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Le novelle spose doveano pagare alla brigata, secondo lor forze, un tributo di denaro, che dicevasi le spupille: la comunità somministrava da bere; il re apriva festino a tutti, con generose libazioni. L’ultimo giorno poi era consacrato alla polenta. I compagni andavano di casa in casa a raccattare del bello e del buono: del migliore imbandivano a sè stessi un banchetto, che privilegiati gaudenti vi saranno sempre in ogni società di matti o di savj; della farina facevano, in mezzo alla piazza, una enorme polenta, regalata di burro e cacio a josa; e l’Arlecchino col suo battocchio la affettava e distribuiva alla calca; tutto fra uno strimpellare continuo di stromenti, e un assordamento di fischi di urli, di viva.
Ben credete che non a tutti riusciva gioconda quella esultanza: i preti la trovavano immorale; il podestà sentiva andarne di mezzo il suo decoro; i ricchi, cui toccava la volta, non sempre aggradivano quello spendere e spandere in cortesia, o farsi gridare spilorci se ricusavano il carico o mescevano a misura: gli scandali rivelati portavano sdrucci che la quaresima non bastava a rammendare. Da un pezzo adunque si mormorava contro di quest’uso: e infine il podestà grigione Alexander nel 1766 scrisse di buon inchiostro alla Dieta di Coira (Bormio, come tutta la Valtellina, era all’obbedienza dei Grigioni) contro questo vergognoso abuso; essere sprezzevole ed ignominioso all’onor del principe e alla dignità, d’un rappresentante l’andare in quella sì abjetta funzione alla sinistra dell’imperatore dei matti: e chiamava fosse abolito. Come n’ebbero sentore i caporioni della brigata, mossero mari e monti per