Pagina:Novelle lombarde.djvu/244

232

Qui mischie e casi che diedero argomento ad un poema; e la fine si fu che i Vicentini riuscirono a prendere il carroccio della nemica.

Chi di voi non sa che il perdere il carroccio era la maggiore sventura che a quelle repubblichette potesse incontrare? Federico II potè torlo a noi Milanesi nella battaglia di Cortenova, e, dopo menatolo in trionfo per tutta Italia tratto da un elefante, il fece collocare nientemeno che in Campidoglio a Roma, dove ancora sussiste la lapide, che rammenta non tanto la sua vittoria quanto la sua paura.

I Padovani dunque raddoppiarono di valore per recuperare quel pegno, ma non poterono impedire che i nemici (nemici italiani, pur troppo) se ne portassero via una ruota. Questo trofeo equivalse alla secchia dei Modenesi.

     Vinceano i nostri; su grand’ale pronte
Fama intorno volò di quella gloria
Dal mar d’Atlante alla foce d’Oronte,
     E la Ruota, del fatto alta memoria,
Parlante insegna del bergeo valore,
Il carro precedea della vittoria,
     Quando, tra i plausi e’l popolar clamore,
A Vicenza tornava festeggiante
Il nobile drappello vincitore:
     E fu tanta la gioja in quell’istante,
Vista la fine del lungo cordoglio,
Del Betrone soave-mormorante,
     Che tal non era il gaudio e’l fiero orgoglio
Del Tebro allor che i barbari sconfitti
Trasse Cesare o Scipio in Campidoglio.
     E qual Roma solea tener iscritti
In bianca pietra i fortunati eventi,
Ed in nera segnare i giorni afflitti;
     Così, futura memoria alle genti,
Volle pur Berga che da noi si mostro
La Ruota ogni anno fra lieti concenti.