il ceto civile, e che eransi vedute in passato. E questa fa la cagione perchè la dimostrazione stabilita per la sera del 26 venisse differita a quella del 27.
Ed invero non videsi in quella sera procedere verso il Quirinale fra il fango, la pioggia e il balenar dell’atmosfera, se non che una lurida accozzaglia di paltonieri in piccol numero, cui unironsi al solito alcuni popolani condotti dal tristamente famoso Ciceruacehio: e questa fu tutta la dimostrazione della sera del 27. Ma chi crederebbe che si avesse la impudenza di alternar fra le grida di viva Pio IX quelle di viva Paradisi, e abbasso Torlonia? — E pure s’intesero e si attribuirono agli arrabbiati del circolo popolare.
Queste ed altre simili indegnità, che dovrebbero farci porre le mani sul volto per la vergogna, hanno trovato apologisti fni gli uomini che si dicon saggi!
I nostri giornali tacquero la verità. Il solo Italico ne dette un cenno, il quale chiaramente palesa che fu una dimostrazione più di minaccia che di festa. Ecco le sue parole: «Chi vide le altre sere per tale intendimento festive, le differenzia da questa come la luce delle stelle dal fulgore del baleno, come il sorriso di una ingenua donzella dal sogghigno di un uomo incitato.»21
II linguaggio dell’Italico ch’era pure uno dei giornali moderatamente liberali di Roma, dice abbastanza per istruirci che una minaccia indecorosa e intempestiva fu il serto di fiori riservato dalla rivoluzione al benefico Pio IX pel suo onomastico del 1847. Ad onta però della meschinità dei dimostranti, e del cattivo tempo, la benedizione del Santo Padre ebbe luogo.22
La mattina dello stesso giorno 27 il Santo Padre ricevette lo stato maggiore, e la officialità della guardia civica recatisi per porger le loro felicitazioni. Ringraziò il Santo Padre e disse: «Occorrere però le grazie e gli aiuti del cielo, senza di che tornerebbe infruttuosa l’opera del principato nel promulgare e sancir le riforme, infruttuosa la moderazione e la concordia dei popoli.23»
La sera innanzi eransi aperti secondo il solito i teatri. In quello di Apollo per concerto preso preventivamente vidersi in uniforme civico tutti quelli che appartenevano alla officialità di quel corpo.
Il giorno 29 fu sottoscritto da Sua Santità un nuovo e più compiuto motu-proprio sul Consiglio dei ministri, ed il 30 fu esibito negli atti del notaro Appolloni.24
Tutte le amministrazioni ripartivansi con esso nel modo seguente:
- 1. Estero.
- 2. Interno.
- 3. Istruzione pubblica.
- 4. Grazia e giustizia.
- 5. Finanze.
- 6. Commercio, belle arti, industria, agricoltura.
- 7. Lavori pubblici.
- 8. Armi.
- 9. Polizia.
Tutti i capi di queste amministrazioni o ministeri componevano il Consiglio de’ ministri.
Un prelato sotto il titolo di segretario del Consiglio de’ ministri assister dovea alle riunioni. Piacque in genere il detto mutu-proprio, o almeno non eccitò tanti clamori come quello del giugno decorso.
Eravamo in sugli ultimi giorni dell’anno 1847 e già parlavasi del prossimo ritiro del cardinal Ferretti dal carico di segretario di stato.
Intanto il giorno 30 annunciavasi nel giornale officiale la nomina a ministro dell’interno di monsignor Camillo Amici, giovane di molta solerzia, rettitudine d’idee, e svegliato ingegno, cui davan risalto il chiaro nome che portava come figlio di tale fra gli avvocati, cha rifulse qual astro di prima grandezza fra i luminari del romano foro. Questa scelta si ebbe a preludio del cambiamento anzidetto.25
Come ultimi fra gli atti del ministero del cardinal Ferretti annovereremo:
1.° Una ordinanza ministeriale o ordine circolare sulla stampa, in data del 31 decembre.
2.° Altra ordinanza sull’appello dalle deliberazioni della congregazione di revisione, e della sagra congregazione del buon governo.26
L’ordinanza sulla stampa aveva per iscopo di dare alcune spiegazioni intorno alla legge della censura sulla stampa, emanata il 15 marzo del corrente anno.
L’articolo primo portava che il consiglio di censura già stabilito in Roma nel numero di cinque membri, compreso il padre maestro del sagro palazzo apostolico, fosse aumentato a sette; «cosicchè oltre il padre maestro vi siano due censori cui è dato rivedere gli scritti o politici o letterari all’infuori dei giornali periodici, ed altri quattro censori ai quali esclusivamente è rimessa la revisione dei detti giornali.»
Nell’articolo secondo dicevasi «che i quattro censori, addetti alla revisione dei giornali in Roma andranno retribuiti di un onorario mensile corrispondente, e dovranno riunirsi presso il ministero dell’interno cui appartiene la sopraintendenza alla censura della stampa periodica.»
Tralasciamo la indicazione di altri dodici articoli perchè ci sembrano di minore importanza, e passiamo oltre.
Il circolo romano, il quale in grazia della eccezionalità dei tempi aveva acquistato tale influenza, da tenersi quasi in conto di corpo deliberante, elesse a suo presidente il duca Don Michele Caetani principe di Teano, ed a vicepresidente Don Filippo dei duchi Lante di Montefeltro.
Questi due individui, assennati entrambi, e d’idee temperate forniti, dettero qualche speranza che quelle del circolo non trasmodassero intempestivamente, e fortificassero invece l’elemento romano che ne costituiva l’essenza, e che trovavasi assalito da molti elementi eterogenei i quali eranvisi traforati, ed avrebber potuto fargli cambiare forma e colore.
Appunto in questi momenti venne presentato al circolo romano un indirizzo elaborato in Torino, in nome degl’Italiani dell’unione, e diretto al re di Napoli, affinchè cambiasse la sua politica, accedendo a quella di Pio IX, di Carlo Alberto, e di Leopoldo. Tale indirizzo veniva riportato dal Risorgitnento, ed aveva per prima sottoscrizione quella di Cesare Balbo, e per ultima quella del conte Camillo di Cavour.
Presentato che fu l’indirizzo al circolo romano per l’adesione ai principi in esso sostenuti, vi apposer la loro firma circa una trentina d’individui, i cui nomi vennero registrati dalla Pallade.27
Tale indirizzo parve un atto di grave momento, sia per l’espressioni in esso contenute, sia perchè si vide che conosciutosi appena nel regno di Napoli o pochi giorni dopo, accadde prima la rivoluzione in Palermo e poscia in Napoli; ciò che determinò il re ad accordare la costituzione. Sembrò in somma o che l’indirizzo fosse richiesto dai Napolitani in antecedenza per trovare un appoggio al loro movimento, o che seppure fosse spontaneamente escogitato in Piemonte senza l’intesa dei Napolitani, la sua lettura venisse in buon punto per determinar lo scoppio di quei movimenti che ivi stavansi maturando.
Ecco il testo dell’indirizzo estratto dal Risorgimento.28
Proposta di supplica al Re delle Due Sicilie
dagli Italiani dell'Unione.
- Sire!
«Non sudditi di Vostra Maestà, ma Italiani di altre Provincie, ed interessatissimi così al bene dei vostri popoli, della vostra corona e della nostra patria comune, noi ci accostiamo in intenzione al vostro trono, o Sire, per supplicarvi di volere accedere alla politica di Pio IX, di Leopoldo e di Carlo Alberto; alla politica italiana, alla politica della Provvidenza, del perdono, della civiltà e della carità cristiana.
» Sire, l’Italia v’aspetta, l’Europa vi guarda. Iddio vi chiama oramai. Noi non entriamo in memorie di altri tempi; noi sappiamo che Iddio misericordioso tien conto a ciascuno dello difficoltà, degl’incitamenti stessi e delle buone intenzioni con che egli potè operare, od anche errare.
E sappiamo che in terra come in cielo ogni uomo rimane poi giustificato o no, secondo che furono i fatti ultimi determinatori di sua vita.
» Ed ora, o Sire, voi siete giunto al punto culminante, all’atto sommo della vita vostra, al fatto duce di ciò che ve ne resta; ora non può rimaner dubbia la vostra coscienza, dappoichè dubbio non rimane il volere della Provvidenza. Guardate su, lungo tutta l’Italia, alla gioia dei popoli risorti, alla satisfaziono dei principi autori delle risurrezioni; alla unione reciproca, alla pace, alla innocenza, alla virtù di tutti questi fatti nostri, benedetti dal pontefice, ribenedetti dal consenso di tutta la Cristianità; e giudicate voi, se noi facciamo una stolta od empia rivoluzione, ovvero non anzi una buona, santa, felicissima mutazione, secondante i voleri di Dio.
«Sire, il vostro obbedire a tali voleri, il vostro accedere a tal mutazione, la farà più facile, più felice e più moderata che mai; ed aggiungendo un secondo al primo terzo degl’Italiani già risorti, costituirà risorta in gran pluralità la nazione nostra; la farà inattaccabile dai nemici, indipendente dagli stessi amici stranieri, libera e tetragona in se; le darà forza, gravità e tempo di svolgere pacatamente tutta l’ammirabile opera sua; farà insomma i destini d’Italia, quanto possa farsi umana cosa, assicurati.
» Ricuserete voi all’incontro di seguire la fortuna, la virtù d’Italia? Allora, o Sire, rimarrebbero sturbati sì nella loro magnifica via, ma non tolti di mezzo perciò, i destini italiani. Non può, non può l’Italia rimanere addietro, diversa, contraria dalla civiltà cristiana onnipotente e trionfatrice; trionfatrice, non che di tutti questi piccoli ostacoli interni, ma di tutte le potenze umane, di tutti i popoli, di tutte le civiltà acristiane. Quali che siano ora o mai i nemici e i freddi o falsi amici d’Italia, l’Italia piglierà suo posto nel trionfo delle nazioni cristiano. Ma forse, come già avvenne, gli ostacoli abbrevierebbero la via; forse (che Dio noi voglia!) il rifiuto vostro troncherebbe immediatamente colla violenza le questioni più importanti del risorgimento italiano! Se non che questo ne resterebbe forse guastato; forse non rimarrebbe più, come è finora, incolpevole, santo, unico al mondo e nel corso dei secoli! E perciò, o Sire, noi gridiamo dall’intimo del cuore e dell’anima nostra: Dio nol voglia! Dio noi voglia! E perciò noi Italiani indipendenti da voi, ci facciam supplici a pregar dopo Dio, voi che nol vogliate!
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Tommaso Mattei. |
Camillo Cavour direttore, estensore in capo.
Fu criticato da molti quell’aver fatto un troppo grande uso in detto indirizzo delle parole sublimi di virtù e di religione, quasi che queste avesser presieduto a tuttociò che fino allora erasi fatto, e lo chiamarono un omelia di sorgente liberalesca. Ancor noi per verità abbiamo trovato scritte queste parole a iosa negli stampati di quel tempo, ma ne incresce il dirlo: atti di virtù e di religione verace in tutta la rivoluzione italiana non ci cadder sott’occhio. Atti d’ipocrisia però ne rinvenimmo a profusione.
Quanto all’indirizzo summenzionato ci sembra sommamente interessante, perchè mentre serviva di eccitamento e di coraggio ai Napolitani che amavan di scuotersi, intimoriva e minacciava nel tempo stesso il re e la sua corte. E dove si consideri bene e complessivamente il concetto dì quell’atto, non può riassumersi che in queste parole: Sire! cedete colle buone e tutto andrà a maraviglia. In caso diverso, ossia che non vogliate, quel che chiediamo cel prenderemo per forsa, e allora il movimento non sarà incolpevole come è stato finora. Tutto ci arride, il vedete, tutto cede ai desideri nostri. L’era nostra è giunta, la vostra sparisce. Il cielo ci protegge. Questa ci sembra la sostanza dei detti. Vediamo ora i fatti.
L’indirizzo si pubblicava in Torino il 21 decembre 1847, ed al terminar dell’anno conoscevasi in Roma ove per vari giorni subì l’esame del circolo romano, e venne a corroborarsi colle adesioni di molti de’ suoi membri. Il 18 di gennaio (come diremo meglio nel capitolo secondo del secondo volume) il re di Napoli incominciò a cedere in favore dei Siciliani, e se gli risponde col famoso: è troppo tardi. Pochi giorni dopo seguì il decreto per la costituzione. Tutto ciò dice dunque abbastanza che Tatto sopra menzionato esercitò un’influenza incontrastabile su quegli avvenimenti, e questo per ora ci basta. Ma torniamo alle cose di Roma.
Comunicavasi in sul finire del decembre alla Consulta di stato la nomina del conte Giovanni Marchetti a consultore per Bologna in luogo del defunto avvocato Silvani. Uomo di onore, poeta illustre, amico e concittadino del Santo Padre, ne piacque generalmente la scelta.29
Si chiuse assai mestamente l’anno 1847, imperocchè il 31 di dicembre passò a miglior vita quell’angelo di virtù sì religiosa come civile, vogliam dire il commendatore Don Carlo Torlonia colonnello del secondo battaglione civico, vero esemplare di cristiana filosofia.
Indescrivibile fu il dolore (come bene si diè a cononoscere dal trasporto della sua salma) da che fu compresa tutta la popolazione per la perdita di tanto illustre personaggio. I poveri massimamente non è a dire quanto mai ne fosser rattristati, come quelli che avevan perduto in lui il lor sostegno, il loro amico, il loro padre amorevole, colui insomma che sapeva usar bene delle sue dovizie, non col farne getto a contentamento dell’umano fasto, ma sì bene col largirle e profonderle copiosamente con vera carità cristiana a sollievo degl’indigenti.
E ciò che spiacque sopra ogni altra cosa fu lo aver penetrato la causa della sua morte, che si attribuì al cordoglio da lui provato nel veder cinicamente calunniata dal Paradisi la sua famiglia. Ciò dava a presagire anche maggiori sventure; imperocchè come nel Torlonia si riconobbe la prima vittima immolata al demone della rivoluzione ed al suo braccio destro, ch’è la libertà della stampa, così si previde che altre molte, per effetto della rivoluzione stessa, sarebber state in seguito immolate.
Declinò difatti nè più si riebbe la sua salute dopo la falsa imputazione del Paradisi: e così parve che il cielo volesse richiamare al riposo de’ giusti un uomo sì intemerato, sottraendolo a tanti altri dispiaceri a cui forse sarebbe andato incontro, e serbandogli incontaminato lo sguardo dalle tante sozzure e indegnità che si sarebber commesse nel vegnente anno 1848.
Furono in simile luttuosa occasione pubblicate poesie e descrizioni dei funerali e degli onori ricevuti, le quali potranno leggersi nel terzo volume dei documenti.30
Il padre Giacoletti delle scuole pie ne scrisse la vita la quale pei tipi del Salviucci venne pubblicata nelTanno 1849 in-4 con entrovi il ritratto.
Prima di chiuder l’anno 1847 sarà bene dare alcuni cenni, cui crediamo non inopportuni, sopra la guardia civica che come parte integrale figurò in sommo grado nella rivoluzione romana.
La guardia civica o guardia nazionale (che così chiamasi in Italia ed in Francia) è conosciuta in Inghilterra e negli Stati Uniti di America sotto il nome di milizia (militia) per distinguerla dalla truppa di linea. È essa la guardia civica un ritrovato moderno, sotto la cui ombra copronsi tutte le rivoluzioni, e che sotto colore di tutelar l’ordine pubblico lo sconvolge viemaggiormente, come la Francia e la Spagna ce ne somministrarono funesti esempi nei tempi recenti.
Fu stabilita in Roma la guardia civica fin dall’anno 1798, e visse quanto visse la repubblica romana regalataci in quel tempo dalla Francia in rivoluzione. Caduta la repubblica romana, cadde e non si parlò più per qualche tempo della civica. Ristabilito però il governo pontificio coll’incominciare del secolo XIX, venne ripristinata la civica, ma con tale ordine, da costituire un vero e valido presidio del governo ristaurato. Essa, sebbene poco numerosa, era composta di elementi scelti, e così restò per vari anni, salvi soltanto alcuni cambiamenti disciplinari o l’addizione od esclusione di qualche privilegio. Fu però ora coattiva, ora volontaria e personale, ed ora colla facoltà di sostituire i fazionieri, i quali mediante una piccola retribuzione montavan la guardia in luogo del civico cui spettava il servizio.31
Ebbe per comandante generale dal 1814 ai primi del 1823 il principe Don Giulio Cesare Rospigliosi.
Il medesimo avendo dato la sua rinuucia, passò la guardia il 2S gennaio 1823 sotto il comando del principe Don Paluzzo Altieri.
Il 13 gennaio 1834 fu trasferito il comando della civica 111 principe Don Domenico Orsini, e quindi per rinunzia del medesimo, passò il 28 novembre 1841 sotto quello del principe Don Pompeo Gabrielli.
Si resse per molti e molti anni secondo le regole prescritte dal manuale relativo al corpo della guardia civica pubblicato in Roma nel 1823.32
Nel 1831, alloraquando insorte le provincie incomiciò a trepidarsi sulla sorte di Roma, nacque in tutti quasi spontaneo il desiderio di premunirsi da un colpo di mano.
La civica ch’esisteva, quantunque poco numerosa, erasi fin allora condotta mirabilmente, rilevando tutti i posti, e tutelando l’ordine pubblico nella sera dell’11 febbraio destinato por lo scoppio della insurrezione. Componevanla in quel tempo non più che quattrocento uomini colle loro divise.
Cresciuta però col pericolo la necessità di prevalersene, venne aumentata con notificazione del cardinal Bernetti segretario di stato del giorno 12 dello stesso mese, di altri cento uomini per ogni rione; ma il servizio riuscendo troppo gravoso, sentì il cardinale la necessità di ampliarla ancora, e l’ampliò con un atto successivo del 17, e così lasciò partire quasi tutta la linea per recarsi incontro agl’insorti.33
Ma essa fu attivata allora in uno spirito tutt’altro che rivoluzionario, perchè Roma era tuttavia una città devota al papa e non voleva far causa comune colle provincie. Che anzi essendo in quel tempo incominciate delle dimostrazioni in Roma per parte della plebe, ma in senso strettamente papale e quasi diremmo di genere sanfedistico, ne furono talmente allarmati i cittadini che desiderarono di essere armati per proteggere non solo il governo ma eziandio le loro proprietà e l’ordine pubblico. Allora non si ebbero in vista nè la pompa e l’appariscenza delle riviste militari, nè le passeggiate, nè i banchetti, nè le dimostrazioni, nè altra cosa qualunque che aver potesse per iscopo gli affratellamenti e la diffusione delle idee di risorgimento italiano. Il buon ordine era in tutto.
La civica del 1831 come tutti sanno non fu monturata, a chiamossi perciò la guardia dei cappelletti, perchè tutti i militi portavano il cappello tondo. In Bologna viceversa, ove regnava altro spirito, fu appunto la guardia civica che nel 1832 fece la seconda rivoluzione.
Gregorio XVI encomiò grandemente e diresse parole di lode alla guardia civica di Roma, le quali posson leggersi nel dizionario anzidetto del Moroni.34
Cessato però in Roma il pericolo e rientrata in città la truppa di linea, il gravoso servizio venne alleggerito, e tutti i nuovi ascritti rimaser liberi; la tassa imposta ai contribuenti cessò, ed il corpo ritornò e per numero e per gravame di servizio qual era prima della rivoluzione del febbraio nelle provincie. I ruoli peraltro rimasero aperti per ogni futura evenienza. Ciò accadde il 25 di luglio, ed il Santo Padre, istituito appena l’ordine di san Gregorio Magno, conferì la decorazione a tutta la officialità, uscendo in queste parole per tutto il corpo civico onorevolissime:
«Gloria sia pure e lode a quegli onorati cittadini, che unitisi premurosi in milizia civica vegliarono indefessi sotto le armi e fra i travagli di servizio il più stretto alla salvezza della nostra persona, e alla quiete di questa città».
Niuno potrà negarci che queste parole risonar dovessero assai più lusinghiere pei cittadini romani presentatisi in difesa del papa, del suo governo e dell’ordine di cose esistente in Roma nel 1831, di quelle ingrate e scoraggianti che si risposero a Pio IX, allorquando interpellati i capi del comando civico nel 1848: se poteva fare assegnamento sulla fedeltà e sul sostegno della guardia civica, gli si disse niente meno che: su di essa non era da poterci contare.
Eppure Gregorio non aveva beneficato colle concessioni nè attirato giammai quelle manifestazioni di simpatia e di attaccamento spinto fino al delirio che ottenne Pio IX!
Si raffrontin di grazia queste due epoche e la differenza immensa che presentano nei risultati, e se ne trarrà dai calmi osservatori delle cose umane tale una lezione, che non andrà al certo perduta. La spiegazione però è una sola. Nel 1831 meno grida, meno entusiasmo, ma niuna finzione; e quel che si faceva si faceva con sincerità. La civica del 1831 fu cosa romana e i veri Romani abborriscono la falsità e il tradimento. Quella del 1847 fu opera in parte del riscaldamento delle teste, in parte maggiore della rivoluzione, e questa v’insinuò il suo spirito, le sue tendenze, e i torbidi elementi suoi, in guisa che le frutta che ne rampollarono furon tali, quali dovevano aspettarsi da cosiffatta pianta.
Ritornando ora all’antica guardia civica diremo ch’entrato appena nel gennaio del 1834 al comando generale della medesima il principe Don Domenico Orsini, se ne occupò indefessamente, introducendovi delle utili riforme ed eliminandone parecchi abusi. Contava in quel tempo il corpo civico soli quattrocentocinquantuno individui.
Ottenne il principe anzidetto che il 31 di gennaio 1835 la segreteria di stato confermasse il privilegio di prececedenza della civica sopra i capotori, ch’era la guardia municipale o capitolina, detta ancora milizia urbana. Quindi fu rinnovato e migliorato l’ornamento; cosicchè prima ancora dell’anno 1837 infausto per la invasione del morbo asiatico, il numero dei volontari erasi raddoppiato.
Nel 1838 però, essendo stato consegnato alla truppa di linea il solo posto stabile sul Campidoglio, che era restato alla civica, non le rimase che il servizio straordinario.
Il 4 agosto 1840 finalmente, in seguito di un nuovo impianto e di un migliore ordinamento, vennero anche estesi i privilegi di cui godeva precedentemente la guardia civica, il quale ordinamento e privilegi mantenuti in vigore dal successore del principe Orsini, che fu, come dicemmo, il principe Don Pompeo Gabrielli ad esso succeduto il 1° dicembre 1841, erano ancora vigenti nell’epoca della elezione del regnante sommo pontefice Pio IX.
Sull’istituzione della guardia civica fatta da questo papa glorioso e benefico, sulle sue leggi e regolamenti, ed altro relativo, avendone detto abbastanza nel capitolo XIV di questo primo volume e ne’ capitoli seguenti, non crediamo di dover altro aggiungere per quanto concerne la parte storica. Crediamo bensì di fare in merito alla medesima le osservazioni seguenti.
I direttori del movimento romano del 1847, la maggior parte dei quali non apparteneva a Roma, apertamente dicevano che a tutelare e consolidare le istituzioni accordate dal pontefice, faceva d’uopo armare i cittadini, i quali armati che fossero, sarebbero stati il palladio delle libertà romane, e ne avrebbero imposto così fattamente, che non era a temersi potesse un giorno la linea venire all’estreme misure contro il popolo cui la civica tutelava e rappresentava.
E parve a tutti di fatti che il far consegnare le armi in mano del popolo, e il farlo addestrare nel maneggio di esse, fosse a considerarsi come un colpo da maestro, anche per istorcere dall’autorità altre concessioni in seguito. E dicevasi pure che, a peggio andare, era sempre a sperarsi che queste armi affidate nelle mani dei Romani potessero riaccendere i sopiti spiriti bellicosi, e far rinvenire nella civica gli elementi di un’armata italiana atta a svolgere quell’eroismo di cui gl’Italiani avean date prove si luminose.
Sentivan pur troppo (parliam sempre de’ promotori, e non di quelli visibili ma degli occulti) che o le concessioni ottenute o le riforme che si potrebbero ottenere niuna valida guarantigia presenterebbero, se non fossero sussidiate dalle armi nelle mani dei popoli concessionari, i quali sapessero all’occasione difendere il conquisto.
Sentivano infine che ove il governo avesse voluto ritirar la mano distruggendo il già fatto, e ricusando il la farsi, non sarebbe stata cosa sì agevole, quando il popolo armato si fosse sentito in forza di non lasciarsi strappare la concessioni ottenute. Mille insomma essere i vantaggi va sperarne, nimno il danno da temerne; savio consiglio pertanto favorire in tutti i modi possibili la formazione ed il consolidamento della guardia civica. Questi erano i discorsi e gli intendimenti apertissimamente manifestati dai direttori del movimento romano, che parte qui, parte all’estero risiedevano.
Niuno potrai contrastarci che nei primordi del pontificato di Pio IX non si pensava nè punto nè poco alla guardia vivica, e pochissimi vi pensavano quando s’incominciò a parlarne: ma a forza di dire e ridire, a forza di domande dalle provincie sotto simulati pretesti, a forza infine di agitazioni fittizie, cominciarono a credere alcuni cittadini influenti e ben veduti dall’autorità, essere effettivamente da desiderarsene la istituzione; e quando si ritenne esser maturo il tempo da provocarne l’attuazione, raddoppiaronsi gli sforzi presso le alte regioni del potere per averla. A nulla valsero i tristi presagi dell’eminentissimo Gizzi, allora segretario di stato, e le mal celate e da noi già memorate contrarietà sue ad occordarla: la tela era sì bene ordita, che si giunse finalmente ad ottenere l’assenso sovrano, ed il 5 di luglio, come dicemmo nel capitolo XIV, venne solennemente istituita.
Niun danno derivò ai campioni del liberalismo per la minacciata e poscia realizzata rinunzia del Gizzi, perchè vi si era già provveduto colla elezione di tal nuovo segretario di stato che spalleggiato dal fratello, avrebbe fatto buon viso alla contrastata istituzione. E gli atti posteriori mostrarono di fatto il favore di cui godette la civica sotto il suo ministero.
Promulgato il decreto per la guardia civica il 5 di luglio 1847, già il 10 spedivasi al cardinal Ferretti l’invito di recarsi in Roma per rimpiazzare chi alla civica erasi mostrato non molto favorevole.
Non è vero ciò che si disse delle feste e della gioia prodotte dalla promulgazione del decreto; e salvo pochi fanatici che l’applaudirono, i più non videro in essa che una vessazione e un disagio; forse una compromessa; una noia di certo. Ma quando i pochi parlavano non solo ma gridavan da forsennati, e i molti tacevano, finivano i pochi per aver ragione; e chi sentivasi restìo in cuore doveva (per quella proverbiale assenza di coraggio civile che caratterizzò in quel tempo i migliori fra i Romani) mostrarsi ridente sul labbro, gongolante per la gioia, e approvatore a parole di ciò che con tutta la forza dell’animo ripudiava o mal suo grado ammetteva. È un fatto insomma che dopo uscito il decreto, quasi niuno o pochissimi si mossero per andarsi a inscrivere ne’ ruoli.
Questa freddezza però colpi siffattamente chi voleva la civica ad ogni costo, che suggerì l’espediente di ricorrere alla famosa congiura onde metter le armi istantaneamente e tumultuariamente nelle mani de’ vogliosi di averle, fra i quali però, convien confessarlo, furon non pochi di bonissima fede, e decisamente onesti.
Come ben si comprende però, nella necessità impellente di cercare chi prender volesse la difesa della popolazione minacciata come dicevasi da una masnada di assassini, non si guardò molto pel sottile in quali mani ponessersi le armi. Questo bensì diciamo, perchè fu da noi osservato che la carica importantissima di aiutante bass’officiale del nostro battaglione terzo venne confidata a quel Montecchi che era stato condannato per complicità nella cospirazione dell’avvocato Galletti, e che ebbe vari carichi importanti sotto la repubblica romana, e nel medesimo battaglione vedemmo darsi più tardi quell’ufficio ad un tal Ceccarelli, quello stesso che attentò dopo la restaurazione del 1849 alla vita del cardinal Vannicelli.
Siccome però nella narrazione delle cose occorse è dovere di dir la verità allo scrupolo, così direm pure che quell’entusiasmo che mancò nel principio in favore della guardia civica, si svolse e crebbe a poco a poco in seguito, e giunse fino al delirio. Sebbene quest’entusiasmo a dire il vero non fu tutto come di cosa politica, ma piuttosto come di un sorprendente spettacolo, il quale attirava tanto gli sguardi della gioventù, massime del sesso gentile al quale piaceva molto il veder tanti giovani figurare colle assise militari.
Se fosser rimasti i così detti cappelletti del 1831 pel semplice buon ordine interno, si creda pure che niuno sarebbesi rivolto ai quartieri civici per osservare i militi che facevan di se bella mostra.
Ben altra cosa fu il veder vestita militarmente di buon gusto tanta gioventù, desiderosa di comparir degna delle simpatie del bel sesso. Quindi s’introdusse in tutti un desiderio di addestrarsi nelle armi, e di ben comporsi nella figura onde non esser soggetto dell’altrui risa.
Laonde il sapere che tutti o sposi o figli o fratelli eran nei quartieri, attraeva colà uomini e donne di qualunque età per osservarli; e ciò servì magnificamente per eccitar la emulazione, e far della civica una cosa nazionale e di moda. Guai allora il non mostrarsene amico; la Pallade era là per punzecchiar co’ suoi scherzi, e a niuno piaceva di esserne fatto l’oggetto. In una parola o per forza o di buona voglia conveniva far la guardia, e dovendola fare, quasi tutti rassegnaronsi ad adempiere il loro dovere nel modo migliore che potessero.
E dovrem dire a lode del vero che nella generalità, sia per lo spìrito che dominò la maggior parte dei militi in su i primi mesi, sia per essersi addestrati nel maneggio delle armi, vi era di che andar superbi per la formazione di un sì bel corpo militare. Non negheremo neppure che in moltissimi incontri seppe favorir l’ordine, ed adempiere bene il proprio dovere, e che in su i primi specialmente ispirasse molta fiducia alla città di Roma in guisa da dover professare alla medesima grandi obbligazioni.
Se non che, come accader suole, molto del buono andavasi ritirando, e molto cattivo vi si traforava, e così la disciplina si rilasciava, e le cattive massime vi s’infiltravano e apertamente si diffondevano. Nè poteva essere altrimenti; imperocchè e colla parola e cogli scritti esercitavasi in ciascun quartiere un colpevole apostolato. Tutte queste cause riunite fecer sì poi che nel momento in cui avrebbe potuto salvare il paese dall’anarchia che lo minacciava, tutelare la persona del sovrano, e il compromesso ordine pubblico, s’inteser rispondere i capi della civica: che sulla medesima non poteva farsi assegnamento veruno.
La guardia civica fu viziata in sul nascere. Non se ne comprese il mandato, se ne disconobbe lo spirito, se ne falsò l’oggetto. Non sentivasi parlare che di coraggio e di patriottismo, sopra tutto per le elezioni delle cariche, mentre tutti coloro che ben pensavano avrebber voluto che sentisse di essere incarnata in se la preservazione dell’ordine pubblico, e nulla più.
Dcsideravasi che comprendesse dover essere le questioni politiche estranee affatto alla medesima, e invece ogni quartiere, cui i giornali della rivoluzione erano inviati gratis, era convertito in una palestra di politiche discussioni.
Sarebbesi dovuto far sentire a tutti in generale, ed a ciascuno in particolare, che la guardia civica non era nè poteva essere un corpo deliberante, e invece ella tenendosi in relazione coi circoli, e coi capi del giornalismo, agiva per impulso di questi e di quelli, e giunse perfino a pubblicare un manifesto di adesione ai principi (che in linguaggio moderno diconsi programma ministeriale) del conte Mamiani nel maggio del 1848, come si dirà in appresso.35
Sarebbe stato desiderio di molti d’indossare semplicemente una tracolla per sostenere una giberna, ed esser muniti di un fucile senza uniforme però, onde meglio conservare l’autonomia del cittadino, ed escludere quella del militare. Ma gridossi essere più bella e più dignitosa cosa l’uniforme. E si provvide a chi non poteva sostenerne la spesa, trovando il modo con buona grazia d’indurre i ricchi a contribuirvi in gran parte.
Quindi ebber luogo lotte interminabili per l’adozione o dell’elmo, o del giaccò. Sterbini scrisse in favore dell’elmo.36 E l’elmo venne adottato, perchè faceva meglio rassembrare i militi a quelli dell’antica Roma. Il Farini dice poche ma assennate parole nella sua storia in merito alla guardia civica, le quali sono perfettamente consentanee alla verità.37
Il 30 di luglio fu pubblicato il regolamento della guardia civica.38 Le uniformi dei vari gradi furono adottate,39 e si ebbe dopo qualche mese una civica magnificamente montata. Bella a vedersi, destra al maneggio delle armi, animata in gran parte dall’amore di corpo. Ma lo spirito non era quale doveva essere. L’idea del bello personale prevaleva siffattamente, che non era piccolo requisito pel conferimento dei gradi l’esser dotato di un bel viso e di belle forme.
Si riconobbe subito però dai discorsi che voleva farsi della civica non già un corpo per tutelar le case, le famiglie, i pubblici e i privati stabilimenti, e per essere di spauracchio ai ladri e di remora ai sussurroni, ma un’armata piuttosto cui affidare un giorno lo sorti della italiana indipendenza. Le idee che insinuavansi nelle teste giovanili erano di guardare il Campidoglio come monumento di gloria passata, le Alpi e le pianure di Lombardia come campi di gloria futura.
Venner pubblicate il 2 agosto 1847 dall’amnistiato Carlo Mathey alcune osservazioni sul regolamento della guardia civica.40 Pubblicaronsi dall’autorità le istruzioni per la formazione delle terne, e l’elenco delle malattie che autorizzavano la esenzione del servizio. Pose vari quesiti alla commissione deputata da Sua Santità per la organizzazione della guardia civica, e si consegnarono alle stampe le risposte della commissione. Si promulgò anche un prontuario delle operazioni da farsi por renderne più sollecita ed uniforme la organizzazione: tutte le quali cose possono vedersi nella nostra raccolta in un volume intitolato «Guardia civica.»
L’esempio di Roma servi di stimolo ai sommovitori della Toscana. Anche colà si fecero istanze, suppliche e dimostrazioni per ottener la guardia civica. La stampa clandestina vi preparò il terreno. Ed anche colà infine non volendo il governo, non consigliandolo la necessità, non curandosene i più, ma volendolo assolutamente i meno, la guardia civica venne accordata. Affinchè poi il nostro racconto venga corroborato da una voce autorevole in siffatte materie, citeremo le parole del professor Montanelli.41 Egli dice: «Avuti i giornali volevamo gli schioppi; ma prima di seguitare della Toscana, diamo un’occhiata a quello che seguiva a Roma.»
» Il viva Pio IX aveva fatto in pochi mesi il giro del mondo; e atei e maomettisti, e cristiani ed ebrei, e protestanti e cattolici, purchè con un bricciolo di cuore, guardavano a Roma con allegra speranza; nè mai parve così vicina ad avverarci la profezia evangelica: saranno un solo ovile e un solo pastore, come in quei giorni in cui gli ambasciatori della democratica America e dell’ autocratico Oriente si scontravano sulle scale del Quirinale a dare il mirallegro a Pio IX. Allora Pietro Giordani, Capaneo dell’ateismo italiano, il quale non poteva parlar dì preti senza l’antifona: son tutti a un modo, levò alle stelle quel miracolo di Papa, com’egli chiamava Pio IX: allora Chekib-Effendi ambasciatore turco andava per le vie di Roma col ritratto di Pio IX pendente sul petto, e di tempo in tempo se lo baciava come sembianza diletta, e baciandolo gli cascavan dagli occhi i goccioloni dalla tenerezza.»
Alla pagina ottava parlando dell’elogio di O’ Connell fatto dal padre Ventura in sant’Andrea della Valle, dice:
«Luigi Masi, e altri di quelli agitatori amorosi ch’erano lì alla predica (in sant’Andrea della Valle), non intesero a sordo: e schizzarono fuori di chiesa ripetendo le parole del frate (padre Ventura), e in quattro e quattr’ otto fogli clandestini, petizioni, deputazioni sonarono a doppio per chiedere la guardia civica, nè il papa stentò a darla, e il Gizzi fece il diavolo e la versiera per impedirlo, e non avendola potuta spuntare, e vedendo andare le cose alla rovescia de’ suoi disegni, piantò lì il baccellaio, e uscito di segreteria di stato, diceva plagas di Pio IX, che chiamò a succedergli il cardinale Gabriele Ferretti.»
» Le armi ai cittadini erano decretate: tuttavia per la mala volontà degl’impiegati, chi sa quando realmente il popolo le avrebbe avute, se non se le fosse prese da sè. Fu proprio per un colpo di Provvidenza che la guardia civica romana andò su più presto che nessuno pensava.»
Questo linguaggio del Montanelli equivale ad un confiteor della rivoluzione, perchè ci dice con tal chiarezza da non lasciar nulla a desiderare, essere stato il Masi e gli altri agitatori amorosi, che coi fogli clandestini, colle petizioni, colle deputazioni chiesero ed ottennero la guar- dia civica. Gol codicillo poi che le armi il popolo se le prese da sé (alludendo alla finta congiura), viene ad escludere la spontaneità dell’atto per parte del pontefice, e mette in chiara evidenza l’inganno e la violenza che in certo modo si esercitarono per ottener prima la legge, e poi la sua tumultuaria attuazione.
Abbiamo raccontato nei capitoli precedenti come il Montanelli dalla Toscana capitanasse in qualche guisa il movimento romano, e dicemmo pure che il Masi era il suo fido agente. E siccome uno era il motore, uno era lo scopo, simultanee le mosse, vogliamo attingere alla stessa sorgente la narrazione del come sMnstituisse la guardia civica in Toscana. Ecco dunque come si esprime il Montanelli nelle pagine 13 e 14.
«Armi armi! fu grido di tutti. Avevamo chiesta la guardia civica colla stampa clandestina. L’aveva chiesta il giornale l’Alba appena nato. Dopo la civica romana mossero a chiederla per via di petizioni i professori e studenti dell’ospedale di santa Maria Nuova. Alle petizioni di cittadini seguirono petizioni di municipi. Il governo stava duro. Istituì consulta di stato, la pena di morte abolì, altre utili riforme oprò, ma di guardia dvica non volea saperne.
» Le petizioni scritte non bastando, fu d’uopo venire a dimostrazioni di piazza. Firenze fece la sua, magnificamente messa in scena da Antonio Mordini. Altre città seguirono lo esempio di Firenze. Ma la dimostrazione che dette il colpo di grazia fu quella di Livorno.»
Così dunque fu ottenuta la guardia civica toscana, e niuno crediamo potrà andarne superbo, ritrovandola così poco onorevole ne’ suoi primordi per il nome italiano, e per qualsivoglia altro che tenga in pregio le virtù, l’onore, ed il rispetto che ognuno deve a se stesso.
E come non è a stupire se riescon torbide le acque che ci provengono da scaturigini ove abbondino la melma ed il fango, così non è a maravigliarsi se non dissimili dall’albero che le produsse furon le frutta che ci porse la civica in entrambi gli stati, nel romano cioè e nel toscano.
E difatti non appena eransi vedute le prime uniformi in Roma, che già chi le indossava, come per noi fu narrato sotto la data del 7 settembre, le veniva prostituendo coll’inframmettersi in dimostrazioni di piazza, le quali a quel che davano a conoscere, altro non erano che le prime scintille della rivoluzione italiana.
La parola fraternità era all’ordine del giorno siffattamente, da degenerare quasi in caricatura. Quindi è che senza por mente a distinzione di gradi, vedevansi mischiati nobili e plebei, militari e borghesi, e tra i militari stessi un affratellarsi vicendevole di civica e linea. E intanto non si avvedevano che questo miscuglio inconsiderato e ridicolo veniva distruggendo le basi dell’ordine pubblico e della civil convivenza.
Che diremo poi di quel porre in non cale i doveri del proprio stato per prestarsi in servigio della guardia civica? Di quei subalterni cioè, i quali mal sofferenti di recarsi ai propri uffici sotto colore di servir la patria, facevan di tutto per assentarsene? di quella simulata tolleranza dei capi cui era interdetto dal timore perfin di zittire? Non era questa una scuola di simulazione e di dissimulazione ad un tempo?
Che se in qualche parte vi guadagnò la gioventù nd fisico stante gli esercizi militari, altrettanto scapitò nel morale: e questo fu l’altro danno non piccolo da deplorare.
Della civica mobilizzata poi ci vergognamo di parlare, come quella che si segnalò ovunque e per indisciplinatezza e per enormità commesse. Quelle che attribuirono ad alcuni garibaldini nel 1849 non raggiunser di certo la decima parte di quelle perpetrate dalla civica mobilizzata.
In una parola, niun tratto di vero patriottismo, niuna azione gloriosa per coraggio civile si vide, in senso sopratutto di sostenere quella sovranità dalla quale fiduciosamente ricevette l’esistenza, ninna protezione a quell’ordine religioso cui la violenza sbandeggiava tirannicamente dal suolo italiano. Tali sono gli addebiti che chi sente scorrere nelle vene il sangue latino può rinfacciare a buon diritto alla tanto esaltata civica romana.
Che se a ciò aggiungasi e lo sciupío del tempo, e lo spendio del denaro, e il disordine delle amministrazioni, e le succhiate pervertitrici dottrine, dovrassi concludere essere stata la istituzione della civica romana tale una misura, da doversi deplorare sotto tutti i riguardi.
Queste parole di biasimo però non già ricader facciamo sopra l’uomo venerando che fiduciosamente la istituì, ma sì bene sugli uomini ingannatori che fra mille proteste di devozione e di attaccamento la consigliarono quale unico necessario presidio della sovranità concedente, e dell’ordine pubblico minacciato.
Il Farini nel primo volume della sua Storia tocca leggerissimamente la istituzione della guardia civica, e in ciò fare si è mostrato molto accorto;42 il Ranalli invece ne esalta poeticamentc la istituzione e l’accoglienza che incontrò.43 Ma di ciò non può farglisi addebito, perchè non trovandosi in Roma, gli fu forza fidarsi alle relazioni del suo corrispondente, il quale frequentatore forse del caffè Nuovo o di quello delle Belle Arti, prese in cambio le ovazioni di un caffè con quelle della città di Roma.
Avendo detto abbastanza della civica, lasciamo questo argomento per trasportarci nel campo delle finanze di Roma in sul finire dell’anno 1847, e farvi sopra alcune osservazioni.
Noi già toccammo questa materia parlando delle cose di Roma al terminar dell’anno 1846; e mentre demmo un qualche cenno sui risultati dell’anno stesso, facemmo un quadro generico dello stato passato e presente dell’amministrazione della finanza.
E quantunque il ramo della finanza non sia quello pel quale si accordi una preminenza al governo clericale, pure provammo incontrastabilmente che prima della rivoluzione del 1831 le rendite sopperivano non solo alle spese, ma lasciavano annualmente un sopravanzo; cosicchè questi sopravanzi cumulati si elevarono alla cifra cospicua di circa cinque milioni di scudi. Dimostrammo inoltre che tutti i guasti provennero dai prestiti che la necessità costrinse di contrarre dal 1831 in poi; provammo altresì che tanto i medesimi quanto i gravami che ne furon la conseguenza emanarono tutti dalla rivoluzione che provocolli; e siccome una porzione di ciò che figurava annualmente nei preventivi come spesa ora restituzione di capitali improntati, così concludemmo lo stato finanziario del governo pontificio non esser poi tanto rovinato come da certuni si crede e da altri si fa mostra di credere. Che anzi, ove non fossero occorsi i casi che costrinsero a contrarre i prestiti, avremmo potuto avere e sopravanzo di rendita e alleggerimento di tasse.
Ma mentre ripetiamo queste osservazioni, dobbiam convenire che gli avvenimenti occorsi dal 1846 in poi, avendo introdotto uno stato di cose anormale e ritraente le apparenze di un universale scompaginamento, allontanar dovevano l’attuazione delle speranze di miglioramento e procurarci invece un disesto maggiore dello stato finanziario.
Dicemmo del bilancio decennale dal 1835 al 1844 fatto compilare da monsignore Antonelli. Ora diremo che prodotto in luce nell’anno 1847, presentò un deficit di scudi 10,801,241, 46 6/100, che poi rettificato si ridusse a scudi 9,969,642, 68 e 6/100, equivalenti ad un milione di scudi all’anno.
Quanto alla gestione dell’anno 1847 diremo che mentre nel 1846 il preventivo fu migliorato nei suoi risultati definitivi, nel 1847 esso fu peggiorato; imperocchè il disavanzo presunto di scudi 757,223, 87, si elevò in realtà a scudi 1,341,108, 48 4/3.
D’altra parte si ammetterà da chiunque non essere stato possibile alcun miglioramento dì finanze nell’anno 1847, perchè, come abbiamo raccontato più sopra nelle presenti carte, ce la passammo dal principio al fine dell’anno 1847 in feste, tripudi, baldorie e sbalordimenti continui, da costituire in somma un andamento di cose talmente irregolare, che è da stupire piuttosto come il dissesto finanziario non fosse anche maggiore.
Si gridò molto dai novatori contro l’amministrazione delle finanze pontificie, ma ci si dica poi se in fatto apparisce che si studiassero di apportarvi un qualche rimedio, e di esercitare su questo ramo importante il loro ingegno? Scrivevano, e parlavano, e pubblicavano opuscoli in quel tempo i d’Azeglio, i Masi, gli Sterbini, i Canino, i Guerrini, i Matthey, i Zauli-Saiani, i Tommasoni: ma fra questi opuscoli che leggevansi avidamente, o nei discorsi che con attenzione ascoltavansi, non ci rammentiamo che ve ne fossero sopra studi di finanza o di economica amministrazione dello stato, e tutti raggiravansi sulla indipendenza, sulla nazionalità, sull’autonomia, sugli orrori commessi dai Gesuiti e cose simili. Ed altri opuscoli pure non sappiamo nè d’onde nè da chi pubblicati diffondevansi, e ve n’eran pure di quelli (ci serviremo delle stesse parole del professor Montanelli)44 che trattavano dello stedescamento di Lombardia, o dello spretamento di Roma.
Ma se non pensarono i novatori di ammaestrarci sulle 30se di finanza, vi pensò bene monsignor Morichini eletto tesoriere il 2 agosto del 1847, mediante la pubblicazione di un suo rapporto presentato al Santo Padre il giorno 20 sulle finanze dello stato pontificio.
In detto rapporto, che viene riferito e lodato sommamente dal Farini nella sua storia,45 si parla del deficit che il Morichini stabiliva ad un milione e duecentomila scudi all’anno, e del modo da adoperarsi per ripianarlo sia colle proposte di varie economie nelle spese, sia coll’accrescimento di alcuni cespiti o proventi della rendita pubblica.
Venne da molti approvato e magnificato il rapporto, perchè emanante da tale che in sommo grado godeva della stima puhblica: ma vi fu pure chi il censurò e fra questi si distinse l’avvocato Raffaele Farricelli il quale, quantunque conservasse l’anonimo, pubblicò nell’anno 1848 in Napoli una critica o commentario sul medesimo.46
Disapprovavasi in esso fra le altre cose il progetto di sottoporre a tassa i censi ed i canoni, e quello d’introdurre una tassa d’esercizio, siccome cosa vessatoria ed odiosa in sommo grado. Ma quello che più attirò le sue animadversioni fu la proposta di sottoporre ad una tassa il clero, tranne i curati e gli spedali.
Veniva altresì criticato dal Farricelli il Morichini, perchè, volendo por mano a delle riforme finanziarie, ne proponeva alcune che oltre all’essere inopportune in ogni tempo, allora specialmente avrebbero aggiunto esca maggiore alle fantasie già troppo riscaldate delle moltitudini, come quella per esempio di diminuir la truppa regolare di linea, sostituendovi invece la guardia civica.
Nè su di ciò è da farne un addebito all’illustre monsignore, se cedendo ancor egli alle speranze illusorie del giorno, faceva assegnamento sulla guardia cittadina come protettrioe dello stato. In quel tempo errammo tutti, e tutti credemmo buone alcune cose che l’esperienza ci ha dimostrato esser pessime.
Noi abbiamo trattato lungamente della guardia civica, e lasciamo ai nostri lettori il giudicare se fosse cosa buona o cattiva. Il Morichini riguardolla in allora, e con esso molti altri, siccome un farmaco salutare. Ma noi forse troppo rigidi la consideriamo come un veleno pestifero. Noi però abbiamo il vantaggio di scrivere nel 1859, dopo dodici anni di più di esperienza, ed egli scriveva sotto l’influenza delle aspirazioni del 1847.
L’altro appunto fu quello di pretermettere l’enunciazione di alcuni vizi o difetti della nostra amministrazione, e quindi di non proporne il rimedio. Uno di questi difetti era la eccessività della spesa di percezione delle imposte e rendite dell’erario. Nel 1847 era asceso il reddito a scudi 9,932,725, e la spesa di percezione si ammontava a scudi 1,988,401, ossia un 15 per % circa, mentre sotto il regno italico, esempio e modello di eccellente amministrazione, non giungeva all’8 ½ per %, ed in Francia secondo il conte Pecchio a non più del 10 per %. Comunque si voglia se negli anni più tranquilli cioè dal 1835 al 1844 vi fu un deficit di circa un milione all’anno, come abbiam detto di sopra, non fu eccessivo lo smanco dell’anno 1847 in iscudi 1,341,168,48, 4/5 in vista delle condizioni dei tempi del tutto eccezionali e scabrosi.
Abbiamo toccato di volo queste cose per dare una qualche idea del nostro stato finanziario.
Aggiungeremo ora che tutti questi bei calcoli e progetti della scienza, le osservazioni dei critici, e le speranze degli amministrati vennero annientate nel susseguente anno 1848 per la forza degli avvenimenti più potenti dei calcoli degli uomini. Ma di ciò avremo a parlare nell’epoca successiva: ed intanto con questo capitolo chiudiamo il racconto degli avvenimenti dell’anno 1847 ed il primo volume delle nostre storie.
Note
- ↑ Vedi autografi di personaggi politici n. 89.
- ↑ Vedi Farini lo Stato romano, vol. I, pag, 236.
- ↑ Vedi il supplemento al n. 50 delle Notizie del giorno del 16 dicembre 1817.
- ↑ Vedi la Pallade dell’11 settembre 1847 n. 56.
- ↑ Vedi L’Alba n. 35, 37, 38, 39, 40 e 41.
- ↑ Vedi la Pallade n. 57. pag. 4ª. — Vedi il Mondo illustrato pag. 595. — Vedi Ranalli vol. I, pag. 262. — Vedi il Corriere livornese n. 23.
- ↑ Vedi la Pallade del 17 n. 61. — Vedi Farini vol. I. pag. 265.
- ↑ Vedi la Pallade del 15 n. 59.
- ↑ L’Alba del 15 settembre n. 11.
- ↑ Vedi Il Corriere livornese, n. 28.
- ↑ Vedi il supplemento al Corriere livornese del 21 in data del 22.
- ↑ Vedi Ranalli vol. I p. 318. — L’Alba dell’8 di ottobre 1917 n. 51.
- ↑ Vedi il supplemento al numero 50 delle Notizie del giorno del 16 decembre 1847.
- ↑ Vedi il capitolo XX di questo I vol. ove ne abbiamo parlato.
- ↑ Vedi Moroni Dizionario, vol. LIII pag. 193. — Vedi il Diario romano del 21. — Vedi il vol. I Motu propri ec. n. 23.
- ↑ Vedi il Diario di Roma dol 21 dicembre, e vedi il Contemporaneo del 21 detto.
- ↑ Vedi la Pallade num. 130 132.
- ↑ Vedi Ranalli vol. I, pag. 373.
- ↑ Numero 131 del 28 decembre.
- ↑ Vedi Ranalli, luogo citato.
- ↑ Vedi l'Italico, anno I, pag. 120.
- ↑ Vedi il Contemporaneo del 29 dicembre 1847.
- ↑ Vedi la Bilancia del 28, n. 68.
- ↑ Vedi il volume I, dei Motu-propri ec, n. 24.
- ↑ Vedi il Diario di Roma dall’8 gennaio 1848.
- ↑ Vedi detti due atti nel I volume Mutu-propri n. 25 e 26.
- ↑ Vedi la Pallade numeri 134, 135 e 139.
- ↑ Vedi il Risorgimento del 21 decembre 1847, n. 2, prima pagina. — Vedi la Pallade del 31 dicembre 1317, n. 134.
- ↑ Vedi la Pallade del 20 decembre, numero 133.
- ↑ Vedi il III vol. Documenti dal num. 130 al 132
- ↑ Vedi Moroni Dizionario di erudizione ecclesiastica, articolo Civica pontificia.
- ↑ Vedi Manuale per la guardia civica. Roma, Poggioli, 1823 in-12.
- ↑ Vedi il Diario di Roma del 10 febbraio 1831. — Coppi, Annali d’Italia vol. VIII, pag. 115.
- ↑ Vedi Moroni, opera citata vol. XIII, pag. 280.
- ↑ Vedi Documenti, V. vol. n. 95.
- ↑ Vedi Documenti, III. vol. n. 18.
- ↑ Vedi Farini lo Stato romano, I. vol. 3.ª edizione, pag. 313.
- ↑ Vedi il I. vol. Motu-propri, n. 17.
- ↑ Vedine i figurini nel vol. Stampe e litografie dal n. 33 al n. 36.
- ↑ Vedi i Documenti, III. vol., n. 42.
- ↑ Vedi Montanelli Memorie, vol. II. cap. 27 intitolato: Guardia civica, pagina 5 o seguenti.
- ↑ Vedi Farini, I. vol. pag. 199.
- ↑ Vedi Ranalli, I. vol. pag. 162.
- ↑ Capitolo summentovato la Guardia civica.
- ↑ Vol. I, pag. 285.
- ↑ Vedi il detto opuscolo nel vol. XLV delle Miscellanee storico-politiche, n. 7.