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174 CAPO XXIII.

divolgava avere il Demiurgo, od il sovrano fattore, impiegato sei mila anni nella creazione di tutte le cose mondiali: nel primo millenario il cielo e la terra: nel secondo il firmamento: e nel terzo il mare e l’acque: nel quinto gli animali volatili, terrestri ed acquatici: nel sesto l’uomo: le quali cose avea il creatore ordinate in altrettanti spazi chiamati case1. Altri sei mila anni dovea comprendere l’età destinata alla durata del genere umano: in guisa tale che dodici millenari interi occupavano il corso prefisso alle create cose. Questa cosmogonia degli Etruschi, sì evidentemente formata sopra pure tradizioni orientali, si ritrova a un di presso anche nella credenza degl’Indiani e degli antichi Persiani: il cui Boundhesch, compendio di cosmogonia tratto da scritture più antiche, porta in fatti, che il mondo debbe finire dopo dodici mila anni trascorsi2. Però, non una sola volta dovean generarsi dal supremo ente, unico creatore, le cose universali e l’uomo, ma rinnovarsi più volte in certi determinati periodi. Niuna opinione ebbe forse maggior grido nell’antichità, quanto il concetto della totale sovversione e del risorgimento della razza umana. Le scuole dell’Asia, dell’Egitto e della Grecia stessa ripetevano in mille guise la dottrina maravigliosa delle periodiche rinnovellazioni del

  1. Per la dottrina degl’Indiani Crichna, il supremo ente, creò il mondo in tante Kalpa, cioè formazioni delle cose. Bhagavata Gita. cap. ix.
  2. Anquetil, Zendavesta. T. ii. p. 354.