Scola della Patienza/Parte seconda/Capitolo VI
Questo testo è completo. |
◄ | Parte seconda - Capitolo V | Parte terza | ► |
CAP. VI.
Come ogni afflittione, et ogni Croce vien da Dio, siaci ella pur posta sopra le spalle da chi si sia.
Si maraviglia S. Gregorio, che S. Pietro, e S. Andrea fossero così frettolosi in seguir Christo, e così serventi nel patir per lui. Nos (dice egli) quot flagellis affligimur, quantis minarum asperitatibus deterremur? et tamen vocantem sequi contemnimus. Ab amore praesentis saeculi, nec praeceptis flectimur, nec verberibus emendamur.1 Noi altri con quanti flagelli siamo afflitti, con quante, e con che acerbe minaccie siamo spaventati? e nondimeno non ci curiamo di seguire chi chiama. E dall’amore del presente secolo ne ci possiamo distorre per precetti, ne emendarci per percosse. Mira che razza di scolari indocili, che si perdono ne i primi rudimenti della scuola. E’ sentenza d’Aristotile: Addiscendum oportet credere. Bisogna, che quello, che impara, creda, e habbia fede. Non vi è alcuno, che facilmente, presto, e utilmente impari, se non chi è prontissimo à credere. Che cosa dunque si hà da credere? Che ogni afflittione, ogni miseria, e ogni croce vien da Dio, e siasi chi si voglia, che l’imponga. Et adesso insegnaremo questo, che Dio è l’autore d’ogni pena, e d’ogni afflittione, e d’ogni male. Ne vi sia alcuno (io l’avviso innanzi) che per questo detto si offenda: Poiche noi diciamo, che Dio è autore d’ogni male, ma non già d’alcun peccato, e questo è quello, che andaremo più copiosamente dichiarando, perche sopra questo fondamento s’appoggia tutta la dottrina della Patienza.
§. 1.
Ogn’uno, che intende bene la forza di questo argomento; ogn’uno, che riconosce Dio per autor di tutti i suoi travagli, e afflittioni, e crede con tutto il cuore, che Dio sia quello, che volse ab æterno, e che adesso ancora vuole ch’egli patisca tutto quello, che patisce: Costui al sicuro, anche in grandissimi travagli, abbracciarà la volontà di Dio, gli baciarà la mano, e dirà: Tutto quello, ch’io patisco, mi viene dalla mano di Dio, egli n’è l’autore: e perciò si hà da patire ogni cosa prontamente, e volontieri. Questo tale imbevuto di questa verità (come pratico ve lo dico) non sarà mai vinto da niuna miseria, ne da calamità, ò tribulatione alcuna. Poiche non gli potrà mai dispiacere, ne essergli ingrato quello, che da sì grata mano gli viene offerto.
Di Christo, quando pativa, dice S. Giovanni: Et baiulans sibi crucem, exivit in eum, qui dicitur Calvariae locum.4 E portandosi egli stesso la Croce se n’uscì per andare al monte Calvario: Sibi baiulans, vuol dire, che abbracciò la Croce, e da questo Maestro l’imparò poi S. Andrea suo discepolo.
Quello, a cui il Principe da a portare una lettera, ò qualsivoglia altra cosa, la bacia, e le fa riverenza anchorche per altro fusse forsi mordacissima, e amara. Così fece Christo, che abbracciò la Croce datali dal padre. Così ancora disse Giob: Dominum dedit. Iddio mi diede questi beni. Ma mi pare che voi siate in errore huomo mio santissimo, perche questo così gran patrimonio, che già havete perduto, lo riceveste da i vostri padri; Queste ricchezze ve l’havete acquistate con la vostra industria; e tanto bestiame ve l’havete messo insieme col vostro ingegno. Non sono altrimente in errore, dice Giob, perche nè la mia industria, ne i miei padri, nè l’ingegno mio mi diedero queste cose, ma fù il Signore, che me le diede: Dominus dedit, il quale usando delle sue ragioni, perciò ancora me l’hà tolte, perche egli me le diede: Adunque Dominus abstulit, Iddio è stato quello, che ve l’hà tolte? Pare, che dicendo questo si faccia un torto a Dio. Perche tutto il bestiame se lo menarono via i Caldei, e i Sabei; ò se vogliamo haver riguardo a chi ne fù cagione, Satanasso fù quello, che si pigliò ogni cosa, perche egli fù quello, che mandò il fuoco dall’aria, egli mosse i venti, egli istigò i nemici alla rapina, egli gettò in terra la casa, e in sostanza Satanasso fù quello, che fece tutto il male. Adunque Satanasso ancora fù quello, che tolse ogni cosa. Ma Giob persevera nel suo primo parere, e replica ben mille volte Dominus abstulit: Il Signore, il Signore me le hà tolte, quell’istesso Signore, che me le diede: Non furono i Sabei nò, non non fù Satanasso, non furono i Caldei nò, che me le tolsero; ma il Signore me le tolse, e ciò fece giustamente, perche egli ancora me le diede. Perche se il Signore di sua spontanea volontà, non havesse dato questa licenza a Satanasso niuno m’haveria potuto pigliare, ne anche un minimo fiocco di lana. Adunque il Signore fù quello, che gli le tolse. Perche chi con un cenno può impedire, che non si faccia una cosa, e a bella posta non l’impedisce, egli è quello, che la vuole. E così non si trova afflittione, tentatione, male ò calamità alcuna, che non venga da Dio, dalla sua provvidenza, e volontà.5
Note
§. 2.
Mentre, che Gedeone stava battendo, e mondando il frumento, ecco che gli apparve un’Angelo, e salutollo in questa maniera: Dominus tecum, viororum fortissime. 2 Iddio sia teco valorosissimo Campione. A cui subito rispose Gedeone: Ditemi di gratia, Signor mio, se il Signore è con noi, come ci sono venuti tutti questi mali? Dove sono le sue maraviglie, che raccontavano i nostri Padri? Hora ci hà forse abandonati il Signore? Obsecro Domini mi, si Dominus nobiscum est, qhuomodo apprehenderunt nos haec omnia? Ubi sunt mirabilia eius, quae narraverunt Patres nostri? Nunc autem dereliquit nos Dominus? Percioche in quel tempo i poveri Hebrei si trovavano molto oppressi da i Madianiti. Ecco, come l’ignoranza humana và ridicolosamente, e malamente filosofando: se il Signore è con noi, come siamo così maltrattati? Come se questi mali, e queste calamità non venissero da Dio, come tutti gli altri felicissimi successi. E però gli soggiunse l’Angelo: Vade in fortitudine tua, et liberabis Israel de manu Madian. Và con la tua forza, che liberarai Israele dalle mani de’ Medianiti. Come se dicesse: Sappi, che Dio non hà abandonato affatto il suo popolo, anchorche gli habbia mandato adosso questi suoi nemici. Iddio vi và tentando per vedere l’amore, che gli portate.
Così a punto ci manda Dio l’infermità, e mille altri mali, per eccitare verso di se la confidenza nostra, e accioche meglio ci conosciamo. E si come è lecito a resistere a un nemico, così ancora è lecito resistere all’infermità (purchè non ci si faccia con rimedij illeciti) massime non sapendo noi quanto tempo voglia Dio, che stiamo infermi. Se un carcerato trova aperta la prigione perche non può fuggire? Questo non è rompere la prigione, mà è un non rifiutare un beneficio, che se gl’offerisce. E si come un sol custode basta ad haver cura di cento, ò ducento prigioni, che stiano in ceppi, e in catene, ne vi è pericolo all’hora che alcuno se ne fugga, anchorche havesse l’ali di Dedalo, ma se vi è qualch’uno che limi la catena, rompa le prigioni, e se ne scappi via, non lo segue solamente un sbirro, mà tutti gli vanno appresso per veder di ripigliarlo. Così a punto s’ha da discorrere in questo nostro caso. Quei, che sono perseguitati, tentati, travagliati, e molestati da i Demonij, non s’hanno da contare per prigioni, nè per cattivi del Demonio. Quello è prigione, quello è cattivo, ch’è legato dalla Lussuria, dall’Invidia, dall’Avaritia e dalla Superbia. Questi tali non sono perseguitati dal Demonio; perche li possiede sicuramente come suoi. E quando alcuno di questi cerca di romper le catene, e di fuggirsene: all’hora si sente contra Satanasso con tutti i suoi, all’hora è perseguitato, e travagliato da molti huomini tristi, e scelerati. A chi dunque potrà mai parere cosa mala, l’haver molti nemici, e molti, che ’l travaglino? Essendo certissimo, che tutti, quei che vogliono esser huomini da bene, e servir a Giesù Christo, hanno da esser perseguitati.
Faraone Rè d’Egitto minacciò gli Hebrei, e fece un giuramento di perseguitarli, dicendo: Persequar, et comprehendam illos.3 Per certo io li perseguitarò, e li prenderò. E non disse questo quando li vedeva tutti immersi nel fango, e travagliati; ma quando li vide fuggire. L’istesso fanno i nostri nemici; Mentre stiamo immersi nel fango de’ vitij, a pena ci danno qualche fastidio; ma quando cerchiamo di salvarci con la fuga, all’hora ci si attraversano quanto possono, e con crudeli, e nemichi assalti procurano almeno d’atterrirci. Perciò l’Ecclesiastico avvisandoci dice: Fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia, et timore, et praepara animam tuam ad tentationem.4 Figliuolo tu, che cominci a servire a Dio, stà all’erta, conserva la giustitia, e il timore di Dio, e apparecchiati alla tentatione. Vuoi tù andare alla Scuola della Patienza? Apparecchiati pure, non al riposo, nò all’otio, nò al darti buon tempo, mà si bene a patire molte tentationi. E che, no ’l sai? Quei, che imparano a giocare di scrima, a cavalcare, lottare, ò a far qualche altro essercitio militare, non si mettono sopra qualche morbido piumaccio con un libretto in mano: ma a quello il maestro istesso di scrima gli dà spesso qualche botta: Quell’altro lo getta il cavallo, un’altro il cozzone. Questi è gittato a terra dal suo contrario: Quell’altro si rompe un gamba al salto, quegli lottando si torce un braccio; a questo vien rotta la testa con un bastone, a quello cavato un dente con un manico di spada; a un’altro finalmente è cavato un occhio con un’hasta. Quivi bisogna patire ogni sorte d’incommodità, e di percosse.
Note
§. 3.
Pensiamo dunque con ogni possibile attentione, che tutte le cose avverse ci vengono da Dio supremo, e giustissimo Giudice. Non stiamo dunque a dar la causa delle nostre miserie a chi veramente non n’è cagione. Quia neque ab oriente, neque ab occidente, neque a desertis montibus, quoniam Deus Iudex est, hunc humiliat, et hunc exaltat: quia calix in manu Domini vini meri plenus misto, et inclinavit ex hoc in hoc: verumtamen fex eius non est exinanita: bibent omnes peccatores terrae.4 Perche le miserie nostre, e le nostre tribulationi non vengono, nè dall’oriente, nè dall’occidente, ne dalle montagne deserte, perche Dio è il Giudice: questo humilia, e quello esalta. Et hà in mano un calice pieno di vin puro, e mescolato. E ne hà dato hor a questo, e hora a quell’altro quanto glie n’è parso. Ma non è ancor vuotata la sua feccia della quale ne beveranno poi tutti quanti i peccatori della terra.
Mirate bene, Christiani, e scrivetevi nel cuore questi secretissimi documenti Iddio consola questo, e tormenta quello. Il calice di tutte le miserie, e afflittioni stà nelle mani di Dio. Questo calice del Signore è tutto pieno di vin puro, mà però è mescolato. Perche in questo calice non ci è solamente una sorte di vino, mà molte sorti. Un buon vino, quando si mescola, non con acqua, ma con qualche vino migliore acquista gran forze. Così la Giustitia vendicatrice di Dio abonda d’una varietà, e moltitudine di pene, come di tanti, e diversi vini. Molti huomini patiscono non solamente grandi, ma diversi travagli, e miserie: a questi si dà a bere vin puro, ma mescolato nel modo, che hò detto. Ma stiamo pur di buon’animo, perche fin’hora ogni cosa è tolerabile, e leggiera. Perche di questo Iddio ne dà un poco a questo, un poco a quello; hor dà da bere a Giovanni, hora a Pietro, hora a Giacomo; Questo calice d’honore và attorno, e passa a tutti, e tutti n’han da bere ò più ò meno come piacque al Signore fin dall’eternità, e tutti si canta quella canzone: Aut bibe, aut abi. O tu bevi, ò tù ten’hai d’andare.
E quì è una cosa di grandissima consolatione. Che nessuno, (in questo tempo però) è sforzato a bevere le fecci di questo calice: Fex eius non est exinanita. La sua feccia non è ancor vuota. Li più gravi supplicij della giustitia vendicatrice si riservano per il giorno del final Giuditio: All’hora bibent omne peccatores terrae. Le beveranno tutti i peccatori della terra. Tutto quello, che patiamo adesso, è momentaneo, e lieve peso della nostra tribolatione; e ci hà da parere un gioco, e una burla rispetto a quelle amarissime feccie, che ’l divin furore darà per sempre a bere, senza però mai finirsi, a tristi, e scelerati peccatori. Adesso, ò christiani, beviamoci allegramente questi piccioli calici di queste nostre amarezze; purche siamo fatti esenti dal bere quelle amare feccie. Nella tazza che molti ci spaventiamo a bevere, si porge il vino del Signore; il calice, che noi fuggimo, stà nelle mani del Signore, e l’autore di ogni pena, e d’ogni calamità è l’istesso Iddio.
Note
§. 4.
Quando il sapientissimo Rè David vide quel furfante di Semei solo, e senz’arme, e che nondimeno sentiva da lui dirsi così francamente, e senza alcun timore tutte quelle ingiurie, subito si pensò, che la prima origine di quelle non venisse da Semei, ma da Dio il quale per supplicio, e pena sua, gli havesse destinato contra la maldicenza di quel mal’huomo. In che modo adunque Iddio gli comandò questo?
Statemi attenti, e vedete come và la cosa: In ciascun peccato si trovano due cose: la prima è quel moto naturale del corpo, e della volontà, ò d’ambidue insieme. L’altra è l’istessa transgressione della legge. Per essempio: Un fratello calunnia l’altro; un cittadino amazza un’altro: un soldato dà il fuoco a una casa: un ladro rubba mille scudi. Quì quel moto della lingua, quel colpo mortale, quel gettar del fuoco, quel portar via il dinaro, tutti si fanno con l’aiuto di Dio; perche sono attioni naturali, le quali non si possono fare senza l’aiuto di Dio. Et a questa prima cosa s’hà d’haver sempre l’occhio in ogni peccato, come cosa certissima, che non si possa fare se non con l’aiuto di Dio. Ma la seconda cosa, è l’istessa natura del peccato, che è quando si fà quell’attione naturale ma contra la ragione, contra la conscienza, e contra la divina legge; E questo è quello, che Dio non vuole, e non comanda: Nondimeno ordina Dio questa perversa volontà dell’huomo, ò questo peccato, e trasgressione della sua legge in pena d’alcun’altro, ò per avviso, ò per emendatione, ò per maggior suo merito. E così Dio è l’Autore quando si fa la cosa, e quando si fa male, l’istesso Dio n’è providentissimo ordinatore.
A questo modo Iddio aiutò Semei quando diceva quelle ingiurie, e quando tirava quel fango, e quei sassi (perche questi sono attioni, e moti naturali) Ma in quanto poi Semei mostrò a quel modo la sua pessima volontà, che haveva contro il suo Rè, in questo Iddio non vi concorse, ne gli diede alcuno aiuto; Ma ordinò bene quella sua malignità ad un otfine, che fù accioche con quelle calunnie, ingiurie, e maldicenze fussero castigati i peccati di David, e fusse insieme essercitata la sua patienza, e humiltà.
E questo si può vedere onninamente in tutti i peccati, e in tutte le ingiurie. Iddio sopporta il male della colpa, e ordina il mal della pena ad un’ottimo fine, ch’è per accrescere i meriti, e punire i peccati. Quindi è che permette la fame, la guerra, la peste, e l’inondationi, gl’incendij, i saccheggiamenti, l’ingiurie, l’ingiustitie, e altre infinite sceleragini grandi, e insieme talmente le dispone, e ordina, che mostra con questi mali a tutto il mondo maggiormente la sua bontà, la sua giustitia, la sua gloria, e la sua potenza, e in questo modo Iddio è Autore di tutti i mali, e di tutte le pene. Del che testimonio ne sia la stessa verità.
Essendo Iddio un poco sdegnato con gli Hebrei disse: Congregabo super eos mala, et sagittas meas complebo in eis.3 Ecce ego inducam super eos mala, de quibus exire non poterunt.4 Mandarò loro ogni sorte di male, e consumarò in loro tutte le mie saette. Ecco, ch’io manderò loro tanti mali, che non ne potranno uscire. Ecco, ch’è vero, che Dio è quello, che ci carica di mali, e Dio è quello, che ci ferisce con le sue saette. Ma noi siamo tanto bambocci, che ci sdegniamo co’i dardi, e con le saette, e non teniamo mente a chi le tira. Così fa il Pittore, quando non gli riesce una pittura, si sdegna col pennello; Così lo Scrittore se la piglia con la penna, il ferraro col martello; e il vasaio dà la colpa alla creta, quando il vaso non riesce. Così noi altri ancora accusiamo quei, che dicono mal di noi, e gl’emuli nostri, come causa de’ nostri mali; Ma siamo in grand’errore; Perche nè il Pennello, nè la penna sono gli auttori della pittura, ò di quella scrittura. Molto meglio lo intese Giob, quando disse: Manus Domini tetigit me.5La mano del Signore fù quella, che mi toccò. Non furono altrimente le mani de’ Caldei, ne quelle de i Sabei ò d’altri miei nemici, che mi fecero tanto danno, ma la mano del Signore fù la mia rovina.
Note
§. 5.
La sapienza grida: Misisti antecessores exercitus tui vespas, ut illos paulatim exterminarent.5 Mandaste le vespe per vanguardia del vostro essercito accioche a poco a poco li esterminassero. E ne i libri de i Rè si dice: Et ebullierunt villa, et facta est confusio morts magnae in civitate.6 Cominciarono a bollire le ville, e i campi, e subito nacquero tanti sorci, che non solamente rosero tutti i frutti delle campagne, mà misero in confusione tutta quella città per la gran mortalità, che vi era.
Genebrardo fa menzione d’un certo Rè, che insieme con la moglie fù mangiato da i sorci, per haver uccisi i nipoti, ch’erano sotto la sua cura.7 I conigli rovinarono una Città di Spagna, e le talpe un’altra di Macedonia come riferisce Plinio.8 Quando Sapore Rè di Persia, quella peste crudele ch’era tanto sitibondo del sangue Christiano, assediava la Città di Nisibi, S. Giacomo Vescovo di quella pregò Dio, che gli mandasse in aiuto non esserciti di soldati, mà sì bene qualche essercito di zanzale, e mosche canine. Questi animaletti combatterono contro quel fiero nemico, meglio, e con più valore, che non haverebbono fatto tutti gli eserciti di Serse, perche ficcandosi nell’orecchie, e nel naso de’ cavalli, e nelle proboscidi de gl’Elefanti; li punsero, e stimularono di maniera, che incrudelitesi quelle bestie per le punture, rotti tutti i freni si misero con gran impeto a fuggire. Onde il Rè non sapendosi, che fare, ne, che partito pigliare, se ne tornò a casa senza haver fatto niente
Nè successe altrimente quando Carlo Rè di Sicilia, e Filippo Rè di Francia pigliarono Girona citta di Spagna, poiche non perdonando l’empietà dei soldati, ne a Chiese, ne a Reliquie, ne a Sepolchri, stando già per dar l’assalto alla sepoltura di S. Narciso, comparvero in un subito tante mosche, e fecero uno smacco così grande dell’esercito nemico, che tutti furono forzati a fuggirsene a potere. Onde poi ne nacque quel proverbio, che hoggidì ancora s’usa da’ Spagnuoli, stuzzicar le mosche di S. Narciso. Chi fù quello, che diede tantao gran forza a così piccioli, e vili animaletti? Iddio è l’autore di tutti i mali, e di tutte le calamità. Tutto questo male vien da Dio.
Ma mi dirai. Se io hò un’infermità, la quale sò certo, che m’è venuta dalla intemperanza mia, per troppo mangiare, e bere, in che modo posso attribuire questo male a Dio, sapendo di certo d’esserne stato io la cagione? Questa infermità mi è di grande afflittione, ma me la manda Iddio? Sì che te la manda, è chiarissimo. Perche Dio fin dall’eternità determinò di flagellarti; pigliò per isferza la tua stessa intemperanza, la quale pure previde ab aeterno. E così Dio è quello, che ti percuote con questa sferza; ma tu fusti quello, che gli desti la materia per farla: Iddio vuole, che tu sia infermo, ma per causa, ò instrumento della infermità si serve della tua intemperanza. A questo modo Iddio vuole, che un’altro sia ingiuriato, piglia per instrumento il suo nemico. L’istesso si dice in tutte l’altre cose.
Hor tù, ò altro chi si sia, che havete per dirci contra? Che importa, che tù impari a far il cuoco ò nella tua cucina, o in quella d’altri, purche impari? Che se non incominci ad imparare a spese d’altri, perche ti lamenti, se alla fine impari a spese tue? Apparecchiati dunque alla Patienza. L’auttore di tutte le tue afflittioni, e di quante altre ne sono al mondo, è Dio: come è piaciuto al Signore, così si è fatto, così si fà, così si farà benissimo. Non haver paura, perche non ti caderà pure un sol capello del capo, che Dio non l’habbia previsto, e non habbia così voluto:9 E che ti mancherà mai, se ’l tuo nemico ti lacererà tutte le membra, quando Iddio tien minutissimo conto ancor dei tuoi capelli? Piglia pur la medicina, che ti manda tuo Padre, e sia per mano di chi si voglia: bevi il calice, che Dio ti manda, e portilo chi vuole. Tutto quello, che haverai da patire, l’hai da patire patientemente per quanto tempo vorrà Dio, che tù ’l patisca. Questo è il vero profitto, che si fa nella Scuola della Patienza, e questa è la strada, che conduce alla vita.
Note
- ↑ [p. 563 modifica]Eccli. c. 11. 14.
- ↑ [p. 563 modifica]Mich. c. 1. 12.
- ↑ [p. 563 modifica]Mich. c. 2. 3.
- ↑ [p. 563 modifica]Amos. c. 3. 4.
- ↑ [p. 563 modifica]Sap. c. 12. 8.
- ↑ [p. 563 modifica]1 Reg. c. 5. 6.
- ↑ [p. 563 modifica]Genebr. an. 790.
- ↑ [p. 563 modifica]Plin. l. 8. nat. hist. c. 29.
- ↑ S. Aug. serm. 4. de fest. mart.
§. 6.
Si costuma nelle scuole far alcuni de’ scolari, Decorioni, i quali habbiano una certa potestà, e imperio con gl’altri della loro decuria. Che se per sorte si trova qualche scolare più de gl’altri contumace, che non voglia recitare col suo Decurione, ò a lui dar il latino; subito il maestro con serietà gli dice: E che hai superbetto? Che vuoi alzar cimiera ne? Hor hora ti farò calar l’orgoglio: Recita con questo tuo condiscepolo, e dà il tuo latino a lui; altrimente io ti darò un buon castigo.
Nella Scuola della Patienza ritenendo Christo la medesima usanza, vuole che uno sia soggetto all’altro; e che uno sia castigato dall’altro, ma però secondo ch’egli giudicarà doversi fare. Quivi noi altri superbuzzi ci sogliam servire di molte eccettioni: Vogliamo recitare, ma non con questo; vogliamo dar il latino ma non a questo, vogliamo essere corretti, ma non da quello; vogliamo portar la croce purche non l’habbia fatta questo forfante, purche non me l’imponga questo furbo. Che cosa è questa? Che vuol dire questa insolenza? Haver tanto ardire, e non voler sottomettersi ai condiscepoli? Non sopporta questi costumi il maestro. La Croce s’hà da portare, sia fatta da chi si vuole, e s’imponga da chi si sia. Un’huomo sceleratissimo può esser fabbro di una utilissima Croce. Quid ad te? tu me sequere1: disse Christo: A te, che importa questo? Attendi pur tù a seguitarmi.
Simone Cireneo porta costantemente la Croce fino alla cima del monte Calvario: non stà a replicare, non si richiama: sottomette le spalle, e obedisce a chi non gli poteva in modo alcuno comandare. E chi era Semei? Un furfante seditioso, e un pessimo huomo. E nondimeno volse Iddio che costui imponesse una pesantissima Croce a un potentissimo, e Santissimo Re. Et attendete, che ’l Rè David riconosce questo scelerato per suo condiscepolo, anzi per suo Decurione assegnatoli dal Maestro, con questo recita, e a questo si sottomette.
E che Decurioni, pensate voi di gratia, che fussero in questa scuola un’Attila, un Tamburlano, un Totila? Tuttavia il maestro ve li pose, con questi bisognava recitare. Tù Attila, vientene pur volando dall’ultime parti del mondo, e sitibondo di sangue, e di preda, rubba, uccidi, abbrucia, e guasta, che questa tua crudeltà servirà per instrumento a Dio, ch’è il maestro di questa scuola; e non sarà altro, che uno svegliare i Christiani dal grave sonno de vitij, e delle delitie nelle quali erano miseramente sepolti, e immersi.
E voi due Vespasiani, che fate? Andate, rovinate pure, e date il guasto a tutta la Giudea, mandate alla mal’hora pur tutti i Giudei, pigliate, e desolate la Città Santa. A, che fine? Voi movete l’armi per ampliar la vostra gloria, e ’l vostro Imperio; mà v’ingannate; perche in verità, voi sete gl’essecutori della divina Giustitia contro quella gente empia, e rubella; che non potè digerire la sua felicità, se dal caldo di queste vostre crudeltà non era aiutata. Andate dunque ò Principi Romani; e voi che in Roma uccidete i Christiani, vendicate hor nella Giudea la morte di Christo, senza però sapere quel, che vi facciate.
L’istesso a punto si osserva ancora con tutti i nemici nostri, che danno fastidio a me, e a te (Christiano mio), che con ingiurie, e con invidie vanno sempre oltraggiando hor questi hor quelli. Noi altri l’habbiamo a male, e ci lamentiamo, che da Dio siano ammessi tali condiscepoli, e fatti tali decurioni, che non facciano altro, che insidiare alla fama, ai beni, e alla vita nostra, e mandarci in rovina.
Ma o cieli! I nostri pensieri, e i giuditij nostri s’ingannano di grosso. Poiche, che importa, che quei cerchino la nostra rovina? I pensieri di Dio sono assai diversi da i loro. Gioseppe Vicerè dell’Egitto lo disse chiaramente alla presenza de i suoi fratelli, che se ne stavano con gran timore: Vos (disse egli) cogitastis de me malum, sed Deus vertit illud in bonum. Num Dei possumus resistere voluntati?2 Voi pensaste di farmi un gran male, ma Iddio me lo convertì tutto in bene. Potiamo noi forse resistere alla volontà di Dio.
§. 7.
A questo modo ancora commanda il magistrato, che si tagli il capo a un Reo, a cui il carnefice vuol tanto male, e l’odia tanto, che vorrebbe più presto d’haverlo a tenagliare, che levargli la testa in un sol colpo. Ma perche bisogna eseguire ciò, che il magistrato commanda, gli taglia il capo, non senza grandissimo suo gusto. Che danno di gratia hà fatto a questo huomo l’odio del carnefice? Non gliene hà fatto più, che se l’havesse ardentemente amato. Gli tagliò il capo come ordinò il magistrato, ne gli potè far altro danno al mondo. Così apunto, così fanno tutti i nemici nostri. Anchorche ci vogliano male a morte, non ci potranno mai far più danno di quello, che vorrà, e permetterà loro Iddio. Avvisandoci in questo luogo S. Agostino chiarissimamente dice: Noli timere inimicum, tantum facit, quantum acceperit potestatem. Eum time, qui quantum vult, tantum facit, et qui iniuste nihil facit, et quid quid fecerit, iustum est. Saeviant quantum voluerint, et quantum permissi fuerint peccatores: confuirmat iustos Dominus. Quid quid acciderit iusto (Notate ben questo di gratia con ogni diligenza) Quid quid accideritt iusto, voluntati divinae deputet, non potestas inimici. Quid sibi ergo plaudit iniquus, quia flagellum de illo fecit. Pater meus? Illum assumit ad ministerium, me erudit ad patrimonium. Nec attendere debemus, quantum permittat iniustis, sed quantum servet iustis: facit hoc Deus, quod plerumque facit, et homo. Aliquando iratus homo apprehendit virgam iacentem in medio, fortasse qualecunque sarmentum caedit inde filium suum; ac deinde projicit sarmentum in ignem, et filio servat haeriditatem. Sic Deus de hominibus malis exercet nos; et de illorum insecutionibus erudit nos. De malitia mali flagellatur bonus, de Servo emendatur filius. Sicut enim malis obest bonitas iustorum sic prodest bonis iniquitas impiorum. Quod si ceperit tibi subrepere voluntas humana dicens: O si occidat Deus inimicum istum meum, ut non me persequatur! O si posset fieri, ut non ab illo paterer tanta! Iam si perseveraveris, et hoc tibi placuerit, et vides, quia hoc non vult Deus; pravus corde es. Et qui sunt recti corde? Qui sic inveniuntur, quomodo inventus est Iob, qui ait: Dominus dedit, Dominus abstulit, sicut Domino placuit, ita factum est; sit nomen Domini venedictum. Ecce rectum cor.1
Non haver paura del tuo nemico (dice questo Santo) perche tanto fa, quanta è la potestà che ha ricevuto. Ma temi quello, che fà quanto vuole e che non fa niente ingiustamente, e tutto ciò, che fa, è giusto. Incrudeliscano, pure i peccatori quanto vorranno, e quanto sarà loro permesso; che Dio conferma i giusti. E tutto quello che accaderà al giusto, lo deve attribuire alla volontà divina, e non al potere dell’inimico. Di che dunque si rallegra il peccatore, che mio padre habbia di lui fatto un flagello? Quello piglia per servirsene, e me per farmi herede. Ne dobbiamo mirare quanto egli permetta a i peccatori, ma quanto riservi a i giusti. Iddio fà molte volte come fà un’huomo. Talvolta un’huomo irato piglia di terra una bacchetta, e forsi sarà qualche vil sarmento, e con quella batte il suo figliuolo, ma poi alla fine getta il sarmento nel fuoco, e riserva l’heredità per il figliuolo. Così fa Dio con gl’huomini tristi, essercita noi altri, e con le loro persecuzioni ci ammaestra. Con la malitia del tristo si flagella il buono, e col servo si corregge il figlio. Perche si come a i tristi nuoce la bontà de i giusti, così a i buoni giova l’iniquità de i tristi. Che se l’humana volontà ti cominciarà a dire: O se Dio uccidesse, e mi levasse dinanzi questo mio nemico, che non mi perseguitasse! O se potesse essere, che non patissi tante cose da lui! E persevererai in questo, e te ne compiaccerai, e nondimeno t’accorgi, che non vuol questo Iddio; Sappi che tù non hai il cuor buono. E chi sono quei, che hanno il cuor buono, e retto? quei che sono trovati, come fù trovato Giob, il quale disse: il Signore il diede, il Signore il tolse, si è fatto quello, ch’è piaciuto a Lui: sia benedetto il suo santo nome. Ecco questo è ’l cuore buono, e retto.
Queste cose, che dice S. Agostino, bisognarebbe dirle, e replicarle mille volte l’hora, e nondimeno a pena si capiranno, e intenderanno bene per l’imitatione. Così apunto Iddio castiga uno per mezo d’un altro, il batte, e lo flagella, e poi getta nel fuoco la bacchetta. Così dovendo castigar gl’Hebrei per mezzo del Rè di Babilonia disse: Servient omnes gentes istae Rgi Babylonis septuaginta annis. Cumque impleti fuerint septuaginta anni, visitabo super Regem Babylonis.2 Serviranno tutte queste genti al Rè di Babilonia per lo spatio di settant’anni, e passati, che saranno i settant’anni: farò la visita sopra il Rè di Babilonia, e come un sarmento lo gettarò nel fuoco.
Perciò (Christiano mio) tutti quei, che ti divorano, saranno divorati, e quei, che cercano di distruggerti saran distrutti; e tutti quei, che hor ti rubbano, Iddio farà che siano ancor rubbati. Propterea omnes, qui comedunt te devorabuntur: et universi hostes tui in captivitatem ducentur, et qui te vastant vastabuntur, cunctosque praedatores tuos dabo in praedam.3 Ma se ti risanarà dalle tue ferite, e te ne leverà i segni, come fece a Giob, a cui gl’inimici, e una estrema povertà diedero altrettanto di quel, che prima havea. Tu fra tanto aspetta con longanimità tanto l’aiuto, che verrà per te dal cielo, quanto il supplicio, che sarà dato ai tuoi nemici se in questa vita non si emenderanno.
Note
§. 8.
Tra tanto noi siamo ancora del medesimo parere, e perseveriamo con la nostra testa dura, e ancor ci scappano di bocca quelle sciocche parole: Costui m’è un trave ne gl’occhi, m’è tanto fiele nello stomaco; Purche io mi potesse levar dinanzi costui: purche io mi potessi lavar le scarpe nel suo sangue; ò quanto pagarei questa tinta; non c’è verso, che io possa pigliar riposo, mentre stò con questo stecco negl’occhi, e mi vedo avanti costui. O che parole empie, e degne d’esser sepellite di nuovo nell’inferno, donde sono uscite? Così attribuimo scioccamente l’inquiteudine dell’animo nostro a i nostri nemici: Errore grandissimo; contra il quale disputando S. Chrisostomo, così dice: Quem admodum si corpus adamantinum haberemus, et si innumeris undique telis peteremur, non tamen vulnera reciperemus: non enim a manu tela torquente, sed a corporibus patientibus vulnera fiunt: Sic et hic non a petulantium insania, sed ab imbecillitate contumelias patientium, iniuria, et contumeliae contituuntur. Si enim philosophari sciamus, nec contumelia affici possumus, nec quidquam grave pati. Aliquis contumeliam intulit? Si non sensisti, nec doluisti, non es iniuriam passus; sed et magis percussisti, quam percussus es.2 In quel modo, che se noi havessimo un corpo di diamante, benche d’ogn’intorno ci fussero tirate innumerabili saette, non restaressimo però offesi, ne feriti, perche le ferite non si fanno da quella mano, che tira la saetta, ma si bene da quei corpi, che la ricevono. Così ancora qui l’ingiurie, e le villanie, non si fanno dalla pazzia, e dalla furia d’huomini sfrenati ma si bene dalla fiacchezza di quei, che le ricevono. Perche, se sapremo ben filosofare, noi non potiamo essere villanneggiati, nè patir altra cosa grave. Vi è stato forse alcuno, che ti hà detto qualche villania? Se tù non l’hai sentito, ne te ne sei doluto, non tì hà fatto ingiuria; anzi tù hai dato molto più di quel ch’hai ricevuto. Che stiamo dunque ad accusare i nostri nemici, e i nostri emuli come se essi fussero la cagione di tutte le nostre miserie? La colpa stà sempre dalla parte nostra: ogni volta, che ci sentiamo offesi, da noi stessi siamo offesi. Onde è verissima quella promessa, che ci fa la Chiesa quando dice: Nulla nobis nocebit adversitas, si nulla nobis dominetur iniquitas. Niuna avversità ci farà danno se ci trovaremo senza peccati.
Mà, che maraviglia è, che l’animo nostro stia così inquieto, havendo così poca patienza, e sapendo così poco tacere? ne con silenzio potiamo far passaggio dalle cose ingrate, ne con patienza potiamo soffrire le cose avverse, e per ogni verso siamo intrattabili. E nondimeno diamo sempre tutta la colpa à gl’avversarij nostri: Se questi non vi fussero (diciamo) noi saressimo più santi. O huomini sciocchi, e ridicolosi! Se noi non mancassimo a noi stessi, la malitia de nostri nemici non solo non ci faria peggiori ma ci faria molto migliori. Perditio tua, Israel, ex te: La tua rovina, huomo da bene, vien da te, non da i tuoi nemici, la colpa della tua impatienza l’hai da dare a te, e non ai tuoi nemici.
Et quis est, qui nobis noceat, si boni aemulatores fuerimus?3 E chi ci può far danno se noi saremo buoni emulatori? Già si sa per tutto il mondo quel bel detto di S. Gio. Chrisostomo: Nemo laeditur, nisi a se ipso.4 Nessuno è offeso se non da se stesso. I Decij, gli Aureliani, i Neroni, i Domitiani, i Diocletiani, poterono ben uccidere quei valorosissimi campioni dei Vincentij, Sebastiani, Mauritij, Tiburtij, Giorgij, ma non poterono lor far danno alcuno. Li haverebbero offesi quando li havessero potuti privare delle celesti corone. Potè Valeriano arrostire un Lorenzo sopra la graticola; ma non gli potè già torre ne Christo, nè ’l cielo. Potè il furore, e la rabbia Ariana perseguitare per mare, e per terra un’Atanasio, mà non potè offendere, anzi col perseguitarlo gl’accrebbe mirabilmente, e la virtù, e la fama.
Onde dottamente disse Origene: Ita in hoc mundo sunt omnia disposita, ut nihil prorsus otiosum sit apud Deum, etiam si malum illud sit. Malitiam Dominus non facit, tamen cum ab alijs inventam possit prohibere, non prohibet; sed cum ipsis, a quibus habetur, utitur ea ad causas necessarias.5 Sono talmente disposte, e ordinate tutte le cose in questo mondo, che non ve n’è pur una, che sia otiosa appresso Iddio, anchorche ella sia mala. Iddio non fà la malitia, nondimeno potendola prohibire quando da altri si fà, non la prohibisce; ma se ne serve insieme con quelli, che l’hanno per le cause necessarie. E così Dio senza esser l’autore di alcun peccato, è l’autore di tutte le pene: ne da lui siamo altramente offesi, ma siamo sempre per nostro bene corretti.
Note
§. 9.
Da questo essempio siamo ammaestrati ad honorare, e riverire con ogni sorte d’amorevolezza e cortesia qualsivoglia huomo per tristo, e scelerato ch’egli sia, e a comprarcelo con ogni sorte di benevolenza, e ossequio, e fargli ogni possibil riverenza, non già fintamente, e per parere, ma di tutto cuore, e di star sempre apparecchiati non solamente ad honorar, e riverire questi tali, ma prostrarsi ancora, e baciar loro i piedi. E s’hanno da correggere quei pensieri, e quelle pessime parole: Questo mio nemico, è un’huomo maligno, maldicente, e invidioso: non posso far di non l’odiare, perche è indegno, non solo d’esser rimirato, ma nè pur pensato; perche è tristo dentro, e fuori, e con lui non ci voglio arare, ne zappare. Io conosco ben Simone, e egli molto bene conosce me. Piano, patron mio, piano, andate adagio. Il maestro nella Scuola della Patienza ti ha dato questo huomo per decurione, e vuol, che tù gli stia soggetto. Hor che ragione hai tù di lamentarti? Se tu hai cervello, dirai: Eccomi ch’io son pronto, anche a baciarli i piedi, e ciò tanto più prontamente, quanto più facilmente può Iddio in un subito mutar le cose, e fare, che Mardocheo sia decurione d’Aman, e con imperio gli dica: Aman vien quà, recita la lettione, recita Aman.
Vedete di gratia, e stupite di queste maravigliose mutationi. Nel più bello, che Aman il primo privato del Rè vanta le sue immense ricchezze, la sua copiosa, e honorata famiglia, si pregia d’un ben numerosa prole, della benevolenza della fortuna, e di tutti i suoi reali favori, e poco meno che col dito tocca il cielo, è dal Rè condannato a morte. E Mardocheo, che di già haveva il laccio al collo, vestito ad un tratto di reali vestimenti posto a cavallo sopra la regia mula, cinto d’aurea corona il capo, condotto per le più principali, e frequentate strade della città, menandosi avanti a guisa di un staffiero a piedi il superbo Aman, che d’ordine del Rè andava gridando ad alta voce. Hoc honore condignus est quemcumque Rex voluerit honorare. c Di questo honore è degno colui, che il re vorrà honorare. Oh Dio? E che subita, e mostruosa mutatione è questa? Questo è il costume di Dio. Facile est enim in oculis Dei, subito honestare pauperem. d Come dice l’Ecclesiastico. Poiche è cosa molto facile negl’occhi di Dio, honorare subito un poverello. Mardocheo essendo già vicino al patibolo, è innalzato fino al Trono Reale, e Aman già vicino al Trono, è alzato in un patibolo. Così và, Amano mio. La casa, che tu havesti fabricata al tuo nemico, habitala tu: la forca, che havevi drizzata a Mardocheo, pigliatela tù, e adornala della tua persona. Con tanta severità suole Iddio castigar coloro, che non pensano a portar la croce, ma di volervi mettere i loro nemici: Così la sorte subito si cangia: così si leva il coltello dalla gola, così si leva dal collo il laccio: E Mardocheo sopravive pure al suo carnefice Aman, che ad ogni modo il voleva morto.
Per tanto amiamo la Croce, e siaci pure imposta da chi si sia, non la rifiutiamo. Poco importa se sia grande, ò picciolo; se Signore ò servo quel, che ci travaglia. Importa bene chi glie ’l comanda, ò glie ’l permette. E veramente ch’è dura cosa l’esser travagliato da chi meno l’aspettavi; nondimeno tutti i più santi huomini, che vi siano mai stati, hanno patito spesso questa sorte di miseria.
Giob, e Tobia burlati dalle lor mogli, e da i lor parenti villanneggiati, e ingiuriati, non dissero mai ad alcun di loro alcuna ingiuria, o villania. Il nobilissimo martire S. Ignatio, ubidì a diece Leopardi: perche essendo menato d’Antiochia a Roma l’havevano in guardia loro diece soldati, i quali si portavano con lui, non come huomini, ma a punto come dieci veri Leopardi, che quanto più bene lor faceva, tanto più se gli mostravano crudeli. Ma non per questo si spaventò S. Ignatio. Nam iniquitas illorum (disse egli) doctrina mea est. Perche la loro malignità mi serve d’ammaestramento. Così apunto sono i nostri nemici, sono maestri nostri; e benche non vogliamo c’insegnano di molta sapienza. Ne direi male s’io chiamassi Orefici i nostri nemici, perche ci fabricano, e ci lavorano corone, non già di gemme, e oro, caduche, e frali, ma si bene celesti, e immortali.
La onde noi diciamo bene, che la croce s’hà da portare, da qualunque ce s’imponga. Le quali cose tutte concludo con S. Agostino, il quale dice: Non tibi videantur felices, qui florent ad tempus. Tu castigaris, illis parcitur: forte tibi castigato, et emendato filio haereditas reservatur. Evigila ergo in hanc vocem. Dominus dedit, Dominus dedit, Dominus abstulit; sicuti Domino placuit, ita factum est. Sit nomen Domini benedictum. Iniusti erant qui iuxta Iob putrescentem sedebant: et tamen ille suscipiendus flagellabatur, illis puniendis parcebatur. Deus iudicio suo reservat omnia: Boni laborant, quia flagellantur, ut filii: mali exultant, quia damnantur ut alieni. Saevit quidem inimicus, sed non proficiet in eo. Quid est ergo, quod affligit? Exercebit, non nocebit. Proderit saeviendo, quia in quos saevit, coronabuntur vincendo. Quid enim vincitur, si nihili contra nos saevit? Aut ubi adiutor noster Deus, si nos non dimicamus? Inimicus ergo faciat, quod suum est: sed non proficiet inimicus in eo. Non ti paia, che siano felici coloro, che per qualche tempo fioriscono. Tù sei castigato, a quelli si perdona; forse, che per te, che sei figliuolo castigato, e emendato si riserva l’heredità. Svegliati dunque, e dì così: il Signore me lo diede, il Signore me lo tolse: si è fatto, com’è piaciuto a lui: Sia benedetto il suo santo nome. Quelli che sedevano appresso l’impiagato Giob erano huomini cattivi; e nondimeno egli, ch’era l’amato, era flagellato, e a loro, che havevano ad’esser dannati si perdonava. Iddio si riserva ogni cosa per il tempo del Giudicio: i buoni travagliano, perche sono flagellati, come figliuoli: ma li cattivi stanno in festa, perche hanno da esser condennati come estranei. Incrudelisce bene il nemico, ma non guadagnerà niente con lui. Che cosa dunque è quella; che afflige? L’essercitarà, non gli farà danno. Gli giovarà con l’incrudelirsi, perche quei contra de’ quali s’incrudelisce, vincendo saranno coronati. Che cosa dunque si vince se non habbiamo cosa alcuna contraria? O pure, dove ci aiuta Iddio, se noi non combattiamo? Faccia pur dunque il nemico ciò, ch’egli vuole, che con lui non farà guadagno alcuno.
Perseveriamo adunque con patienza: perche quanti più supplicij, e pene si patiscono; tanto sarà maggiore il premio, e la gloria, che s’acquista.
a Esth. c. 13. v. 1 & seq. b Esth. c. 5. v. 11 c Eccles. cap. 11. v. 23. d Augustin. tom. 8 in psalm. 70. e Et in psal. 91. f Aug. in psal. 88. ad finem.