Novelle lombarde (Cantù)/Di varie feste

Di varie feste

../La festa dei Canestri ../Agnese, o la veglia di stalla IncludiIntestazione 28 novembre 2013 100% Racconti

La festa dei Canestri Agnese, o la veglia di stalla

[p. 221 modifica]Sulla predetta e su altre feste lombarde ragionò altrove l’autore, e noi crediamo piacerà il trovarne qui le descrizioni.

L’editore.



.... Devote rappresentazioni tuttavia si ripetono lungo il lago di Como. Tra esse va distinta quella del Mistero, che si usava alla famosa isola Comacina. Povero scoglio, che in un quarto d’ora si gira tutto, non pare a credere che un giorno fosse il ricovero degli Italiani assaliti da stranieri, o di questi padroni stranieri che fuggivano colà dal flagello di novelli invasori. Or bene, a quella, il giorno del Battista traeva un mondo di barchette ben in addobbo; ed una meglio dell’altre, chiamata la Scorribiessa, nella quale venivano gli attori d’una scena, dove atteggiavansi al vero un anno la nascita, l’altro la decollazione del Precursore. Sullo scadere del secolo passato faceasi ancora con tutte le solennità, che a poco a poco s’andarono smettendo da un secolo che, col pretesto della serietà, dimentica tutto ciò ch’è caratteristico, e spesso anche ciò che è nazionale. Ora in quel giorno più non si fa che circuire l’isolotto in barca, processione diversa dalle consuete, ove i canti del clero e le litanie del popolo echeggiano festivi dalle montagne di Lezzeno e di San Benedetto.

Sulle sponde del lago stesso e di quelle di [p. 222 modifica]Lugano (i nomi, i costumi e molt’altre ragioni provano la comune origine degli abitatori di quelle rive) è un giorno fra l’anno, nel quale si celebra quasi in ogni borgata la Festa dei canestri. Compiuti i vespri, il prete si cala dall’altare a ricevere i doni che le donne, e singolarmente le fanciulle, vengono a presentare. E i più sono canestri con offerte di vario genere, chi fiori, chi frutte, secondo la stagione, una de’ pesci, l’altra focacce o una ricotta: chi porge un pollo, chi due colombi, chi un fazzoletto: questi reca vino fumoso in fiasco vestito di sala; quegli un par di ceri, altri un agnellino o cacciagione: ed è una gara di mettere ogni cosa a galani, a fiocchetti, a vezzi, il meglio che ciascuna sa. Il piovano riceve i regali, benedice alla offerente, e come sono raccolti tutti, si mandano all’asta a pro della chiesa. Qui il puntiglio e la galanteria a gareggiare: i meglio stanti hanno cura di ricuperare a qualunque costo quel ch’eglino stessi offerirono: i giovinotti, intesi a ben meritare dalle forosette, hanno posto mente a qual cosa sia stata offerta da quella di cui bramano la predilezione: nè crederebbero potere spendere il denaro meglio che coll’alzarne il prezzo dell’incanto, finchè venga ad essi liberato l’oggetto, impreziosito dalla mano che l’offrì. L’erudizione vada a paragonarle alle Panatenaidi, alle Coefore, a che altre so io classiche festività: quanto a me, quel gioire, quel ringalluzzarsi, le occhiate, i trionfi, i dispetti di quelle gare, quante volte m’imbattei a vederle, mi destavano ad un tripudio, ben più sereno che le allegrezze cittadine.

Del cantone svizzero del Ticino altri particolari [p. 223 modifica]riti potrei ricordare. Per esempio de’ ragazzi che il giovedì santo fanno colà, come qui, un baccano colle raganelle; e quando una zitella si fa alla chiesa, le sono incontro, più numerosi e fragorosi quanto essa è più bella e rinomata, coi crepitacoli accompagnandola fin alla soglia del tempio.

Ora non più, ma dai vecchi ho inteso con quanta allegria, l’ultimo del carnevale, solcano i popolani di ciascun Comune raccogliersi sulla collina più aprica e vistosa del contorno, ove ad alto palo sospendevano un festone di zucche piene di vino; e finchè il dì non morisse, la scialavano ballonzando e cantando Viva l’allegria e Roma santa. La festa del Majo celebrano così. L’ultima notte d’aprile le forosette si fanno insieme, e di terra in terra van sotto alle finestre de’ principali vicini cantando al violino o alla zampogna le loro cobole rusticane. Un tal concerto, fra l’amico tacere d’una bella notte di primavera, fra quel tumulto d’affetti che suol destare la rinnovantesi stagione, va ben più al cuore che non le studiate armonie de’ colmi teatri.

Come poi è il dì, le cantatrici mandano la men timida e non men bella di loro alla busca nelle case festeggiate la notte; e del raccolto imbandiscono una merenda. Una, colla conocchia ornata di nastri e fiori, va a portar l’invito a chi lo merita: si mangia, si bee, si canta, si salta attorno all’albero che i garzoni piantarono; albero che, per rito, deve essere rubato.

Di simili serenate ho inteso più volte risonar le colline di Brianza nel fitto verno; quando la sera garzoni e fanciulle, usciti dalla stalla ove fanno la veglia, salgono a cantare Gennajo dalla buona [p. 224 modifica]ventura, augurando mariti pel vicino carnevale. In Valtellina poi a marzo entrante i fanciulli van girellone per le campagne, incioccando campanelle, quasi risveglino la natura dal lungo torpore.

Non nella sola Lombardia è sacra la notte di San Giovanni. In Germania, in Inghilterra rammemora il prisco culto, con cui celebravasi il sole adulto; ma da noi non allude che alle tregende e alle versiere, al loro fascino, cui la rugiada di quella notte è possente antidoto. Nel Luganese poi sogliono la mattina di quel giorno, che ivi ancora va feriato, accalcarsi i garzoncelli ai balaustri della chiesa, deponendovi mazzi di fiori, ramoscelli di ginestra e di mortelle, e, a non mancare, alquanti bulbi d’aglio. Cantata messa, il piovano asperge tutto d’acqua santa, e allora è un mezzo accopparsi dei devoti per correre a chi primo ghermisca quelle benedette novellizie. Le donnicciuole serbano a gran cura gli agli, come farmaco d’ogni malattia; dei più bei fiori sapranno ben essi che farne i giovinotti; gli altri si legano ai tralci come riparo dalle intemperie. E quando certe nubi biancastre e, per dir così, stracciate minacciano sterminio ai campi, si corre a bruciare all’aperto di quei fiori, intanto che il sagrestano dà nelle campane alla distesa.

In simil caso ho da noi veduto, tanto una come cento volte, ardere dell’ulivo, benedetto la domenica delle palme: e chi più ne sa di quella sapienza corriva de’ padri nostri, assicura che a mettere sul fuoco di quei rami in forma di croce e, quando ardono, gettarvi tre grani di gragnuola, si assicurano i campi ben meglio che coi pali e le paglie di Tollerd e di Lapostolle. Un altro strano rimedio [p. 225 modifica]è usato in Albozagia, Comune vicino di Sondrio. Quando la stagione corra pericolosamente asciutta, prendono un teschio da un ossario venerato, e lo sommergono in un rigagno, finchè la pioggia desiderata non arrivi. Poichè il rimedio si fa nei casi estremi, di rado l’acqua implorata si lascia aspettare. Vada per la profanazione che dei teschi si fa nella metropoli lombarda, inserendovi nelle occhiaje i polizzini del lotto per trarne augurj.

Di siffatte costumanze antiche più conservò la Valtellina, come quella che meno cangiò dominazioni e, più appartata dal resto d’Italia, è meno sdrucciolevole alle varianze. Colà la prima domenica di quarezima bruciansi numerosi falò, e in mezzo a quelli un rozzo fantoccio, che deve figurare il carneval vecchio. Poi al sabato santo sui campelli (così chiamano il sagrato delle chiese) adunano grandi stipe, le allumano col fuoco nuovo, acceso secondo il rito dal sacerdote; vi fanno gavazze intorno, e ogni famiglia manda a prenderne un caldanino o un tizzo per ridestare il focolajo in casa, lo che si ha per una maniera di devozione. Sacro era anticamente quest’uso, quando si traevano fin da Terrasanta le pietre focaje con cui destar la nuova scintilla; e Firenze e la famiglia Pazzi lo sanno.

Con altre celie ivi si spassano e burlano gli amici; come mandar uno in aprile il giorno di quel mese col pregarlo di recar qualcosa a taluno, o chiamarlo fuori di casa e poi dargli la baja; e così fargli tagliare un nastro o un filo o una carta in quel giorno di mezza quaresima, che i Bresciani (tra altri) festeggiano con un mezzo carnevale, e Parigi con un carnevale intero, più pazzo e più osceno.

[p. 226 modifica]Bizzarro è pure in Valtellina il costume che, all’Epifania, chi primo fra i conoscenti pronunzia una certa parola, guadagna un donativo. Questa parola è Gabinat; e che cosa voglia dirsi lasciamolo indovinare a quelli che cercano qualcos’altro che il giuoco in quegli avanzi di canzoni che ora han perduto ogni senso. Alcuni lo interpretano Rabi è nato: io ho creduto scorgervi le radici tedesche di notte del regalo (Gabe e Nacht); stiracchiatura forse non migliore di quell’altra. Fatto sta che, dai primi vespri fino agli altri dell’Epifania, tu non senti quasi altro che questa parola sonare sulle bocche; ognun che s’incontra la ripete; chi t’entra in casa te la grida; stai pregando in chiesa, e te la susurrano all’orecchio; sei coricato, ed essa ti sveglia di soprassalto; e le burle che accadono, e le malizie, e il travestirsi per sorprendere altri, e il correre di terra in terra, destano tutto quel di un giulivo tumulto, che somiglia al folleggiare. Segue il goder delle scommesse e dei regali, somiglianti alla calza che, il giorno stesso a Roma si riceve dalla finestra1.

Dalla festa dei pazzi, della quale trattarono estesamente il Tillot e l’Allegranza, differisce la festa dei matti o il carnevale delle vallate, che celebravasi fra quei di Bormio, borgata all’estremo della Valtellina. All’entrare del carnevale, la Compagnia dei Matti, composta de’ più solazzevoli popolani, radunavasi nel palazzo della ragione ad eleggersi un re, tolto fra’ più spenderecci del paese. Il quale, sottovestito di bianco, succinto d’una fusciacca di broccato d’oro, sulle spalle un manto di porpora, allato [p. 227 modifica]la spada, in testa il diadema, in pugno lo scettro, montato sur un palafreno sfarzosamente bardato, scorrea le vie del paese fra i battimani. Andavangli innanzi corrieri a piedi, poi una banda di sonatori, indi la brigata dei Matti a cavallo, in foggia di moreschi. A sinistra del re camminava il podestà del paese, il quale doveva per quel giorno cedergli la preminenza e fargli onore.

Sorgeva nella piazza maggiore un tribunale con sedili in giro, ove soleansi tenere le accolte del popolo e il gran consiglio, e dove sedeva il podestà quando pronunziava le sentenze, e quando, spezzando una verga e gettandola al condannato, lo dichiarava reo di morte. In luogo così serio faceva sosta la brigata; e il re dei Matti, sedutosi su quel tribunale addobbato a festa, proclamava le leggi da osservarsi durante il suo reggimento; ed erano di sbandir le cure serie, di non darsi scede del capo, mangiar bene, bever meglio, godere a macco, non badare più che tanto ai creditori, ballare, far all’amore chi poteva.

Chiamatesi poi per assessori le maschere dell’Arlecchino e del Dottore, invitava chi volesse piatire. Allora si facevan innanzi gli accusatori, e qui cominciavano a dirne chi una chi un’altra, rivelando la cronaca scandalosa, e raccontando le venture più bizzarre di quell’anno. Se la modestia nè la creanza n’andassero illese, pensatelo; e pensate che sghignazzare, che batter di mani, che fischiare si faceva2. Questa funzione veniva poi ripetuta i giorni seguenti nei Comuni più grossi del contado, ove il monarca creava un suo luogotenente.

[p. 228 modifica]Le novelle spose doveano pagare alla brigata, secondo lor forze, un tributo di denaro, che dicevasi le spupille: la comunità somministrava da bere; il re apriva festino a tutti, con generose libazioni. L’ultimo giorno poi era consacrato alla polenta. I compagni andavano di casa in casa a raccattare del bello e del buono: del migliore imbandivano a sè stessi un banchetto, che privilegiati gaudenti vi saranno sempre in ogni società di matti o di savj; della farina facevano, in mezzo alla piazza, una enorme polenta, regalata di burro e cacio a josa; e l’Arlecchino col suo battocchio la affettava e distribuiva alla calca; tutto fra uno strimpellare continuo di stromenti, e un assordamento di fischi di urli, di viva.

Ben credete che non a tutti riusciva gioconda quella esultanza: i preti la trovavano immorale; il podestà sentiva andarne di mezzo il suo decoro; i ricchi, cui toccava la volta, non sempre aggradivano quello spendere e spandere in cortesia, o farsi gridare spilorci se ricusavano il carico o mescevano a misura: gli scandali rivelati portavano sdrucci che la quaresima non bastava a rammendare. Da un pezzo adunque si mormorava contro di quest’uso: e infine il podestà grigione Alexander nel 1766 scrisse di buon inchiostro alla Dieta di Coira (Bormio, come tutta la Valtellina, era all’obbedienza dei Grigioni) contro questo vergognoso abuso; essere sprezzevole ed ignominioso all’onor del principe e alla dignità, d’un rappresentante l’andare in quella sì abjetta funzione alla sinistra dell’imperatore dei matti: e chiamava fosse abolito. Come n’ebbero sentore i caporioni della brigata, mossero mari e monti per [p. 229 modifica]impedirne l’effetto; ma convien dire non ungessero abbastanza le ruote in quella Dieta, ove tutto andava per denari, sicchè la festa rimase proibita. Ben si continuarono alcuni anni i balli e la polenta, e mascherate dirette da un capitano della gioventù, finchè la cosa fu mandata in disuso da occupazioni più serie.

In Oga, terra pure del Bormiese, costuma una festa di genere diverso. L’ultima domenica del carnevale, finite le funzioni di chiesa, accolgonsi molti, travestiti da pastori e da montanine; e quali s’attaccano ad un aratro, quali ne dirigono la stiva, e s’incamminano per la campagna con altri dietro, che tengono nella sinistra uno stajo di cenere, colla destra spargendola in atto di chi sementa, poi si danno alle allegrie della stagione. Mi dicevano farsi così in memoria d’un pastore che primo dissodò quelle glebe: altri vorrà forse in queste Palilie trovare rincalzo alle opinioni del Vico sul fuoco onde prima si arsero le selve, ed un ricordo dei tempi, quando i popoli, vicini all’immane loro origine, posero confini ai campi, che riparassero all’infame comunione delle cose dello stato bestiale. In quel paese stesso, a maggio entrante sogliono i garzoni e negli anni bisestili le fanciulle, andar accattando farina, uova, burro, che impastano e brancicano, e col materello spianano in un’ampia sfoglia (tutto al cospetto degli uomini e del cielo), indi accartocciata la sfendono in taglierini, e bolliti gli imbandiscono a pubblico desco.

Lo so anch’io che la civiltà ha ben più sodi, ben più giovevoli godimenti: ma oggi, che il tempo, passando sopra le nostre fisonomie morali, ne va [p. 230 modifica]spianando le ineguaglianze, facendo assomigliare così un uomo all’altro, un giorno all’altro, uno all’altro paese, è pur piacevole, almeno per me, il trovare ancora costumi che richiamino la mente a quel passato, su cui volentieri l’animo riposa in certi momenti, ne’ quali sente vacillare la fede nel presente e la speranza nell’avvenire. Mi si lasci dunque continuare sul discorso di feste, portandoci alla sorella città di Vicenza.

Il vescovo di Liegi istituì la festa del Corpus Domini; dove Urbano IV papa, avendola veduta ordinò nel 1264, fosse celebrata in tutta cristianità; san Tomaso d’Aquino compose per essa l’uffiziatura tanto poetica; il concilio di Vienna...

Eh no, no; sono troppo serie queste notizie per un libro di novelle; sono roba da sacristia; roba di quegli eruditi che facilmente acquistano tal nome collo sfogliare un dizionario. Noi vogliamo divertirci: la qual cosa, come il dispotico governo «è buona per l’estate e per l’inverno.»

Gli è ben vero che il patriotismo vorrebb’essere buzzo, negro, e


          Col capel sulle ciglia e tutto avvolto
          Nel mantel, passegiar coll’armi ascose;

dovrebbe pianger sempre e cantare col poeta del Procida:


          Io vorrei che stendesser le nubi
          Sull’Italia un densissimo velo;
          Perchè tanto sorriso di cielo
          Sulla terra del vile dolor?

ma che volete? Noi ci siam posti in mente che si possa essere, come buon cristiano, così buon [p. 231 modifica]patriota con un po’ di allegria; che giovi coglier le rose, pronti ad affrontare le spine quando imbronchino il cammino pel quale vogliamo arrivare.

Dopo quest’esordio, che calzerebbe ad una predica, dirò sul serio che, se oro avess’io, vorrei, fra tante insulse spese che fanno le accademie e i ricchi, proporre un dono a chi facesse una monografia della Lega Lombarda, con tutti i suoi documenti da una parte, e dall’altra tutte le tradizioni che vi rattacca la memoria popolare, meno dimentichevole che altri non asserisca. In tal caso verrebber fuori e il Pagano di Como, e il Zanin dalle Balle di Cremona, e la Antonia Bonghi di Bergamo; e insieme racconti anche su Vicenza e sulle guerre municipali che son rammentate nella festa di cui voglio parlarvi. Innanzi tutto, pei meno eruditi, io ricorderò che Vicenza è fabbricata sulle ruine di Berga, città perita non si sa quando, ma di cui ritrovansi le vestigia ad ogni po’ che si scavi. E singolarmente è a vedersi il teatro in piazza dei Gualdo, del quale begli avanzi sono deposti nel palazzo Chiericato. Berga, Beriga, Vicenza vogliono dunque dire lo stesso; ma non istate a domandarne il come.

Io non posso che esporvi la tradizione, qual l’ho raccolta da un vecchio al caffè mentre aspettavo la Ruota, il giorno del Corpus Domini, anni fa. Vicenza era caduta in servitù della vicina Padova, quando, sul principio del XIII secolo, risolse di uscire da quel vassallaggio. Verlato e Bissàro, principali cittadini d’allora, convocarono il popolo dalla campagna, e passato il Zocco, allora bicocca munita, ora piacevole osteria che segna il confine col Padovano, assalsero inaspettati l’antenorea città. [p. 232 modifica]Qui mischie e casi che diedero argomento ad un poema; e la fine si fu che i Vicentini riuscirono a prendere il carroccio della nemica.

Chi di voi non sa che il perdere il carroccio era la maggiore sventura che a quelle repubblichette potesse incontrare? Federico II potè torlo a noi Milanesi nella battaglia di Cortenova, e, dopo menatolo in trionfo per tutta Italia tratto da un elefante, il fece collocare nientemeno che in Campidoglio a Roma, dove ancora sussiste la lapide, che rammenta non tanto la sua vittoria quanto la sua paura.

I Padovani dunque raddoppiarono di valore per recuperare quel pegno, ma non poterono impedire che i nemici (nemici italiani, pur troppo) se ne portassero via una ruota. Questo trofeo equivalse alla secchia dei Modenesi.

     Vinceano i nostri; su grand’ale pronte
Fama intorno volò di quella gloria
Dal mar d’Atlante alla foce d’Oronte,
     E la Ruota, del fatto alta memoria,
Parlante insegna del bergeo valore,
Il carro precedea della vittoria,
     Quando, tra i plausi e’l popolar clamore,
A Vicenza tornava festeggiante
Il nobile drappello vincitore:
     E fu tanta la gioja in quell’istante,
Vista la fine del lungo cordoglio,
Del Betrone soave-mormorante,
     Che tal non era il gaudio e’l fiero orgoglio
Del Tebro allor che i barbari sconfitti
Trasse Cesare o Scipio in Campidoglio.
     E qual Roma solea tener iscritti
In bianca pietra i fortunati eventi,
Ed in nera segnare i giorni afflitti;
     Così, futura memoria alle genti,
Volle pur Berga che da noi si mostro
La Ruota ogni anno fra lieti concenti.

[p. 233 modifica]L’arma dei Bissàri primeggia infatti sugli ornamenti della Ruota, e Viva casa Bissàro è il grido che le si fa intorno; e poichè spesso in Italia si chiama amore l’odio, amor di patria parve il persuadersi che questa festa ricordasse la vittoria sopra Padova, quando i fratelli ebbero ucciso i fratelli. Io però, uom di pace, ho delle objezioni contro le origini della Rua; e tengo piuttosto venga da quelle pompe in cui, sui finire del medioevo, piacevansi tanto le corporazioni d’arti e mestieri; e questa solennità fosse non di guerrieri, ma del preciso opposto; della razza più placida e men battagliera; insomma de’ notaj.

Impazzirebbe chi dovesse rispondere ad uno di quegli eruditi dagli occhiali, che da per tutto vi domandano le prove, che pretendono nella storia la certezza della matematica. E attesochè il nostro secolo del progresso ha inventato l’eclettismo e il juste milieu, si potrebbero conciliar le due opinioni col dire che la festa a principio era patriotica e guerresca; dappoi fu convertita in compagnevole e notarile; un giorno forse diventerà sociale e umanitaria, e simbolo del tempo e dell’idea.

Uno che a me vuol bene ha avuto la pazienza che spesso fo subire a’ miei amici, di cercar per me l’archivio di Vicenza, e m’ha messo in grado di produrre qui le notizie che risguardano la Rua. Pertanto ne’ Libri-Registri delle sedute, atti e deliberazioni del collegio notarile di Vicenza trovasi:

1441, 15 marzo. Si propone di eleggere quattro notari, i quali debbano immaginare qualche cosa bella e venerabile per celebrare la festa del Corpus Domini. — 16 settembre. Vengono nominati [p. 234 modifica]all’oggetto suddetto li quattro notaj Cristoforo Muzan, Giovanni da Castelnuovo, Nicolò Paglierini e Donato Sale.

1442, 15 gennajo. Viene stabilita la spesa da incontrarsi in onore e per la celebrazione della festa del Corpus Domini, in soldi dieci per ogni candelotto di ciascun gastaldo, consigliere e sindaco che intervenirà alla detta festa. — 9 aprile. Viene deliberato che, per celebrare la festa del Corpo di Cristo, li suddetti quattro notaj eletti abbiano la facoltà di far eseguire le immagini di Maria V. e di san Luca con quattro angeli a norma del disegno di maestro Giorgio pittore, già prodotto al Capitolo notarile, e che possano spendere fino a ducati 40.

1444, 14 gennajo. Viene deliberato che Nicolò Almerico, Cristoforo Muzan, Giovanni da Castelnuovo, Gabriele di Ridolfi e Giacomo Ferretto, eletti pel culto, ornamento ed aumento della festa del Corpo di Cristo, debbano liquidare i conti con maestro Giorgio pittore per la fattura della Ruota, e per altri ornamenti dal medesimo Giorgio fatti; che debbano tosto soddisfarlo se risulterà creditore, e se fosse debitore, costringerlo quanto prima al pagamento, oppure all’esecuzione di tanti lavori in aumento del culto della festa.

1445, 10 marzo. Si propone che siano eletti tre o quattro notaj per onorare la festa, a condizione che la Ruota sia costruita in modo che non sia pericolosa, e che non sia speso oltre a lire 50.

1450, 15 maggio. Si espone che, essendo necessario fare la rappresentazione della Ruota in venerazione della solennità di nostro Signore Gesù Cristo prossima futura, e che molta spesa occorrendo per [p. 235 modifica]l’ornamento della medesima, fosse deliberato se si dovesse o no fare, e con quali spese viene deliberato che, secondo il solito, si faccia la Ruota in onore e riverenza della solennità di nostro Signore Gesù Cristo e colla spesa di ducati 4 solamente. Molte altre consimili proposizioni e deliberazioni si leggono a tutto l’anno 1479.

1483, 16 gennaio. Considerando il collegio notarile che l’edificio della Ruota che si fa nel giorno della processione del sacratissimo Corpo ci Cristo, piuttosto che accrescere la divozione delle oneste e divote persone che vi intervengono, la diminuisce; che l’edificio medesimo, attesa la sua vetusta minaccia ruvina, che è pericoloso ai fanciulli che vi ascendono, e che vi vorrebbe una grandissima spesa a ristaurarlo, delibera che, in luogo dell’edificio della Ruota, sieno portati in processione 100 ceri da tre o quattro libbre l’uno».

In appresso si fece novamente la Ruota.

1519, 13 maggio. Si prende parte di deliberare la costruzione della Ruota per anni quattro a Giuseppe marangon, il quale l’aveva eseguita anche nell’anno decorso, ed assume in quest’anno di aggiungervi quattro cavalli ed altre cose nuove e belle per onorare la processione del Corpus Domini».

Altre parti e deliberazioni si leggono in appresso fino all’anno 1581. 8 settembre, nel qual giorno il collegio notarile deliberò di sospendere per anni 5 la costruzione della Ruota, attesa la mancanza di fondi per le spese sostenute in varie liti, e per le offerte di denaro fatte al veneto dominio in tempo di guerra.

Da tale sospensione insorse lite, sembra fra il [p. 236 modifica]comune di Vicenza e il collegio notarile, volendosi obbligare quest’ultimo alla costruzione della Ruota; ma la causa venne decisa in favor del collegio. Nel 1585, 19 dicembre, nel consiglio dei cento della città di Vicenza venne proposto e deliberato che, per l’avvenire, ogni anno, a spese della città, nel giorno del Corpo di Cristo, si debba fare la Ruota, secondo l’antica consuetudine, con l’arma del comune, e che si devano spendere ducati 50; il che venne eseguito e continuato fino a’ nostri giorni.

M’avvedo d’essermi aguzzato il palo sui ginocchi, avvegnachè ciò dimostrerebbe che la Ruota, la vera e genuina Rua d’oggidì, non è poi così antica. E per gli antiquarj come pei pedanti, ciò che non è antico non è buono. Ma per noi, dico noi popolo che gli antiquarj e i pedanti chiamano vulgo, che c’importa a noi se sia antica o no questa bella follia? Ben siamo lieti di poter dire che una poetessa la tolse a soggetto d’un’epopea3 che comincia:

          Canto d’eccelsa mole a parte a parte
     Le variate forme e gli ornamenti,
     Che innanzi non fur scritti in altre carte;
          E i pazzi giochi delle accorse genti,
     Che vengono a città d’ogni paese,
     Come un tempo alle giostre, a’ torniamenti,
          E l’arme, i cavalier, le audaci imprese,
     Che furo al tempo che tornar s’udiva
     Tra Padoa e Berga il dio delle contese.
          O Musa, tu, che d’Ippocrene in riva,
     Colla gran secchia in man beendo a josa,
     Godi sonar di Modena la piva,

[p. 237 modifica]

          Questa volta non farmi la ritrosa,
     Ma sonoro m’accorda il ribechino,
     Che storia ho da narrar meravigliosa
          E perchè il libro non ho di Turpino,
     Oggi del tuo favor tanto mi dona,
     Che non rimanga a mezzo del cammino.

Ma non v’è poesia che valga quella che si presenta a chi si trovi a Vicenza, e in una giornata di maggio, splendida di sole, quando dalla berica pendice e dalla ubertosa pianura accorrono tutti i popolani a veder la festa; mentre dai palazzi più belli che l’Italia vanti, fanno pompa di sè donne tante vaghe e spiritose come sono le vicentine, ornate di tutta la squisitezza d’addobbi, di cui vuol far mostra una classe che, qui più che in qualsivoglia altra città veneta, ama sfoggiare ricchezza nelle case, nelle carrozze, nel teatro, nel vestire.

Ammiriamole di lontano; ma noi che siam popolo noi mescoliamoci alla folla e facciamoci in prima su quella piazza stupenda, ove campeggiano due colonne che si direbbero orientali, eppur vengono dalle cave vicine del Chiampo, ed emulano le favoleggiate della piazzetta di Venezia; poi il palazzo pretorio; poi la gran fabbrica del Monte di Pietà, opera di Giovan Battista Albanese vicentino, come l’interposta chiesa di San Vincenzo, ove sta pure la biblioteca, povero disegno del Mattoni.

          Mira il vago contrasto de’ sorgenti
     Edificj d’intorno, il vario stile
     Di forme, di comparti, d’ornamenti.
          Vedi la torre, lavoro gentile
     D’allor che giacque Italia all’insoave
     Giogo de’ Goti inonorata e vile.

Mira quella famosa basilica che è uno degli insignissimi monumenti della vita comunale italiana:

[p. 238 modifica]

          Opra d’Andrea, miracolo dell’arte,
     Sovra adatte colonne a cento a cento
     In doppio d’archi e logge ordin si parte.
          Marmoreo d’ogni intorno è il monumento,
     Tal che Grecia al fiorir di sua stagione,
     Non vide più magnifico portento;
          Nè più industre arcuato padiglione
     Sull’aventino e l’esquilin cacume
     Copria l’aureo palagio di Nerone.

Se non temessi il titolo di barbaro, direi che avrei amato assai veder la prisca forma gotica di quell’edifizio, più che quell’esuberanza di colonne, che fino a sette si ammucchiano sugli angoli. Il grandioso salone giaceva abbandonato e nido de’ vipistrelli, quando l’amor patrio spinse i Vicentini del 1832 a riparare il gran coperto con nuove lastre di rame.

Quivi daccanto si congegna la Rua. È essa un gran castello di legno, alto venti metri, cioè come le case, e a varj palchi, sui quali stanno persone di carne e cavalli di legno; e in cima la figura della Giustizia, simbolo incontradetto dei notari, e più su ancora un banderajo; e sotto altre virtù, s’intende simboliche, che le vere non amano mettersi in mostra: e poi cavalli e cavalieri, avanzo dell’antico trionfo, e sonatori. Campeggia nel mezzo la Ruota, da cui la macchina trae il nome, a spintoni girata continuamente, e in essa seduti ad equilibrio alcuni fanciulli che gridano e sventolano pennoncelli. Tutto poi è a stemmi, a svolazzi, a banderuole di colori permessi e di proibiti.

Alcune ruote, o palle di bronzo, o curli potrebbero ajutare a muover questa mole, che dee fare il [p. 239 modifica]giro per la città. Ma no; il popolo è qualche volta come gli eruditi e i poeti; si ostina dove c’è il difficile. Tutto quel peso dunque dovrà essere spinto a strascico sul ciottolato, che non è la parte migliore della città. Ben potete immaginare che nè dieci nè venti persone bastano: settantadue facchini sono a ciò destinati; ma se v’aggiungete i dilettanti, passano il centinajo le persone che, dentro per l’interzatura delle travi, e dietro e a fianchi, danno la spinta a quella mole, sudati, trafelati, gridanti, urlanti.

La mattina, come in tutta cristianità, si fa la processione del Sacramento, ne’ soliti modi; se non che qui tengono del pittoresco ancora il fasto delle divise dei bidelli e mazzieri delle confraternite, e l’addobbo delle donne colla tovaglia in capo.

Dopo la devozione viene la scena, e sull’ardore del tocco dopo mezzodì esce la Ruota. Al cenno d’un capo, i facchini danno l’urto, e la macchina si muove, e va e va strisciando sul pavimento, in modo che presto s’infocherebbe ove continuamente non vi si gettasse acqua. Spintala così quanto dura il fiato, s’arrestano dinanzi alle case principali: quelle cioè dove ci stanno le autorità, e più caramente quelle i cui padroni hanno l’attenzione di aver preparato alla porta una refezione e qualche secchio non d’acqua. Allora rinforza la musica che accompagna la Ruota; e i facchini, che diresti ammazzati dalla fatica, si ricreano all’ilarità del vino; e rinvigoriti mettonsi a ballonzare stranamente e sguajatamente, e il popolo circostante raddoppia gli applausi, e Viva Vicenza, viva la Berga, viva casa Bissàro, e intuonano una canzone...

Un critico che Dio ha chiamato a sè, fra gli [p. 240 modifica]altri sottili appunti che faceva ai Promessi Sposi, notò pure il non avere Manzoni prodotto quella canzonaccia che cantavano i monatti. Stante che nessuno per piccolo o povero che sia, può tenersi sicuro di non cadere in mano degli assassini e dei critici, noi non vorremmo che, se simile gloria toccasse al presente racconto, avessero ad appuntarci di misfatto simile; e perciò per un soldo abbiamo comperato la canzone, in decasillabi come i ditirambi patriotici, e ne facciamo regalo ai lettori.

     Giubilanti ti stiamo d’intorno,
          Mole immensa d’antico valore;
          Si ripeta l’evviva in tal giorno
          Ch’è inebbriante di gioja ogni core.
     Sia di Berga, sia eterna la gloria
          Nè in oblio mai si ponga l’onore,
          Ed ai posteri cara memoria
          Sta per loro l’immenso splendore.
     E noi figli d’illustri campioni
          Su concordi innalziamo un evviva,
          Che le grida festose risuoni
          D’ogni intorno alla berica riva.
     Viva, viva ed evviva la festa;
          Viva, viva di patria l’amore,
          E all’evviva ognun si ridesta,
          Sia palese la gioja del core.

Se le parole non han l’approvazione grammaticale, se i versi non rispondono tutti all’orecchio e alle dita, da galantuomo non è mia calunnia; e quando i posteri la troveranno, gli eruditi sentimentali d’allora ammireranno questa canzone popolare, e la sua ingenuità, e il sentimento patriotico anche sotto al dominio straniero, e tutte quelle bellezze che i critici trovano dove vogliono, come trovano dove vogliono diffetti ed errori, dovessero pure inventarli.

[p. 241 modifica]

Poc’anni fa si facevano vere maschere, come alla mezza quaresima a Parigi; ma si trovò strano mascherarsi pel Corpus Domini, e ormai non v’è più che qualche devoto della tradizione, che viene con un naso, o con una sottana a rovescio, o camuffato da mandriano. Soleasi anche far in questo giorno la corsa dei barberi, ma poichè non andava anno senza disgrazia, ne fu espresso divieto il 1843. Un pò pò che vada, il divieto superiore o la serietà pubblica darà bando anche alla festa della Rua: onde, non fo per dire, ma dovete saper grado a chi ne tramanda la memoria ai gravi nepoti.

E dico seguitando che la Ruota, spinta e spunzonata a questo modo, traversa l’angusto calle di Muscheria, con una maestria veramente portentosa, e alla quale dan lode mille applausi. Preso allora il largo dove stanno la bellissima cattedrale e l’episcopio venuta alla piazza del castello, rallegrata dal teatro e dal casino, e all’arco che mette al lietissimo Campo Marzio, la Ruota s’avvia pel corso, a più elegante via d’Europa, chi non conti per tale il Canal grande dell’incomparabile Venezia: potendo dirsi una continuità di palazzi dalla piazza del Castello sino quella dell’Isola; opere di Vincenzo Scamozzi, di Ottone Calderari, di Andrea Palladio, che per appariscenza fanno vergogna agli edifizj moderni, quanto questi vincono quelli di comodi ed opportunità. Fiorite, tappeti, quadri, una bellezza di cento cose è esposta; non v’è finestra che non sia rinzeppata di teste, non terrazzo da cui non campeggino sciarpe ricchissime, finissime piume, vivacissimi occhi e per tutto la turba intorno fluttuante

[p. 242 modifica]

          Urla, grida, schiamazza ebrifestante,
     Nobil, plebeo, vecchi, fanciulli a torme
     Vanno e tornan più volte....
          Non è vergogna star fra’ pazzi avvolte,
     Anzi sembra che il savio si canzoni,
     Ed abbia laude il bizzarro e lo stolto.

Così ritorna la Ruota verso la piazza, e.

          .... a prender lena,
     Lo sparto condottiero a poco
     In fra le due colonne il corso affrena.
          Il popolo trabocca d’ogni loco,
     Sì la gran piazza n’è ripiena e folta,
     Che il vasto spazio a contenerlo è poco.
          L’innumerevol turba quivi accolta
     Va, gira, torna, ondeggia, si rincalza,
     Spingesi alle muraglie e si rivolta,
          Qual mar ch’or l’onde abassa ed ora innalza,
     Del vento in signoria che lo scompone,
     Serpe, rôta, spumeggia, urta, trabalza.
          Ma per l’ultima volta omai si pone
     La Ruota in corso, e al loco onde partio
     Fra maggior plausi e grida si ripone4.

[p. 243 modifica]Or dalla gentile Vicenza tornando a Milano, che non sa come, nel tempo passato, chiassosi, dispendiosi, spettacolosi correvano i carnevali? le storie [p. 244 modifica]non sanno dir altro che quelli di Firenze, di Roma, di Venezia, di Verona. Non venga qualche muso buzzo, tono elegiaco, a ricantare che ora non si [p. 245 modifica]ama più il divertirsi; che il nostro anno ha perduto la primavera, e la nostra primavera le rose, che, entrata quella, per non dir altro, benedetta manìa [p. 246 modifica]del pensare, più non amiamo gli spassi matti de nostri padri; che l’età nostra è fatta seria, [p. 247 modifica]calcolatrice, meditabonda; e fin i giovincelli hanno ora una gravità da nonni, mentre fino i nonni bamboleggiavano nel buon tempo passato.

Che! che! le son celie codeste, le sono menzogne. Bisognerebbe assistere al teatro alla Scala, e vedere una folla, una vera folla applaudire con entusiasmo, simile a quello dei Greci allorquando Fiaminino annunziò ad essi che il popolo romano li lasciava liberi ancora; quando il rombazzo fu tale che l’aria si aperse, e corvi che volavano disopra caddero belli e asfissiati; avvenimento della cui realtà io non mi vo’ prendere briga coi fisici, bastandomi che egli è attestato dal giudizioso Plutarco.

Or dico io, in Milano si contano oggi ben undici teatri, aperti quasi tutto le sere di tutto l’anno, e abbastanza frequentati. La Scala poi ha rinomanza «per tutto il mondo e in altre parti»; ha un’importanza anche civile, a segno che il Governo austriaco, non avvezzo a sprecare, gli dà ben 240,000 lire di dotazione.

Aggiungete che tutte le città del milanese hanno un teatro; che ha teatro qualche altra cittadina, e fin borgate, e fino paesucci.

E direte che siamo serj e che non amiamo più di divertirci? o forse l’amavano di più i nostri padri? Ebbene, bisogna sapere (credetelo a me, che pur troppo sono cresciuto in mezzo a persone viventi a quel tempo), che nell’ultimo quarto del secolo passato in nessuna delle città principali v’era ancora teatro, e quando si cominciò ad aprirne qualcuno, i predicatori non rifinivano di esclamarne. Quelli poi che s’apersero allora servivano per lo più soltanto ai nobili. In Milano stesso non v’avea [p. 248 modifica]teatro, fin quando i nobili ne fabbricarono uno, detto il Teatrino, all’estremità del palazzo di Corte, per festeggiare l’ilarità (diceva l’epigrafe latina) che rinasceva sotto un ottimo principe. Cito questo teatro, primieramente perchè quel nome si conserva tuttora a quel che fu poi eretto al suo posto; e perchè vi si adottò l’uso dei palchetti, veduto primieramente nel San Giovanni Grisostomo di Venezia; uso che poi divenne comune in Italia, per quanto ne strillasse il Milizia.

Andato esso teatro, nel 1776, a quella fine cui tutti sembrano destinati, cioè l’incendio, si pensò erigere il magnifico della Scala, e quello della Canobbiana, che si apersero nel 79 e nell’80. Dapprima non si teneano aperti che a vicenda; anzi era espresso obbligo che, quando in uno si rappresentasse, verun altro spettacolo potesse darsi, per non defraudare la concorrenza a quelli.

Questo mostra che scarsa era l’affluenza: ora invece sono aperti entrambi quasi tutto l’anno; o, a più propriamente parlare, nel carnevale, che va dal giorno di santo Stefano sino al 20 marzo, devono darsi alla Scala un’opera seria, scritta a bella posta, e delle altre opere una esser nuova per queste scene; de’ due balli grandi averne almeno uno affatto nuovo, oltre due altri comici o di mezzo carattere. Nella stagione di primavera, che va dalla seconda festa di pasqua a tutto giugno, l’impresa non è obbligata che a dar rappresentazioni drammatiche con un ballo di mezzo carattere in qual sia dei due teatri. Nella stagione autunnale, che corre da settembre a tutto novembre, devono esservi almanco tre opere con due balli. Allorchè la [p. 249 modifica]Scala è aperta, l’impresa appalta a compagnie la Canobbiana, che così non resta vacante.

E chi non gli basti, ha altri teatri, con opera, con drammi e commedie, con fantoccini. Ora io non so che a teatro si vada per fini serj, per meditare, per calcolare. Si va a distrarsi, a vedere, a farsi vedere, a chiacchierare, a malignare, a ridere, anche a piangere, se volete, ma di un piangere estetico: est quœdam flere voluptas.

Avevano tutto ciò i padri nostri? Gnor no; e adunque il più ch’io possa concedere ai piagnucolanti è, che si cangiò la natura de’ divertimenti. Gente che va tutte le sere a teatro, che là ha le sue conoscenze, le sue visite, le sue relazioni, i suoi affari tragici e gli affari comici, domando io come può aver voglia e tempo da pensare a far una mascherata. Che alla fin dei fini, alla mancanza di maschera si riduce questa nostra proclamata serietà. E per vero su qualche capitolo concedo anch’io che il gusto se ne smette ogni giorno; ma non vorrei che chi sta in quella città più seria, per esempio Torino, credessero fossero scomparse affatto anche a Milano.

Tutti sanno che gli antichi celebravano i Saturnali, feste dove rammemoravasi la prisca libertà italiana, quando, non vi essendo dominazione di forestieri, non v’avea per anco padroni e schiavi. Il povero e il ricco, il patrono e il cliente, il servo e il padrone vi si consideravano eguali, si servivano a vicenda, e per esser meno distinti, cambiavano abito, trasformavano il viso, e in tal modo era perfino lecito ai poveri e ai deboli dire la verità ai ricchi e ai forti.

[p. 250 modifica] Da tali feste derivano i nostri carnevali; nome bisbetico, sulla cui etimologia straniarono sapientoni di gran calibro. Vogliono alcuni dedurlo da carnis levamen o da carne vale, come sarebbe a dire addio carne, giacchè dopo quel giorno cominciavasi l’astinenza quaresimale, ristretta allora a cibi magri. Altri han riflesso che i monaci e i divoti nell’ultima settimana di carnevale asteneansi già dalle carni, per compensare colla propria penitenza lo sfarzoso scialare dei più: laonde la settimana di sessagesima dai Greci è detta αποκρεας, e dai Latini talvolta carnis privium; e in messali spagnuoli trovasi quella domenica intitolata ante carnes tollendas, donde il nome carrastollendas, che in Ispagna significa il carnevale. Altrove si trova scritto carnem laxare, da cui carnasciale, che alcuno invece vorrà derivare da carne scialare, cioè dal preciso opposto significato; caso che non rado incontra in fatto di etimologie.

Il carnevale di Milano ha questa particolarità da tutti gli altri del mondo, che dura quattro giorni di più, cioè sino alla domenica di quadragesima, e chiamasi il carnevalone; sempre maggiore facendosi la festa, la fiera, la concorrenza alla nostra città in questo secolo delle gravi cogitazioni. Al tempo di sant’Ambrogio, al quale noi Milanesi riferiamo il nostro rito, pare provato che i giorni del digiuno preparatorio alla pasqua dovevano essere quaranta; e poichè n’erano eccettuati i sabbati e le domeniche, forza è cominciasse il lunedì di sessagesima. Forse allorchè si prese a digiunare anche il sabbato, e nella diocesi nostra anche i tre giorni delle rogazioni, se ne sottrasse la prima settimana, e un pò per abuso, un pò per

[p. 251 modifica]connivenza, venne a prolungarsi il carnevale fino alla prima domenica di quaresima inclusive. In questa, già ai tempi di san Carlo, Chiesa santa cantava l’alleluja, e il mondo profano continuava le gavazze carnevalesche. Esso san Carlo fece ogni suo potere per togliere quest’uso dello schiamazzar le domeniche, e in un editto del 1579 si lamentava fossero violate e profanate con giostre, spettacoli, tornei, mascare, balli e dissoluzioni che ne seguono le santissime domeniche di settuagesima, sessagesima e quinquagesima, e che duranti le sacre funzioni della stessa domenica di quadragesima si turbasse la devozione con tamburri, trombe, carrozze di concorso, gridi e tumulti di tornei, correrie, giostre, mascherate ed altri simili spettacoli profani.

Dàgli e dàgli, quel santo, pertinace come bisogna essere per ottenere il bene, riuscì a far rispettare la domenica di quaresima, ed oggi le maschere più non escono quel giorno se non la mattina di bonissima ora quando tornano dai teatri a casa. Ma in quella vece si vuol fare un corso magnifico. E corso chiamano a Milano lo sfilare delle carrozze dalla piazza del Duomo verso gli spaldi di porta Orientale, poi lungo questo fino alla porta Nuova ed oltre. Chi le contò, ha trovato che a Milano vi sono duemilacinquecento carrozze; ed anche forestieri sprezzanti ho veduto io ammirar quel complesso di spendidi equipaggi e di sceltissimi cavalli, qual certo non offrono neppure i Boulevards e i Longchamps di Parigi o il Prater di Vienna, dove saranno più numerosi bensì, ma, di vetture da nolo, mentre quì non sono che legni particolari.

Una volta il corso dirigevasi per la Strada

[p. 252 modifica]Marina, «deliziosa piaggia (dice un secentista) cinta per ogni lato di ombrose piante, quasi armigere guardiane provvedute di smisurate lancie, che sono i lor rami, dando ad intendere di starsene quivi per tener lungi gli orgogliosi danneggiatori di così delicate vaghezze. Chiamasi Strada Marina (prosegue costui), non che le sia contiguo il mare, ma perchè ne’ cocchi sogliono in lei ondeggiare a centinaja le dame di Milano, lasciando solo ingolfati nelle maree quegli occhi che le stanno osservando».

Il corso poi del carnevale menavasi lungo la corsia di porta Romana e la strada Larga, ed erasi introdotto il mal vezzo di lanciar dalle carrozze e dalle finestre aranci e mele e uova; e schizzare acque nanfe, alle quali qualche mal educato sostituiva talora delle schifezze. Questo brutto uso fu proibito; quel delle uova costumavasi anche a Firenze, onde uno dei canti carnascialeschi di colà comincia:

          Maschere (donne) siamo, e travestiti
               Venuti questo giorno a bella prova
               Sol per farvi coll’uova
               Un’amorosa guerra;
               E ziffe, ziffe, zaffe, e serra serra.

Le maschere vengono anch’esse dall’antichità; e già, come da noi, ve n’avea di due sorta. Le maschere dell’Arlecchino, Pulcinella, Dottore, Pantalone e quegli altri tipi immutabili della commedia a soggetto conoscevano pure gli antichi. Il nostro Arlecchino chiamasi anche lo Zanni, chi nol sa? Ebbene, par che quel nome venga dal Sannio, il cui tipo o la contraffazione figuravasi in un coso

[p. 253 modifica]vestito a scampoli di differenti colori, e che faceva gesti da morir del ridere, o come elegantemente dice Cicerone, toto corpore renidet. A Ercolano, fra tant’altre bagatelle importanti e inutili che si trovarono e che diedero una zaffata a tante nostre pretensioni di priorità, saltò fuori un Maccus, simile al Pulcinella francese, col suo naso adunco e le due gobbe. Testè nel colombario o sepolcreto dei liberti d’Augusto si trovò un epitaffio che indicherebbe la maschera del Dottore, giacchè parla di un buffone di Cesare, pantomimo arguto, che pel primo inventò di contraffare i causidici: Cæsaris lusor mutus, argutus imitator, primum invenit causidicos imitari.

Quanto alle maschere che coprono il viso, ne’ musei ne sopravanzano diverse: basta però aver occhi per accorgersi che non si tratta di nulla di simile alle nostre. Erano teste intere, che gli attori metteano sopra le teste proprie, in modo che restava tolto all’occhio dello spettatore quell’incanto che reca ora il vedere sul volto del personaggio esprimersi gli affetti che simula, e ciò con tal verità, quando l’attore sia il Vestri o la Marchionni, da bastare ad eccitar al pianto o al riso.

Se fossi qui per questo, vi farei una dissertazione sui teatri antichi, per verità non inutile onde dar ragione di quella strana deformità, in presenza di persone tanto sensibili al bello com’erano i Greci. Riservandolo però a tempo più scioperato, basta sappiate che quelle maschere fisse dovevano aver la faccia ridente o piangente, secondo che rappresentavasi tragedia o commedia.

L’uso n’è passato, insieme coi costumi [p. 254 modifica]dell’antichità, ma nel medioevo, quando tanto amavasi lo spettacolo, quando teatri non v’erano dove stivarsi ad aria e a luce artifiziale, molto usarono le mascherate. Se a questa parola non fosse associata un’idea affatto profana, io vorrei chiamare così quelle scene sacre, in cui rapprentavasi un mistero, vale a dire qualche fatto del Testamento Vecchio e del Nuovo, qualche vita di santo, uso non ancora dismesso del tutto; e in molte campagne della Lombardia si rappresenta ancora, nel giovedì e venerdì santo, la Passione con travestimenti che non sempre sono così serj, quanto richiederebbe l’augusta maestà di quel massimo dei misfatti e dei portenti.

Sapete pure che nel medioevo la vita civile era organata in modo che, per acquistar valore personale, allorchè tutta l’azione sociale non era concentrata ne’ Governi, bisognava unirsi. Da ciò le maestranze d’arti, le confraternite, le compagnie, tutte quelle infinite forme di privati ordinamenti; che il secolo passato in sul morire si compiacque distruggere per beffa o per stizza, e che il nostro pensa seriamente a ricomporre, sebbene in modo più conveniente, come unico rimedio allo sbriciolato egoismo.

E compagnie appunto eransi formate anche per rappresentare i misteri o le commedie nel primo lor nascere. La Confraternita della Passione, istituita a Parigi verso il 1390, per più giorni di fila rappresentava spettacolossimamente per la città gli atti della Redenzione. Già prima v’era colà la Compagnia della Basoche, formata da allievi e scrivani d’avvocati; indi altri giovani di buone case fecero la brigata detta degli Enfants sans souci.

[p. 255 modifica]Di tutto ciò si potrebbero facilmente trovar esempj anche in Italia, ma non ho tempo di sfogliare volumi; e gli autori del Costume antico e moderno si contentarono anche su questo punto di raccogliere ciò che era più triviale e più inutile, e allungarlo per riempire pagine.

Milano amò sempre i divertimenti, e fin nel XII secolo trovo fatta menzione di «istrioni che cantavano, come ora si canta di Rolando e di Oliviero: finito il canto, buffoni e mimi toccavano la ghitarra, e con decente moto del corpo aggiravansi» (Ant. Ital. medii ævi, diss. XXIX).

Spesso ancora fra l’anno i giovani uscivano alle gualdane a cavallo, menando una specie di trionfo per la città. Anche più tardi si usò far mascherate, non pure di carnevale, ma altresì in occasione di feste, vittorie, arrivi, o nascite di principi, cangiamenti di padroni; occasioni sempre di feste e di speranze pel volgo, o non pel solo volgo. Cesare Negri, detto Trombone, famosissimo ballerino e schermidore milanese nel 1600, descrisse molti balli e mascherate con cui i nostri padri dimenticavano le fiacche miserie d’allora; come noi figli dimentichiamo..... Ma zitto, e tocchiamo via a dire che il Trombone, fra altre, descrive la mascherata che uscì il 26 giugno 1574 in onore di don Giovanni d’Austria, il famoso bastardo, vincitore dei Turchi a Lépanto. Prima venivano cinque trombetti vestiti all’antica, poi un dio Pane, indi le figure allegoriche del Pensiero, del Sospetto, dell’Ardimento, della Repulsa, del Desiderio, della Sollecitudine, della Speranza, della Paura, della Gelosia, e via là; che certo voi sarete curiosi di sapere [p. 256 modifica]come fossero simboleggiate. Le tramezzavano pastori sonando stromenti confacevoli; seguivano quattro re e quattro regine, portanti per impresa gli elementi, e serviti ai cavalli da quattro uomini selvaggi, che poi colle clave faceano un combattimento. Indi un carro trionfale tratto da otto schiavi, sul quale stavano Venere colle Grazie, cantando madrigali. Formavano quarantatrè quadriglie, e mentre passavan davanti al principe, un bell’umore milanese, vestito da Arlecchino, li nominava epigrammaticamente.

Sono andato proprio troppo per le lunghe onde riuscire a parlarvi della facchinata. Per discorrerne con parole un poco più belle e più gravi lascerò a Giuseppe Parini il raccontarvi che «questa mascherata rappresenta gli abitatori d’alcune valli del Lago Maggiore, parte delle quali sino ab antico costumano di guadagnarsi il sostentamento in Milano, impiegandosi in quei privati e pubblici servigi che son proprj del facchino. Stanno questi nella città con certi obblighi e privilegi, che ne autorizzano l’uso e la dimora. Quelli poi che rappresentano tal gente colla mascherata, così detta de’ Facchini o la Facchinata, sono persone civili, addette ad un corpo che chiamasi la Magnifica Badia. Questa piacevole congrega è di origine molto incerta, nondimeno se ne ha la memoria d’oltre a due secoli. Gode d’alcuni privilegi concedutile dai governatori di questo Stato: ha statuti ancor essa e cariche, come di piovano, di dottore, di cancelliere, di poeta e simili. Gli individui della Badia affettano un dialetto proprio del paese del quale si fingono. Hanno ciascuno un nome bizzarro e caratteristico [p. 257 modifica]che li distingue. Hanno una foggia di ballo e di costumanze nazionali. Il loro abito è d’un panno bigio, con un giubboncino e le calze dello stesso. Il cappello è del medesimo colore, ma ornato di grandi e ricchi pennacchi, che dànno alla figura un’aria bizzarra e pittoresca. Portano alla cinta un grembiale vagamente ricamato d’oro e d’argento con simboli e figure alludenti al carattere particolare che ciascuno rappresenta. Recano un sacco in ispalla, ed hanno al viso maschere eccellentemente fatte, raffiguranti fisionomie oltremodo nuove e capricciose, ma nello stesso tempo naturali e secondo il costume. La detta mascherata suole uscire quasi ogni carnevale o in occasione di pubbliche allegrie, ora più, ora meno pomposamente».

Così il Parini; e se non è sfacciataggine il prender dopo di lui la parola, io vi dirò così all’ambrosiana, che dalle valli sovrapposte ad Intra e Pallanza sogliono venire a Milano i facchini, e massime quelli occupati attorno alla legna ed al vino. Ordinati in corporazione (come erano non ha guari i facchini del porto di Genova) ottennero statuti e privilegi e bandiere: in certi giorni, massime quel della candelara, andavano per la città sonando le pive; in certi altri, e specialmente il giorno di sant’Aquilino, loro patrono, conducevansi in processione con sinfonie e canti e gonfalone sventolato. Qualche resto di tutto ciò dura fino ad oggi.

Piacque imitare questa cosa vera ad una società finta, specialmente sostenuta dai Borromei, che erano feudatarj di esse valli del Lago Maggiore. Formavano adunque la Magnifica Badia, società costituita come le altre, e che il secolo nostro positivo avrebbe [p. 258 modifica]decorato del sonnifero nome di accademia; aveano un abate, un sindaco, un cancelliere, e stanze proprie e adunanza, e per divisa il motto Nos ejusdem linguæ societate conjuncti sumus.

Alludeva questo allo studio loro speciale, che era di componimenti in lingua facchinesca, nel dialetto cioè dei veri facchini, del quale se voleste v’imbandissi un saggio, lo scerrei relativo alle cose discorse.

     Dal nuest Piovan, quand seva pù pisgnin,
          E dai vigg del consej e del comun,
          Che sebbieven e scriv e lesg leccin,
          In quoi di ch’os sta unii despeu ol desgiun,
          I’agh sentù a di dl’onoo che va ai fechin
          Par iess schirpe pù entighe de nigun;
          E che par sta rason e par sto effet
          Ai pussee entìgg ogh va pussee raspett...
     Par sta rason quand, cont ol ras dla feste,
          Os va pai straa a levrà senze falcette
          Treppen fo tugg dai balester la teste;
          E s’os fermem s’an pass a na crosette,
          Ghem apreuv de marmaia na tempeste,
          Ch’os tapparav pal gust in tna sacchette;
          Par tugg i band in sui oi piazz e oi chenton
          Os lesg bescricc ol cheur dei nos patron...
     Bel vighé tramascà con le bendere
          Col ras dla feste o i falc annà per strade,
          La sgese grande con portele evverte
          Spiccià oi fechin a portà su l’offerte...

Appartenevano alla magnifica Badia, oltre i ricchi e i bontemponi, di cui non fu mai scarsezza nel nostro paese, anche persone spiritose e di talento, fra gli altri il Maggi, il Balestreri, il Tanzi, il Parini; ed ebbero nel 1780, una famosa abbaruffata contro il padre Paolonofrio Branda barnabita, il quale, per lodar il fiorentino, aveva conculcato il [p. 259 modifica]dialetto milanese, e insieme molte usanze del nostro paese.

I Milanesi (cosa che più non farebbero) preser parte e causa pel Parini, benchè fosse loro concittadino; e con pasquinate, dissertazioni, lettere, oppressero il povero Branda, che male a quella tempesta opponeva i riboboli fiorentini ed una lingua certo colta, ma affettata. Restò dunque, da tante scritture provato questo bell’assunto, che il dialetto milanese è buono quant’altri, onorevole, maneggiabile, e che fanno benissimo i signori nostri a servirsene a tutto pasto. Buon pro faccia!

Questo narrai perchè la battaglia a vantaggio di esso dialetto fu sostenuta a nome della Magnifica Badia. Le altre comparse di essa erano splendidissime, come il Parini stesso ebbe a raccontarci in occasione della festa che diedero nel 1771 per le nozze dell’arciduca governatore con Maria Beatrice d’Este, che gli portava in dote nientemeno che i ducati di Modena, Massa e Carrara, affinchè si continuasse l’antica divisa epigrammatica ma non offensiva;

Bella gerani alii; tu, felix Austria, nube;
Nam quæ Mars aliis, dat ibi regna Venus

«Tutta la mascherata (racconta dunque il Parini), tutta la mascherata era o a cavallo o sopra carri vagamente inventati e dipinti, o in carrozze e calessi scoperti di ogni genere, e tutti con ornamenti caratteristici della rappresentazione.

«Precedeva il corriere della Magnifica Badia, seguito da una squadra d’ussari che servivano di vanguardia alla marcia: e dopo questi veniva il portiere [p. 260 modifica]della stessa Badia, avendo in seguito un grosso numero di suonatori con timpani e trombe. A questi succedeva l’equipaggio, il quale consisteva in ben trenta muli carichi di sporte e di ceste e ornati di fiocchi, di piume e di coperte di vario colore. In alcune di quelle ceste vedeansi, con capricciosa negligenza, riposti gli arnesi e gli strumenti che servono agli uffici ed al mestier del facchino, e questi mescolati con erbaggi, con fiori ed altre simili cose talmente ordinate che ciascun oggetto rappresentava un oggetto assai piacevole a mirarsi. In altre sedevano facchinelli bambini colle fanti e colle nudrici che ne avevano cura, tutti graziosamente vestiti, e collocati secondo l’età e il carattere loro. Altre finalmente avevano copertoi di varie guise, sopra dei quali erano dipinte o in altro modo rappresentate le armi delle famiglie che hanno feudi nel paese della Badia. Avanzossi di poi il gonfalone del Comune, portato dal cancelliere e accompagnato da buon numero di belli e giovinetti facchini; e a questo venne dietro un carro a quattro cavalli, vagamente adorno di frondi e fiori, in cui sedevano le facchinelle ballerine della compagnia. Seguitò un grosso coro di sinfonia, il quale serviva di festoso accompagnamento al primo trionfo che immediatamente succedeva. Questo trionfo era un carro assai nobilmente disegnato, sopra del quale stava in grazioso ordine disposto un umile tributo, che la Magnifica Badia intendeva di presentare ai reali Sposi, de’ frutti e delle produzioni del suo paese. Consisteva questo in caci, in castagne e simili, e in agnellini, pernici, fagiani, camosci, caprioli, cerbiatti, cignaletti ed altri somiglianti animali, tutti [p. 261 modifica]vivi. Appresso venne una moltitudine di facchini, montati sopra cavalli belli ed elegantemente guerniti: e questi furono seguitati da una pomposa lettiga scoperta, portata da due muli, nella quale sedeva il dottore della Badia. Teneva questi avanti di sè il tavolino con calamajo e scritture pertinenti agli affari della Badia. Portava al di sotto l’abito da facchino, e sopra di esso la toga nera fornita di zibellini. Non aveva il cappello ornato di piume come gli altri, ma in quella vece una maschera che gli copriva non solo il viso, ma anche tutto il capo, il quale appariva largo e calvo e con solo pochi capegli bianchi e lunghi che gli cadevano sopra le spalle. A questa maschera, che fu nel vero assai nobile e giudiziosa, vennero in seguito molti altri facchini di quelli che si chiamano dello scrutinio, e dopo di essi in un piccol carro a quattro cavalli l’assistente regio della Badia con due giovani facchini che cavalcavano a lato di lui. Appresso venne un altro grande coro di sinfonia che annunziava l’arrivo dell’abate. Sedeva questi colla badessa, tenendo il bastone e le altre insegne della sua carica in un alto e superbo carro tirato da una bellissima muta a sei cavalli di S. A. R. Erano poi di seguito al carro dell’abate due altri consimili mute del signor duca di Modena, le quali conducevano un numero di vaghe e leggiadre facchinelle, tutte nel loro costume vestite con molta ricchezza del pari e semplicità. Venne dopo queste il corpo dei cacciatori della Badia, che tutti sonando varj strumenti da fiato, precedevano un nuovo trionfo, conveniente alla natura del loro impiego; e questo era un carro di gentile e spiritosa invenzione, con grandi ed [p. 262 modifica]ornate gabbie ripiene d’uccelletti d’ogni sorta. A questi uccelletti, nel punto che la mascherata presentossi davanti ai principi nel gran cortile del palazzo ducale, fu dato in un tratto la libertà... Sopravenne dopo questo trionfo la muta, parimenti a sei cavalli, di S. E. il signor ministro plenipotenziario, seguita da ben dodici altre simili, oltre un grandissimo numero di carrozze, di calessi, di carri di ogni specie, pieni tutti di belle e leggiadre facchine, le quali venivano di mano in mano assistite da quantità di facchini a cavallo. Tutto questo lunghissimo séguito era di tanto in tanto interrotto con altri cori di sinfonia e con altri trionfi diversi, tutti ugualmente che gli altri nel carattere della mascherata. Il primo di questi, che nella sua perfetta semplicità venne giudicato bellissimo, era un carro rappresentante un piccolo spazio di terreno, sopra cui elevavasi un alto castagno. All’ombra di quello, forse dodici pecore stavano pascendo l’erbe, e un biondo rubicondo pastore, appoggiandosi al tronco, e accavalciando negligentemente l’una delle gambe al bastone che teneva fra le mani, quelle pascenti pecore custodiva. Due altri trionfi che vennero in seguito, rappresentavano l’uno la scuola dei fanciulli facchini, governati dal vecchio pedante della Badia, e l’altro la scuola delle figlie. Finalmente degli ultimi tre, il primo, era un trofeo degli utensili e dei vasellami che s’appartengono al governo del vino, stato ideato ed eseguito con non minore decoro che bizzarria. L’altro rappresentava molto al naturale un pergolato carico d’uve con facchini e facchine che la vendemmiavano. L’ultimo poi, col quale ponevasi fine alla mascherata, era il [p. 263 modifica]trionfo di Bacco. Appariva il carro di questo trionfa altissimo e maestoso, con vaghe e nobili forme imitate sull’antico, e intorniato di vasi e simboli proprj di quella divinità. Otto bellissimi cavalli grigi lo conducevano; e lo accompagnavano a piedi satiri, fauni ed altri silvestri numi che formano il séguito di Bacco. Sedeva questi, giovane, rosso e robusto, sull’alto del carro, tenendo una gran coppa fra le mani ed accennando tuttavia di bere. Finalmente un altro corpo d’ussari chiudeva la marcia.

«Girò la mascherata per quasi tutti i luoghi più frequentati della città, e finalmente verso la sera giunse sul corso di Porta Orientale. Qui fu dove il colpo d’occhio riuscì per ogni sua parte dilettoso e sorprendente; imperciocchè era quivi più che in ogni altra parte grande il concorso del popolo, ed eransi schierate dall’un lato e dall’altro tutte le carrozze e la mascherata aveva spazio di spiegarsi e di presentarsi allo sguardo tutta in un punto. Laonde que’ carri, que’ trionfi, quelle splendide mute, quegli ornati cavalli, quelle piume svolazzanti sul cappello delle maschere in mezzo a tanta folla di popolo e di carrozze, acquistavano maggior bellezza, e facevano più sorprendente veduta».

Fin qui il Parini, che fu dalla città incaricato di stendere e tramandare ai posteri la descrizione di quella festa; siccome essa città avera pensato fare d’altre mascherate eseguitesi qui stesso quando fu la coronazione di Ferdinando I, e che poi, non so perchè, rimase senza effetto. Avemmo la fortuna di trovare una tavola che mette sott’occhio la mascarade dei Fechin de Lagh Majô, ascricc in tla [p. 264 modifica]megnifiche Bedie, facce in Milan ol dì 20 fevree 1764. Precedono l’usciere della Badia, il direttore, i trombetti, poi, dopo un corpo di ussari, vengono i muli colle loro sargie, indi i porta cavagne e la cavalcata de’ facchini e degli uffiziali dello scrutinio; l’abate scaduto e le badesse seguono i carri, come anche la Scuola dei Marasci, maschera cui allude anche il Balestreri nelle rime, parlando appunto di questa facchinata:

Ecco i facchin coi zoeur e i marascitt
Vegnen sgiò allegrament del Lagh maggior,

La carrozza più pompeggiante è il trionfo dell’abbà sesdent, cioè del capo attuale della Badia. I regolatori scorrono a cavallo tra la fila. Tengono dietro altre badesse, e barocci di sonatori (gringaje per ol ball) e cavalli da maneggio; poi una scena tutta villana d’una nutrice col suo lattante, sopra una carretta che qui si chiama volantin. Chiudono la marcia gli ussari e noi con essi.

La Magnifica Badia terminò poi, come tante altre cose arruginite, nel sempre memorabile 1796, e non rinacque, come tante altre cose arruginite, nel non meno memorabile 1814. Quali mascherate si facessero a Milano nel triennio repubblicano ve l’avrò a dir forse altra volta. Poi, durante il regno d’Italia, le parate e le feste eran tutte militari. E i militari appunto, nel 1812, diedero un’insigne mascherata che rappresentava le quattro parti del mondo, con istile alqnanto classico alla imperiale, ma con uno sfarzo e una varietà che più nol dimenticarono quei che ebbero la disgrazia di vederlo. Disgrazia dico [p. 265 modifica]perchè essi a quest’ora son già nell’età del pentimento e delle disillusioni, anzichè in quella de gaudj e delle speranze. Dico disgrazia anche perchè un di que’ carri si rovesciò, e ne restarono schiacciati alcuni, di che trassero sinistro preludio gli osservatori de’ prognostici. E pur troppo, subito dopo quel carnevale, le guardie d’onore e i veliti nostri, che avevano combinato quella festività, marciarono per la Russia, e quasi tutti rimasero

Dell’infausta Beresina
Sopra il lido orrendo e fier,
Ove cresce infausta spina
Sulla tomba dei guerier.

Lasciamo le melanconie per la quaresima; e per ora ricordiamo che di tempo in tempo ancora qualche signore o una brigata mandano fuori qualche carro di maschere storiche; lo che va sempre più diradandosi.

Ho già accennato come san Carlo riuscisse a scarnovalare (parola che raccomando ai nuovi accademici della Crusca) la domenica di quaresima; ma non potè ottenerlo de’ quattro giorni anteriori, per quanto gli spiacesse che quei d’altri paesi affluissero a Milano per cansar il digiuno e l’astinenza dei primi giorni quaresimali. Anche altre volte si cercò levare quest’abuso, che fa gavazzare noi altri, quando a poche miglia di distanza la Chiesa sparge di polvere la testa de’ credenti per rammentare che cenere sono e cenere ritorneranno. Ma noi Milanesi teniam grandemente a quest’uso, che ci trae dodici o quindicimila forestieri a veder quanto siamo serj. Con-ciò-sia-cosa-che, il giovedì [p. 266 modifica]grasso s’affollano di gente le vie, s’empiono i balconi, comiciano le carrozze, e da questi e da quelli si lanciano, si subiscono manciate e palate di confetti, fatti di farina con poco gesso e per anima un coriandolo, che non bastano per cavar un occhio, salvo se lo colgono in pieno, ma che insudiciano schifosamente la persona e il vestito. Poche maschere plebee e grossolane vanno a piedi o su cavallacci: qualcosa di meglio vedesi nelle carrozze, ma la più parte in bautte di vario colore; e

Briarei i fanciulli e Gerioni
Fansi a raccor la pubblica treggea
Ch’è ’nvece d’arme a’ fervidi campioni
(Parini)

A poco andare il selciato è tutto coperto d’un buono strato di polvere di gesso; polvere le vetrine delle botteghe; polvere gli abiti de’ passeggeri, e quei delle discendenti di Brenno, fattesi amazzoni a saettare dalle finestre e dai balconi. La scena si rinnova il sabbato grasso; poi, quando la sera viene, bravi pranzi e laute cene son preparativo a balli, che, schiamazzanti come le avide gioje in sul Unire, protraggonsi fin presso la mattina della quaresima.

E quella domenica, chi scorre la città, là trova tutta bianca di farina e tempestata di confetti; e negli abiti non ancora ben ripuliti, e ne’ visi pallidi dell’orgia notturna, e nella nuova comparsa del corso vespertino, s’accorge quanto, a differenza degli spensierati padri, la generazione odierna è grave, calcolatrice, meditabonda.

1846.

Note

  1. Così in tutta la Russia a Pasqua si grida Cristo voskress.
  2. Processi simili ho veduto in qualche taverna di Londra.
  3. La Rua, poema eroicomico in nove canti di Vittoria Madurelli-Berti vicentina, accademica filoglotta con note storico-critiche letterarie. Verona, per G. B. Berti editore, 1833, col ritratto dell’autrice.
  4. Questo spettacolo si rinnova anche per venute di principi e altre occasioni festive. Nel 1867, quando comparve coi colori del nuovo regno d’Italia, stamparonsi Memorie intorno alla Rua, dove se ne discorrono a lungo l’origine e le vicende, molto traendo dalla cronaca del conte Arnaldo Arnaldi Tornieri, perfetto gentiluomo, avverso alla novità per religione e per patriotismo, e che registrò dal 1767 al 1822 giorno per giorno gli avvenimenti di Vicenza, e perciò ogni anno la festa della Rua. Tra le ore nove (dicono gli autori) e le dieci del mattino, la processione, a cui interveniva il podestà, il capitanio, i deputati della città, tutte le fraglie, vescovo, canonici, preti, frati e monaci, usciva dalla parte di mezzogiorno della Cattedrale, e per la piazza Castello, pel Corso, e Santa Barbara, alla piazza; e di là per la Musicheria, ritornava al Duomo. Dinanzi ai deputati erano i Pifferi, la musica della città; erano sei, vestiti talvolta di scalatto trinsato di velluto e di argento, collo stemma della magnifica città.
    Finita la processione «prima di mezzodi si levava la Rua che si cominciò a tener coperta durante la processione, e la si trovava con mirabile destrezza per la Musicheria fino alla piazza del Duomo, dinanzi alla residenza del vescovo, il quale la benediva, non arrestandosi mai in quella piazza meno di un quarto d’ora. Dal Duomo la si trasportava verso il Castello, e di là rapidamente percorreva il corso (arrestandosi davanti alla casa Bissàri) giungeva a Santa Barbara e nella piazza; nella quale essendo troppo alto il colmo tra le colonne, passava lateralmente alla chiesa di san Vincenzo. Non fu portata tra lo colonne che nel 1804 in occasione della venuta dell’arciduca Giovanni, il quale, mostrando sommo interesse a vederla, la contemplò succesivamente da tre siti diversi; dalla ringhiera del fu Botelli cartaro in principio di Musicheria, dal palazzo dei conti Lodovico e G. C. Thiene sul Corso, e dalla casa dei signori Parise in capo della piazza. Il concorso, il fracasso, il gridio, il cantar lieto del popolo, il lusso dei cavalieri e delle dame, i forestieri corsi a goder della festa, spesso il sorriso del cielo formavano un bellissimo spettacolo. Quando la festa del Corpus Domini cadeva nella seconda metà di maggio, lo spettacolo era più bello ancora, perchè infondeva buona vita alla fiera di Santa Corona che si teneva in quel tempo.
    La Rua rinnovavasi ogni due o tre anni; l’arco, dentro del quale gira la Ruota, era sostenuto ora da colonne, ora da cariadidi in guaina; nel 1771 vi si aggiunse una gradinata; talvolta era graziosissima e svelta, tal’altra con mal gusto architettata, e questo ci fa osservare quanto importerebbe il possedere alcuni disegni che ci mostrassero la Rua nelle diverse età; in essa vedremmo impresso il salire e il discendere dell’arte. Ma per mala sorte, i disegni della Rua si riducono pressochè a due forme, la prima delle quali, del 1680, barocca ma però graziosissima, il Muttani attribuiva colla solita credulità al Palladio, con poche variazioni (in peggio quasi tutte) presente; la seconda, più povera e quasi nuda verso la sommità, è quella che tuttora si conserva.
    Finito lo spettacolo della Rua, i deputati della città, fermi sotto il palazzo della Ragione, dappresso alla Rua, arrolavano i cavalli pel pallio. Intorno alle quattro dopo mezzodì si faceva il pallio sul Corso, di sei o dodici cavalli, rare volte di quattro o cinque, e premiavasi il vincitore.
    Dopo il pallio era la corsa delle carezze nel Campo Marzio intorno ad un bellissimo circolo di mezzo. Là, tra una folla attornita, sfoggiavasi il maggior lusso di equipaggi; talora ricchi signori di altre città venivano a gareggiare co’ nostri; il numero delle carrozze, che non parve poco quand’era di sessanta, una volta raggiunse i centoquindici.
    Intanto il popolo passeggiava pure nel giardino Valmanara, e tra i fiori e la dolce brezza, salutava la sera.
    La sera, i nobili della città e i forestieri di nome e blasone; si univano a festa di ballo nel Casino dei Nobili sul Corso. Quivi, tra il lusso delle invide dame, appariva qualche sintomo delle inimicizie che dividevano il nobile di provincia dal gentiluomo veneziano; figuratevi! ad una di tale feste intervennero alcune veneziane vestite come le fossero in villeggiatura. In luogo della festa da ballo, faceasi qualche volta conversazione allo stesso Casino.
    Pareva presentissero i nuovi tempi, e il nobile possidente stimasse quelle le ultime feste ch’ei godrebbe tranquillo e sovrano. Mai più tanta furia di gustare i piaceri della vita. Il povero Tornieri, che a quei piaceri ben diversi avea l’animo temprato, un giorno scriveva: «Stimo più tutte queste cose (erano alcune antichità) che non la grand’opera intitolata la Pulcella d’Orleans che questa sera va in scena, per cui son giunti forestieri assaissimi e si trova in massimo movimento tutto il paese. Cosa dee dirsi di una nazione che non pensa che a divertirsi? che segno è questo?.... Non però tutti i Vicentini ne han colpa.... Affari; studj, pensieri più serj, addio!....» Ma nell’Italia spienserata di allora Vicenza era ricca e felice e di lei godeva cantare il Parini:
    Il verde piano e il monte
    Onde si ricca sei, caccian la infame
    Necessità che brame
    Cosa malvagea sotto al tetro fronte:
    Mentre tu l’arte opponi
    All’ozio vil corrompitor de’ buoni.
    I tempi vennero dell’ansia febbrile e del dolore! Nei poveri Veneti che avversavano i Francesi e le loro idee, si stimò troppo di vedere odio al progresso e alla libertà, e non si riconobbe l’amore alla propria indipendenza. Che il Tornieri sia stato ingiusto talvolta, che inimicizia a certe idee lo abbia gettato nelle braccia del passato, ne sentiamo dolore; ma non possiamo dimenticare le seguenti parole sue: «1796 3 luglio... Non scrivo le memorie d’Italia, ma è ben che si sappia che, dal fin d’aprile al di d’oggi, i Francesi, ossien gli Unni, hanno rapidamente inondata mezzo l’Italia, senza che un sole italiano pensi a resistervi. Gran cecità! gran castigo di Dio! Finora non son giunti in Vicenza, ma tutti tremano. Che mai diranno le istorie dal valore italiano che una volta conquistò tutto il mondo cognito e scoprì l’incognito.
    L’anno seguente (eravamo in piena repubblica) in occasione della festa del Corpus Domini, la municipalità provvisoria proclamava al popolo che la Macchina Nazionale della Rua, implicito emblema della sua natural libertà i deposti, gli usurpatori de’ suoi diritti l’avevano tollerata, perchè sapevano che esso popolo non ne conosceva il mistero. Il Tornieri protestava la verità; ma la sua voce non saliva tanto alto da superar quella dei nobili demagoghi della municipalità provvisoria. Udiamo la descrizione ch’egli fa della festa di quell’anno:
    Cominciò a ore 13 2/4 la povera processione tutta spoglia di argenti e di livree, senza i collegi de’ Dottori, Medici, ecc., perchè aboliti. Precedava il Pantalone vestito comicamente con un abito da Tartaglia. Dietro subito il baldacchino, il gran vessillo della libertà spiegato che ombreggiava i municipalisti vestiti colla solita sciarpa. Seguiva la nuova nostra truppa civica di circa cento soldati; e dopo di essi venivano le Arti, ognuna delle quali, deposto lo stendardo del loro santo protettore, portava quella della libertà.... A quindici ore fu levata la Ruota, sfigurata in quest’anno buffonescamente, perchè in luogo dell’arma della città, eravi mal dipinta una figura della Libertà; in luogo del san Marco, un gallo dipinto alla peggio: ed era la Ruota sormontata da un pileo della Libertà. I ragazzi sulla Ruota ondeggiavano bandiere tricolorate; e sopra le urnette erano scritte le due voci insensate, Libertà, Eguaglianza. Fu riposta, fatto il solito giro, verso le ore 17, piovendo molto. Nessun concorso di popolo, fuorchè qualche gruppo di plebe che cantava l’aria della Libertà per cavar denaro. La truppa civica la precedeva.... Un genio di un plebeo insensato, per un tratto della più vile mordacità portava davanti alla Rua un palo con in cima una galera, e sotto una gabbia con dentro diverse figure di Pantaloni, indicanti i nobili veneziani; e non s’accorgeva lo stolido che noi ed egli siamo rinserrati nella medesima gabbia più strettamente di loro.... Francesi vengono, Francesi vanno. Francesi stanno: calcolate la spesa se vi dà l’animo».
    L’anno seguente la festa cominciò a decadere. La processione, priva delle fraglie abolite e disciolte, era una meschinità. La Rua rialzava quasi ogni anno il capo, ma i danni dell’anno scorso stampavano le proprie orme anche su lei; spesso, poveretta! era lacera, sdruscita, spoglia degli ornamenti e degli arredi che la decoravano; mostrava talvolta anche l’interno scheletro; non si modificava quasi più. Il popolo ora poco giulivo, ora vociferante; ma non più la festa e l’allegria di prima. Il pallio ora una miseria, per la grande ricerca che facevasi di cavalli per la truppa. Il Campo Marzio, specialmente dopo il 1804, gli esercizj militari lo avevano ridotto un vero Campaccio da manzi; sparito il circolo di mezzo, lo spettacolo della corsa, il più sorprendente della giornata, era perduto. Tuttavia i Vicentini sempre simili a sè stessi e sempre impolitici, sfoggiavano il maggior lusso in gioje e livree: laidi e nefandi i vestiti delle donne. «Il vestito che oggi (1804) è il più modesto, vent’anni fa sarebbe stato il più scandaloso. Sic iturad astra». Nacque un’Academia democratica per far concorrenza al Casino dei Nobili con un nuovo Casino, e comprò a tal uopo l’Ospital vecchio vicino al Duomo, e lo ridusse (1807) per tali spettacoli. «Ora poi con un dispendio insigne lo ha condotto a fine, mobiliato, dipinto. Ha voluto questa sera solennemente aprirlo con una festa da ballo, graditissima sopratutto al cavalier Prediale e alla dama Carta Bollata, e al marchese Registro e alla baronessa Finanza, che tanto lo desideravano per loro giustificazione. E questa è la ragione per cui oggi vennero tanti forestieri oltre il solito degli altri anni. La folla concorsa a questo insulso spettacolo fu immensa».