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gano (i nomi, i costumi e molt’altre ragioni provano la comune origine degli abitatori di quelle rive) è un giorno fra l’anno, nel quale si celebra quasi in ogni borgata la Festa dei canestri. Compiuti i vespri, il prete si cala dall’altare a ricevere i doni che le donne, e singolarmente le fanciulle, vengono a presentare. E i più sono canestri con offerte di vario genere, chi fiori, chi frutte, secondo la stagione, una de’ pesci, l’altra focacce o una ricotta: chi porge un pollo, chi due colombi, chi un fazzoletto: questi reca vino fumoso in fiasco vestito di sala; quegli un par di ceri, altri un agnellino o cacciagione: ed è una gara di mettere ogni cosa a galani, a fiocchetti, a vezzi, il meglio che ciascuna sa. Il piovano riceve i regali, benedice alla offerente, e come sono raccolti tutti, si mandano all’asta a pro della chiesa. Qui il puntiglio e la galanteria a gareggiare: i meglio stanti hanno cura di ricuperare a qualunque costo quel ch’eglino stessi offerirono: i giovinotti, intesi a ben meritare dalle forosette, hanno posto mente a qual cosa sia stata offerta da quella di cui bramano la predilezione: nè crederebbero potere spendere il denaro meglio che coll’alzarne il prezzo dell’incanto, finchè venga ad essi liberato l’oggetto, impreziosito dalla mano che l’offrì. L’erudizione vada a paragonarle alle Panatenaidi, alle Coefore, a che altre so io classiche festività: quanto a me, quel gioire, quel ringalluzzarsi, le occhiate, i trionfi, i dispetti di quelle gare, quante volte m’imbattei a vederle, mi destavano ad un tripudio, ben più sereno che le allegrezze cittadine.
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