Notizie intorno alle Opere di Feo Belcari
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NOTIZIE
intorno
ALLE OPERE
DI FEO BELCARI
scrittore fiorentino del secolo xv
Di Feo o Maffeo1 Belcari, non ignobile versificatore e laudevole prosatore toscano, che fiorì verso la metà del secolo xv, alcuni cenni si trovano in varj scrittori di bibliografia e di storia letteraria, e nelle annotazioni aggiunte al Vocabolario degli Accademici della Crusca2. Io non ripeterò quelle notizie che di leggieri possono aversi prendendo in mano il Crescimbeni, il Quadrio, il Mazzuchelli, il Tiraboschi e tant’altri. Facendo qualche diligente indagine intorno alle sue Opere, e specialmente intorno alle rarissime stampe che ci rimangono delle medesime, ho potuto accorgermi delle altrui negligenze, e delle mie proprie, già pronunziate nell’operetta, Serie de’ Testi di Lingua, ecc. (Bassano, 1805, in 8); e l’emendare spezialmente me stesso, punto non mi dispiace, confessando, che male adopera chi non va col calzare di piombo nel pubblicar notizie degli autori di vecchia data.
Nè il coprire in patria carichi luminosi, nè l’essere sposo di leggiadra e nobil donzella, nè il divenir padre di assai numerosa famiglia distolse mai Feo Belcari da grande entusiasmo per le mistiche discipline. O improvvisasse egli le sue Laudi Spirituali, o componesse Sacre Rappresentazioni, o dettasse le Vite del B. Giovanni Colombino e di alcuni frati Gesuiti, o volgarizzasse il Prato Spirituale; e facesselo pure alcuna fiata alle spese del buon gusto, della buona poesia, della buona critica, giammai non lo fece alle spese della lingua nostra, che mantenne nitida e pura in un secolo in cui trovasi da quasi tutti gli scrittori intralciata di forme, di voci, di dizioni affettatamente tolte dagli scrittori latini.
Una sentenza, direi quasi, opposta a questa mia, diede il Crescimbeni intorno alla locuzione ed allo stile usato da Feo; ed il Tiraboschi, ben lungi dal parlare colla solita sua accuratezza intorno ai varj componimenti che del Belcari ci restano, passò sino ad assegnargli un posto tra gli antichi poeti burleschi. Tale trascuranza in verso uno dei campioni del parlar nostro per parte di scrittori classici e reverendi, mi eccita a dare qualche buon conto di quelle indagini che mi sono proposto di fare, nè meglio potrei prestarmi che coll’offerire un breve saggio delle scritture sue in ogni genere di poesia e di prosa. Chi in luogo di un saggio amasse meglio di vedere raccolti ed impressi in un volume i lavori poetici di quest’Autore, sappia che stanno manoscritti nella Remondiniana, da me possibilmente ridotti a buona lezione: ma sappia altresì che il troppo scarso numero de’ leggitori di così rancide scritture aliena l’animo dal pensare a sostener il peso di una edizione3.
Laudi Spirituali.
Le Laudi Spirituali composte dal Belcari sono le principali poesie atte a cignergli le tempie di qualche foglia di alloro. Nata la lingua nostra colla poesia, e questa consecratasi da principio a cantare la Divinità, occupò il cuore e lo spirito d’ogni ordine di persone; e come al sorgere della pittura le deformi immagini colorite da un Giunta o da un Ghirlandaio pur dilettavano ogni occhio, così i primi canti aspri ed incolti, attribuiti a S. Francesco d’Assisi, o al B. Iacopone da Todi, infiammavano ogni petto. Quasi a pari passo non minori progressi facevano pure le insanie amorose, sì sulle cetere de’ poeti come sulle lingue degli scioperati. Il padre della prosa italiana dopo la Novella X della giornata V introdusse il suo sollazzevole Dioneo ad accennare i primi versi di alcune canzoni che erano allora in grandissima voga, tutte però tinte di fescennino colore; poi, le Ballatte, gli Strambotti, i Ritornelli, i Canti Carnascialeschi crebbero sì, che insaziabili i Fiorentini delle patrie loro cantilene, rendeansi quasi proprie anche quelle provenienti di Provenza e di Lamagna, purchè ridondassero di amorose laidezze.
Giunto il secolo in cui il Belcari fiorì, Lorenzo il Magnifico, il Poliziano, il Benivieni, il Giambullari ed altri, accompagnando alla poesia una musica seduttrice, e cantando a quando a quando o le scostumatezze dei Frati, o i lusinghevoli incendj di un guasto cuore, faceano generalmente tal breccia, che i componimenti loro si erano già insinuati sin ne’ recinti sacri alla virginità. Il nostro Belcari volle farsi argine al libertinaggio; e ritenendo egli le arie e le musiche delle profane canzoni, le convertiva con vena facile ed armoniosa in fervorose preghiere o in pii racconti di strani prodigj. Applaudito da ogni animo ben nato un tale associamento di piacevoli passatempi, moltiplicaronsi in Firenze le compagnie de Laudesi, e udironsi ad un tratto, in luogo delle disoneste canzoni del Maggio, o del Bardoccio, o dell’Insalate o de’ Vecchi, quelle sacre Laudi e divote Istorie, che non mancarono poi di divulgarsi colle stampe, e di essere accompagnate da altre di un Francesco d’Albizo, di un Tornabuoni, e del Magnifico stesso, che alcuna volta faceasi cigno purissimo di buon costume. Del canto delle Laudi Spirituali, che nel quintodecimo secolo era tornato in grandissimo credito, andò rallentando la voga nel secolo susseguente; e il P. Serafino Razzi nel pubblicare per mezzo de’ Giunta l’anno 1563 una Raccolta di esse Laudi, composte, fra gli altri, anche da D. Silvano suo fratello, lagnavasi del grande intiepidimento cristiano di allora in così fervido e pio esercizio. In ogni modo non ne fu giammai abolito l’uso; e quest’uso dura tuttavia nelle contrade italiane, se ben ristretto per lo più a pratiche fanciullesche, o a divote occupazioni di qualche pia brigatella. Serbasi in sino oggidì, con tenui alterazioni di parole o di frasi, una qualche canzone scritta al primo nascere della lingua nostra, e tale per esempio si è quella d’incerto autore che leggesi nelle antiche raccolte, e che comincia:
O Maria, Diana Stella,
Che riluci più che ’l Sole,
Dir non posso con parole
O Maria, quanto se’ bella.
O Maria di Sol vestila,
Delle Stelle coronata,
Della Luna sei calzala,
Specchio sei di nostra vita, ecc.
Vediamo ora alcuna delle Laudi del Belcari nostro, scritta con quella semplicità e naturalezza che renderà sempre cari i frutti primaticci del nostro Parnaso. Mi ristringo a riportarne quattro soltanto, scelte da oltre 130 da me raccolte, confrontate sulle più antiche edizioni, e ridotte soltanto alla odierna ortografia.
Una canzonetta, che leggesi tra quelle a ballo di Lorenzo de’ Medici — Ben venga Maggio, ben venga Maggio — con cui s’invitavano le donzelle a darsi buon tempo alla frescura de’ rivestiti arboscelli, e ad arrendersi ai loro amanti, eccitò il nostro Feo a scrivere la Laude seguente, intonata sulla stessa musica, in encomio del sommo nostro Fattore:
Laudate Dio, laudate Dio
Col cor lieto e giulìo.
Su, anime leggiadre,
Vestitevi di amore,
Rendete al sommo Padre
Laude, gloria e onore:
Ringraziate il Signore
Con ogni buon disio,
Laudate Dio.
Egli è quel sommo bene
Che v’ha tutti creati,
Tratti di mortal pene,
Con sua morte salvati:
Al Ciel siete chiamati
Da Gesù dolce e pio,
Laudate Dio.
Gustate e suoni e canti
Che sono in Paradiso:
Or, su, gentili amanti,
Tenete l’occhio fiso,
Mirate il dolce viso
Di Gesù nostro Dio,
Laudate Dio.
Desiderate presto
Andare con lui in Cielo;
Non vi paia molesto
Lasciar il mortal velo;
Fuggite con gran zelo
Ogni diletto rio,
Laudate Dio.
Amate ardentemente
Sì bello e buono Sposo;
Cercale con la mente
Il suo dolce riposo.
Chi vuol essere gioioso
Ascolti il parlar mio,
Laudate Dio.
Sull’aria di una canzone profana, che avea principio — O lasso me tapino e sventurato — compose Feo la canzone seguente in lode di S. Caterina:
Venga ciascun divoto ed umil il core
A laudar con fervore
La nuova, santa di Dio, Caterina.
Deh, prendi questa vergin per tua stella,
Anima mia, se vuoi salute e pace;
Costei del vero Dio sposa novella
Ripiena fu di scienza verace;
Di tutte lo virtù ornata e bella,
D’ardente carità ella è fornace.
Se in questa vita a ciascun peccatore
Portava tanto amore.
Quanto più in Cielo, ove l’amor s’affina!
Di penitenzia un santo Ilarione,
Di carità un san Paulo ardente,
Ad ogni gente per compassione
Dava aiuto e consiglio alto e fervente:
Con molte opere pie, e col sermone,
E con la penna, un’aquila eccellente;
La salute d’ognun sempre bramava,
E per l’Italia andava,
D’ogni gran mal essendo medicina.
La sua dottrina è sol di Paradiso,
Che illumina ciascun cieco, ignorante;
Il suo conforto muta il pianto in riso,
Ogni cor debil fa forte e costante.
Chi per sua colpa da Cristo è diviso
Col mezzo suo sarà tra l’alme sante;
Contr’a’ demoni ell’è coltello e scudo,
E mitiga il cor crudo
Pregando sempre la bontà divina.
Non ti maravigliar che Gesù Cristo
Le dette a ber del sangue del costato,
Per lo qual, disprezzando il mondo tristo,
Solo ’l suo cor di Dio fu infiammato:
Ma contemplando Dio, ell’ebbe visto
Che vuol che per lui ’l prossimo sia amato,
Però si diede a lui con tanto affetto,
Con pena e con diletto
A sovvenire ogni anima meschina.
Leggi, e rileggi, tu non troverai
Già fa mill’anni una simile santa!
Di carità sì risplendenti rai,
Di sapïenzia, e di dottrina tanta!
Marta e Maria insieme tu vedrai
Ne’ libri suoi che or la Chiesa canta.
Ciascun inferno cor trova salute
Per la sua gran virtute:
Or corri a’ piè di quest’alma Regina.
Affettuosa e piena di moralità mi sembra la seguente Laude intonata sulla canzone — Rose, gigli e viole escon dal viso, ecc.
S’i’ pensassi a’ piacer del Paradiso,
Ed agli eterni guai,
Non sare’ mai dal buon Gesù diviso.
Deh, sguarda con la mente, anima mia,
Quella gloria gioconda! Nel ciel s’adempie ciò che si disia,
Quivi ogni bene abbonda;
Però fa che ne sia da vizj monda,
Acciò che al tuo partire
Tu possa gire — a quell’eterno riso.
E poi contempla quell’immenso foco
Dell’anime dannate:
Per un diletto falso, brieve e poco
Son così tormentate!
Ma quel dolor che più le fa penate
È saper con certanza
Senza speranza — star nel foco acceso.
Che ti varrà ricchezze, onori e stato,
O piacer sensuale,
Ch’abbi avuto, essendo poi dannato
Nella pena eternale?
Oh immensa pazzia, o sommo male!
Al ben fare esser sordo,
E star pur lordo — ne’ peccati intriso!
Non vedi tu, che ’l mondo è pien d’inganni?
Chi più vive, più more;
Chi me’ ti par che stia, è pien d’affanni:
Ciascuno ha suo dolore,
Se non colui, che s’è dato al Signore.
Che di ben far non tarda,
E sempre sguarda — il ciel col suo cor fiso.
Destati dunque, e pensa all’altra vita:
Pensa a quel bene eterno!
Tu se’ per far di qui presto partita,
E non temi l’inferno?
Non pensi tu che in dolor sempiterno
Tosto ti troverai,
E viverai — essendo sempre occiso!
Termino colla seguente Laude, ch’è una fervorosa preghiera a Maria Vergine:
Dolce preghiera mia,
Con sospir lacrimosa
Vanne a Maria pietosa,
Che siede in Ciel sopr’ogni gerarchia.
Mena teco la guida
Dell’Angiol benedetto che mi guarda;
Fa che mai tu non rida,
Ma piangi a capo chino, e in terra sguarda:
D’amor fa che tu arda,
E di’ con umil voce:
Mandata son veloce
A te, che d’ogni regno ha signoria.
Il tuo servo fedele
Si trova al mondo in un mortale affanno,
Perchè Dimon crudele
Forte lo tenta con malizia e ’nganno:
Se dal tuo santo scanno
Non discende conforto.
Presto fie vinto e morto
Per l’aspra guerra, e per sua malattia.
Tu se’ del peccatore
Vera speranza, fortezza e colonna,
Perchè ’l sommo Signore
T’ha fatta di Dio madre e del Ciel donna.
Nella tua santa gonna
Si trova ogni salute;
Dunque la tua virtute
Contr’al nemico vittoria ci dia.
Messo del santo Regno,
Che se’ in compagnia del nostro servo,
Dirai che io ho sostegno
Da chi combatte col Dimon protervo:
Come assetato cervo
Ricorri sempre al fonte,
Che le grazie son pronte
A chi con grande umiltà le disia.4
Rappresentazioni Sacre.
Una goffa maniera di drammatiche composizioni era usata in molte nazioni d’Europa fra le tenebre del medio evo, e disputarono gli eruditi sull’origine delle medesime, chi agl’Italiani, chi a’ Tedeschi, chi agli Spagnuoli, chi a’ Francesi, chi agl’Inglesi accordando la precedenza dell’invenzione. Nei secoli xiii e xiv le città nostre eran gremite di tali spettacoli, che si davano o a pubbliche spese, o per opera di ricchi particolari onde far pompa di magnificenza, ed attirare la compunzion religiosa della moltitudine. Peraltro di Dio e di Maria, degli Angeli e de’ Demoni, dei Beati e de’ Reprobi, degli Spiriti e degli Uomini, dei Vizj e delle Virtù si facea d’ogni cosa un guazzabuglio, nè ammettevasi division’ alcuna di atti o di scene, nè unità di azione, nè identità di luogo, nè durazione di tempo, di maniera che se alcuna volta si giudicava che lo spettacolo potesse riuscir troppo lungo in un giorno, se ne riserbava la fine pel dì successivo.
Feo Belcari fu tra’ primi che diede a tali farse una forma più regolare e meglio dialogizzata de’ suoi predecessori, ma non seppe nemmen egli nè svestirle di uno stile basso e pedestre, nè trattar gli argomenti con nobiltà d’immagini e con buon intreccio. Riservata era al Poliziano, al Trissino, al Rucellai, al Machiavelli la gloria di dar principio a modellare sulle greche forme il teatro italiano, al che eglino riuscirono felicemente, senza però potere sradicar giammai quell’amore al prodigioso, che le sacre farse si conciliavano anticamente, e si conciliano, dirò ancora, ai dì nostri. Al nostro pio Belcari bastava il farsi largo nelle coscienze e ne’ cuori delle genti, ed egli trattava argomenti tolti dal vecchio e nuovo Testamento, facendolo però sempre con men irragionevolezza de’ suoi coetanei. Costoro nelle piazze, ne’ teatri, ne’ pulpiti li figuravano allora o una Maria Maddalena che dopo morte continuava ad allattare per mesi ed anni il suo bimbo, o una Dorotea che volava in Paradiso per coglier ghirlande di fiori freschi, e tornava poi in terra a farne dono al carnefice che le avea mozzo il capo; o un’Eufrosina che menava l’april de’ suoi giorni fra una popolazione di frati, onde soffrir tentazioni e rimanersi incontaminata. Le farse di S. Barbara, di S. Orsola, di S. Domitilla, di S. Daria, di S. Agnese, e mille e mille altre, sono tutte di lega tale da dar materia di nuova predica a quel nequitoso frate Cipolla, che volea persuadere ai Certaldesi la legalità delle sante reliquie di una penna dell’Agnolo Gabriello, o di un dito dello Spirito Santo, o d’una delle coste del Verbum Caro (Bocc., Giorn. vi, nov. x). Tali iperboli, tali goffaggini non si racchiudono nelle Rappresentazioni di Abramo e di Isacco di S. Giambatista nel Deserto, e dell’Annunziazione di Nostra Donna, scritte da Feo; ed esse piacquero tanto da trovarsi la prima sin quasi a’ nostri dì ristampata per intrattenimento del volgo, di quel volgo che cogli occhi nostri vestenti scorgiamo trascurare le insigni produzioni di Metastasio, di Goldoni, di Alfieri, per correre senza ritegno alla rappresentazione di Margherita da Cortona, o a quelle pie farse che in alcuni determinati tempi si rinnovano per le strade per dare apparente sfogo ai rammarichj delle anime penitenti. Io non recherò qui esempi del drammatico ingegno del Belcari nostro per solo amore di brevità; ma tornerò a parlarne nel dare il catalogo delle più corrette stampe che ne furono fatte, e che si vogliono scelte da chi tien conto de’ bei modelli di nostra lingua5.
Prose.
Bei modelli di nostra lingua sono particolarmente le purgatissime Prose di Feo Belcari, e queste furono in modo speciale disaminate e adoprate dagli Accademici della Crusca. Purità di vocaboli, belle legature di voci, leggiadria, semplicità proporzionata sempre alla materia, niun uso di parole antiquate, nuina strana confusion di sintassi. Feo è nella lingua quella fresca forosetta che ti talenta senza il prestigio di affatturate bellezze, o tanto più egli riesce mirabile, quantochè ai suoi tempi era quasi cessato l’uso di scrivere in italiano dagli uomini letterati, oppure scrivevan essi con barbaro stile, come ne può fare sperimento chi voglia leggere le Orazioni di Roberto da Lecce, di Bernardino da Siena, di Alberto da Santeano, di Frate Savonarola, Demosteni del loro secolo. Si faccia eccezione di alcune prose da quest’ultimo scritte soltanto dopo aver egli fatto lungo soggiorno in Firenze.
Nel Prato Spirituale da Feo Belcari volgarizzato non può trovar il lettore tante prerogative, perchè tutte l’edizioni ci porgono per mala sorte un testo alterato e corrotto; una di miglior fortuna potè godere la Vita del B. Giovanni Colombino, detta da Antonio Cesari un tesoro di grazie e di eleganze toscane; e da questa sola mi piace trarre qualche breve esempio, opportuno ad invogliar alla lettura di tutta l'opera chiunque non tenga a vile tali fonti preziosi onde attigner i più acconci esempj della materna eloquenza. Si ricordi chi legge, che in autori di questa fatta sono da valutarsi le parole assai meglio che le cose; e quelle baie, che non istarebbero oggidì a martello in mezzo alla soda dottrina e al comune buon senso, voglionsi perdonare a’ semplici nostri padri, riversando di esse la colpa sulla stagione in cui vissero, piuttosto che sull’attitudine de’ loro ingegni: nè io sarò certamente mai sull’avviso del Cesari sullodato, il quale raccomanda di così scipite leggende, conciossiachè le persone spirituali ci trovano dottrine ed esempj di virtù, eccellentissime. Ora, considerato il nostro Belcari come narratore soltanto di purgata favella, udiamo qualche breve tratto, tolto dalla Vita di Giovanni Colombino e di Francesco dei Vincenti Gesuati, quale leggasi al cap. vi. Segnerò in carattere diverso alcune voci che trovansi citate noi Vocabolario:
“I forti cavalieri di Cristo, fatti novelli sposi della altissima povertà, incominciarono allegramente a mendicare addimandando il pane e ’l vino per l’amore di Dio. E in questo modo posti in un’altezza di mente, calcando il mondo sotto i loro piedi, tutte le cose terrene stimavano come fango, e tuttodì crescevano in desiderio di patire e sostenere pene per amore di Cristo: la lame, la sete, il freddo, le nudità, molti disagi, gli obbrobri e le vergogne, tutti gli scherni del mondo, per amor di Cristo aveano per piacere e sollazzo. Bene era certo mirabil cosa, vedere uomini venerabili, e secondo il mondo prudenti e circospetti, ora fatti stolti per diventar savi. Onde l’uomo di Dio Giovanni, innanzi che si facesse povero, andava onorevolmente vestito di panni tinti in grana, molto fini; ed il verno portava, sotto le cioppe, fodere di finissime pelli, col cappuccio alle gote, e co’ guanti foderati, e alcuna volta due paja di calze l’una sopra le altre, co’ calcetti e colle pianelle: mangiava al fuoco, usando cibi gentili e dilicatamente apparecchiati; e con tutto questo pativa pene di stomaco, male di fianco, dolore di testa ed altre infermitadi. Ora, riscaldato dal divino fuoco, lasciando ogni morbidezza e cura di carne, andava iscalzo, niente in capo portando; vestiva una gonnella stretta, e un mantello corto di panno grosso bigello, ed eziandio rappezzati; pigliava cibi grossi rusticamente acconci; e nientedimeno d’ogni infermità era guarito, e dagli usati dolori liberato. Imperocchè l’amore, il quale ardeva nel suo petto, era tanto infuocato, che per in fino al corpo di fuori, per natura freddo, si distendeva; onde ancora quelli pochi panni che portava, teneva isbottonati al petto. Le quali tutte cose un suo amico considerando, lo domandò una volta, dicendo: Or non hai freddo, Giovanni? al quale rispose: Porgimi la mano tua: e pigliandogli la mano, se la messe in seno, e disse: Parti ch’io abbia freddo? rispose l’amico dicendo: Non certamente; anzi sei sì caldo che non ci posso la mano patire.”
Con eguale difficilissima semplicità e naturalezza è scritta l’intera Operetta, da cui ricopierò ancora il racconto di un portento analogo a quello de’ moderni incombustibili, che leggesi al capo xxiv.
“Non è in alcun modo da tacere uno stupendo miracolo, che il nostro Signore Gesù Cristo fece per manifestare la santa dottrina e vita del suo ferventissimo servo Giovanni. E questo è, che essendo una volta il Beato Giovanni con alquanti de’ suoi poveri compagni intorno a uno gran fuoco, e parlando altamente della edificazione dell’anime, uno de’ suoi fratelli, tentato dal demonio, contraddicendo, ingiustamente gli rispose. Al quale l’uomo di Dio Giovanni comandò per santa obbedienza, che tacendo mettesse il capo sotto quelle legne accese, che erano ivi sopra gli alari, il quale, pentito delle sue presuntuose parole, obbedendo puramente al santo padre, mise subitamente il capo sotto le predette ardenti legne, e tanto vi stette, che dal servo di Dio Giovanni ebbe licenza di levarsi. Io dirò cosa mirabilissima e vera: quello obbediente poverello si rizzò, e non ch’egli avesse il capo arso, ma pure uno minimo capello non era abbruciato. Del quale grandissimo miracolo tutt’i circonstanti stupefatti, veduta la santità del loro maestro e padre, non ardivano poi in alcuna cosa a lui di contrapporsi. In fra i quali fu presente Vanni di Conte da Montecchiello, di sopra nominato, che sopravvisse all’uomo di Dio Giovanni degli anni più di quaranta; il quale di poi questo miracolo, e la santità, che egli miracolosamente ad Arezzo, mediante le virtù dal B. Giovanni, ricevette, spesse volte con gran divozione recitava.”
Nella stampa di questo mio Opuscolo, fatta in Milano, per Cairo e Compagno, 1808, in 8, segue qui il catalogo di tutte le opere a stampa di Feo Belcari, Catalogo che essendosi già inserito nella seconda edizione della mia Serie de’ Testi di Lingua, ecc., Milano, 1812, vol. 2 in 16, è inutile di replicare adesso. In vece sua gradirà il Lettore di avere qui una Lettera da Feo Belcari indirizzata ad un suo amico, o piuttosto un fervido suo Sermoncino contro la vanagloria, per la prima volta reso pubblico dal ch. canonico Domenico Moreni nelle Lettere di Feo Beicari, Firenze, Magheri, 1828, in 8. La facondia dello scrittore va di pari passo con quel buon senso, e con quella solidità di dottrina di cui mi è parsa assai povera la vita del B. Colombino.
“Avendosi ne’ dì passati, dilettissimo fratello, scritto la ricetta del Beato Iacopone che ordinò a sanare l’anima, ho da te risposta assai consolatoria, sì per la tua salute, e sì per mia edificazione, perocchè conoscendo tu la infermità, e la sua cagione, hai gran principio della tua sanità. Tu mi scrivi, che lo stimarti troppo più ch’è il vero, e gloriarti in te medesimo, ti pare cagione e radice della tua malattia: la quale cosa, dato che sia difetto molto comune, non è pero meno mortifero. Ed io essendo di tale piaga percosso, come l’altro rimedio a te scrivendo, a me medesimo l’ho ricettato; così questo, che per me ho raccolto, a te lo mando; il quale, come elettuario della sanità conservativo, avendo, quanto la soprascritta medicina dispone, osservato, è utilissimo spesse volte con la bocca della mente pigliarne una presa. Il quale similmente dal predetto Iacopone ho avuto, che alle superbe orecchie così esclamando, dice:
O uomo a pensare, |
Quali sono le cagioni perchè tanto ti estimi? quali sono i tuoi beni, pe’ quali tanto ti apprezzi? che dignitadi hai tu acquistate, per le quali tanto li stimi? che prodezze hai tu fatte, per le quali tanto ti reputi? che magnificenze hai tu usate, per le quali ti vedi così eccellente? che gentilezze e moralitadi sono le tue, che ti pensi essere così nobile? che scienze hai imparate, per le quali ti giudichi così savio? che provvedimento è in te, che così prudente ti consideri? che ingiurie hai tu sostenute, che tentazioni o altre cose avverse hai tu sopportate, per le quali ti conosci così forte? Come hai tu raffrenati gl’illeciti desiderj del cuore? Come hai tu regolati i mali appetiti de’ sensi, che ti proclami così temperato? Che amore hai portato a Dio ed al prossimo? e che opere di pietà hai osato, che così caritativo ti tieni? Come hai osservato i comandamenti e consigli divini, che tanto fedele ti pare essere? In quali estremi hai combattuto, che tanto virtuoso ti contempli? Che orazioni o digiuni, che vigilie o discipline o penitenze sono le tue, per le quali così buono ti presumi essere? O superbo uomo, di che ti glorj? perchè se’ così elato? perchè così arrogante? perchè così tanto prosontuoso? Non sai tu, che quando tu avessi o tutto o parte di queste virtù, a te non si debbe la gloria appropriare, ma al Padre de’ lumi, dal quale discendono tutte le virtù, e tutti i doni perfetti? Non hai tu memoria, che l’Apostolo dice: che non siamo sufficienti, come da noi, di pensare il bene, non che di operarlo? Non ti ricorda che il Signore disse: senza me niente potete fare, cioè, che non possiamo fare senza lui se non il peccato, che è detto niente? Non ti rammenta ancora che dice: Quando avete fatto i miracoli, ed esercitate tutte le buone operazioni reputatevi servi inutili?
O uomo, mettiti a pensare, |
Forse mi diresti: Io ho gloria delle cose temporali. A che ti rispondo: Pensa il tuo principio, e mezzo e fine, ed esamina diligentemente se hai da insuperbire. Tu sai primieramente, che ’l tuo nome uomo è detto da humo, cioè loto, ovvero fango, di che il primo padre Adamo fu formato; e corpo umano vuol dire corpo fangoso. E questo ancora nella nostra generazione massimamente appare; però, che è il nostro fetido seme, di che siamo generati se non loto? che è il bruttissimo e puzzolente luogo nel quale siamo concetti, se non fango? che è lo immondo sangue, di che siamo in quella sozza carcere nodriti, se non peggio che fango e loto? La qual cosa veramente dimostrò Iob quando disse a Dio: Mi hai fatto come loto. Considera adunque di che se’ fatto e formato, e mettiti a pensare se di qui ti debba nascere vanagloria; e se dal tuo mezzo ti gloriassi e vanamente ti riputassi, contempla la vita tua, e comincia dalla natività, e guarda con quanta immondizia e povertà tu entri in questo amaro mondo; e considera con quanta viltà e miseria tu nasci, che più di tutti gli altri animali, e più che qualunque mortale creatura in questo se’ povero e misero; perocchè ciascuna di quelle ha minore bisogno nel nascere di te; quasi tutte nascono con quelle veste colle quali vivono, ed ognuna di loro più tosto si regge per sè medesima, e minore fatica si dura ad allevare; ma il misero uomo subito quando è nato, piagne, e predice la miseria di questa valle di lacrime. E poichè sono molto manifeste le infermità e necessità della ignorante fanciullezza, non è mestieri ripeterle. E se della perfetta età ti gloriassi, ricerca particolarmente, e troverai in qualunque cosa corporale qualche altro animale che ti avanza. Perocchè nel lungo vivere il cervo ti trapassa, nello ardire il leone, nel vedere il lupo cervieri; e così negli altri sensi, o corporali virtù, troverai molte creature eccedere l’uomo, le quali non racconto per dir brieve. E così moltissimi animali ed infinite piante sono che hanno in sè alcuna cosa corporale ch’è utile e preziosa, ma il misero uomo, non che nel suo corpo abbia cosa degna e virtuosa, ma da ogni parte e per ogni luogo de’ sensi genera e getta loto e fango, siccome cosa in sè tutta fangosa e lotosa; ond’è buono rimedio contra la sua superbia da Michea profeta, che dice: La umiliazione tua è nel mezzo di te. Imperocchè se dentro ti consideri, conosci che non se’ altro che sterco, puzzo e feccia. Se ti levi in alto per la tua abundante e splendida vita, pensa che questo è a tua confusione; perocchè quante più cose usi pel tuo superfluo vitto, tanto se’ più povero e misero che gli altri animali; perocchè quasi tutti stanno d’uno solo cibo contenti, ed il simile faresti tu quando non fussi peggiore che le altre creature. Se hai vana estimazione della tua bellezza, pensa quanto è facile a perderla, e quanto poco dura; perocchè come ’l fiore nasce e muore, e in danno comune s’usa, e così a molti è stata cagione della morte del corpo, ed a moltissimi dell’anima, e ad infiniti è risultata in loro detrimento e danno. Se hai vanagloria della sanità, considera con quanta difficoltà si mantiene, e quante sono le cose che te la possono torre, e con quanto amare medicine, poichè è ismarrita, si racquista; ed intendi che non è veruno sì robusto e valido che non sia infermo, perocchè di continuo moriamo, ed allora diciamo essere morti quando non moriamo più; ed eziaudio quasi tutti gli atti corporali procedono da infermità. Perchè dormi? se non perchè t’è pena il vegghiare. E poi, perchè ti desti? se non che non puoi dormire. Perchè mangi? se non perchè non puoi soffrire il disagio. E poi, perchè t’astieni dal cibo? Se non che t’è nocivo. E così i nostri naturali movimenti si guariscono pei loro contrarj. Se hai gloria dei figliuoli, in questo tu se’ pari a qualunque creatura, anzi inferiore; poichè agli altri animali, quando hanno allevati i loro figliuoli, gli lasciano, e di loro e della loro fatica non fanno alcuna ragione, parendo loro aver fatto quello a che erano obbligati. Non così l’uomo. Avendo nutricati i figliuoli, ha fatto a quanto era tenuto? Se ti apprezzi ed estimi degno per la bellezza o virtù della tua donna se’ presso che io non dissi, stolto, perocchè se è bella sarà la bellezza reputata da Dio, e quanto è più bella, maggior signoria e spesa hai a sopportare; e s’ella è onesta e virtuosa, sarà appropriato l’onore a lei, che è cosa ragionevole. Ma se è al contrario, la vergogna sarà tua, perocchè vuole così la legge del mondo. Se ti estolli e levi molto per li officj o altre dignità, questo è bene atto sciocco; perocchè cosa è l’officiale? se non servo e ministro della giustizia. Ma forse tu dirai: In questo è la gloria mia, che io sia preletto e antiposto agli altri. A che ti rispondo: che per avventura potresti in qualche parte dire il vero se noi fussimo ne’ tempi di Saturno; ma noi siamo nati nella fecce de’ secoli, in modo che se con sano occhio risguarderai, troverai la maggior parte degli uomini posti nelle prelazioni e magistrati aversi più da vergognare che da gloriare, sì per la loro indegnità, e sì per le cagioni e pe’ mezzi co’ quali sono a tali officj stati assunti; perocchè più con simonie e doni, o per parentadi ed amicizie, o per altri illeciti modi sono a tali gradi esaltati; le quali cose tutte procedono dalla loro isfrenata cupidità ed ambizione. Se hai gloria delle ricchezze, in questo ti doveresti ben vergognare, sapendo che il ricco o egli è iniquo, o erede dello iniquo; perocchè o tu non le hai guadagnate; cioè, che da altri ti sono state lasciate; ovvero tu hai messo il tempo più in questo che in altra cosa; ed etiam rade volte fa roba chi non ruba, ed è segno di animo cupido ed avaro a congregar tali beni. E non solamente è riprensibile tra Cristiani, ma ancora tra Pagani, perocchè moltissimi infedeli, conosciuta la viltà delle ricchezze, volontariamente le hanno abbandonate e disprezzate, considerando i mali che seco recano; chè, intra gli altri, si acquistarono con fatica, possegonsi con timore, e perdonsi con dolore; ed è una servitù di idoli amare le ricchezze, ed intra tutte le nazioni del mondo sempre dagl’intendenti furono più estimati e più famosi quelli che a’ beni temporali fuggirono, che quelli che gli cercarono. Sicchè di nuovo esclamo:
O uomo, mettiti a pensare, |
Se dalla tua fine avessi gloria, questo sarebbe somma stoltizia, perocchè l’uomo non ha tanto da umiliarsi quanto è la terribile morte vedendo, e considerando con quanti dolori, con quante paure, con quante ansietà l’anima si parte dal corruttibile corpo. Che cosa è più orrenda che l’uomo morto? quale cosa più sozza, quale cosa più puzzolente che il corpo fracido? perocchè dalla carne nascono infiniti vermini, dal cerebro venenose botte, dalle intestina e dalle parti genitali animali bruttissimi; e così da ogni parte produce somma calamità e miseria. O misero uomo (misero, dico, perocchè altro vocabolo non t’è più confacente), esamina il principio, mezzo e fine della tua bugiarda vita, e considera onde ti nasce la gloria vana; perocchè da veruna parte non hai da gloriarli, se già non fussi di quella pessima brigata che dice David profeta, i quali si gloriano quando hanno fatto male, e rallegransi e fanno festa nelle cose pessime. Forse, se di queste ti volessi insuperbire, avessi più ampia cagione e materia, che dell’altre, pei tuoi ingiusti e disonesti desiderj, per le tue fraudolenti e cattive parole, e per li tuoi iniqui e scellerati fatti. Destati adunque da questo mortale sonno, levati dagli occhi della mente questa pestifera feccia di tanto vana e maledetta reputazione. Arrendi cotesto tuo durissimo collo, inchina lo intelletto alla verità della Sacra Scrittura, e troverai tutti i Santi quanto più sono stati savi, quanto più scienziati, quanto più onorati, quanto più virtuosi, quante migliori cose hanno operate, e quante più prerogative hanno avute, tanto si sono reputati più vili e più obbligali a Dio che gli altri, gli esempli de’ quali sono infiniti. E a te gli lascio leggere e considerare, perocchè la vertù della umiltà è uno lume di verità, per lo quale l’uomo vede, di tutt’i peccati e vizj ch’egli ha commessi, essere la colpa sua, e tutti i beni che possede, così spirituali come corporali, essere da Dio; e tutti i buoni pensieri e desiderj che egli ha avuti, e tulle le sante orazioni e parole ch’egli ha dette, e tutte le virtuose e laudabili opere ch’egli ha fatte, vede e conosce essere stata la divina grazia che in lui le ha operate. Risguarda, priegoti, con diligenza te medesimo, e vedrai veramente che da ogni parte t’hai da vergognare, e di’ con l’Apostolo: Non piaccia mai ch’io mi giorj, se non nella Croce del mio Signore Iesù Cristo, nel quale è la salute, vita e resurrezione nostra; e così specchiandoci di continuo in essa Croce, vedremo la nostra gloria essere in lei, e conosceremo perfettamente la nostra viltà e miseria; e in questo modo da questa crudelissima bestia della superbia, ovvero vanagloria, saremo liberati, Vale in Domino.”
Data a S. Martino a dì... di giu.... 1445.
Tra le prose lasciate da Feo Belcari, sospetta il diligentissimo ricercatore di sue patrie lautezze, il canonico Moreni, che possa ascriversegli anche la Vita di Filippo di Ser Brunelesco, e la Novella del Grasso Legnajuolo, da esso pubblicate in Firenze negli anni 1813 e 1820: checchè siasi, resta abbastanza a fantasticare, anche senza di esse, per quelli che delle scritture del Belcari, messesi a stampa in vecchie edizioni, voglia o far indagine o far raccolta. Nè a me riuscì lieve fatica il tesserne soltanto il minuto catalogo, fatica che a taluno può parere inutile, giudicando tempo e danaro perduto l’indagine e l’acquisto di simil merce.
L’anno in fatti 1807 si è stampato in Brescia un arguto libricciuolo intitolalo: Vita di S. Lazzaro monaco e pittore, preceduta da alcune Osservazioni sulla Bibliomania, Brescia, Bettoni, 1807, in 8. Corra a leggerlo chi vuol apprendere che il delirio della Bibliomania è una nuova peste della buona società, nè può se non ch’essere figlio del lusso, della frivolezza, dell’idiotaggine. L’autore vi sfoggia sue ragioni con più che attico sale, e rimprovera coloro che sono mossi a riempiere i magnifici loro scaffali con questi monumenti di vana ostentazione e di niun’utilità. Egli raccomanda che campeggi la filosofia, e con essa i lumi dello spirito in chi raccoglie e conserva i libri preziosi; o muti vocazione colui che acquista libri senza saper distinguere le gemme dal fango e senza voglia di leggere e di studiare: paragona infine le miserabili indagini del Bibliomaniaco a quelle di un povero cieco che s’invoglia di far raccolta di pitture, o di un sordo che voglia riunire per uso proprio ogni genere di strumenti. Queste dottrine non ammetteranno replica, e saranno farmaco utilissimo a chi avrà bisogno di essere sanato da cotal morbo. Quanto a me, confesso che riterrò sempre l’animo molto più disposto alla misericordia di quello che non lo abbia l’egregio cav. Cicognara, nome caro alle Arti e alle Lettere, ed autore delle Osservazioni suddette. Egli è difetto ordinario degli uomini il cadere in un estremo per evitarne un altro; e l’estremo in cui cadesi suol esser maggiore di quello che cercasi di evitare. Ammaestrato da questa verità, mi piace di andar a rilente prima di sottoscrivermi a qualche canone, tanto più iperboleggiato quanto che mi par evidente che in grosso uomo sprovveduto quasi affatto di lettere, non possa mai venir il griccio di raccogliere suppellettili letterarie. Che se pur accadesse che fosse posseduto da questa smania, e che impiegasse il suo danaro in acquisti di libri per mero fasto, io mi sentirei l’animo proclive a prestar anche a costui ogni tutela, compatendo una passione che non fa torto ad alcuno, il cui risultamento può o presto o tardi tornare ad indicibile vantaggio delle Scienze e delle Lettere, allontanando, se non altro, le troppo amare conseguenze che ci derivano dall’oltramontana ingordigia, la quale non ristà dall’attentare allo spoglio delle nazionali nostre ricchezze. Quanto poi sia giovevole alla patria quel coltissimo cittadino, che, senz’aspirare alla fama di grande letterato, forma con onesto trasporto della sua abitazione un tempio sacro a Minerva, egli è tema di bell’elogio, e lo sarebbe per me altresì di giusta riconoscenza e della maggior soddisfazione del cuore, da niun altro fonte, fuorchè da questo, derivata essendo la qualunque mia educazione.
Note
- ↑ Febo scrisse il Poggiali nelle Serie de’ Testi di Lingua, ma ciò per errore corso in qualche antica stampa delle Operette di questo scrittore.
- ↑ Dopo la stampa di questo mio opuscolo, fattasi in Milano l’anno 1808, si pubblicarono le Lettere di Feo Belcari in Firenze, 1825, in 8, e nella Prefazione del benemerito canonico Domenico Moreni si sono date alcune notizie intorno alla di lui vita. Per esse sappiamo che nacque l’anno 1410, che ebbe numerosa famiglia, che coprì cariche distinte nella sua patria, che morì il dì 16 di agosto 1484, e che fu pianto con una Deploratoria di Girolamo Benivieni in terza rima, riconsegnata dal Moreni alla luce dopo le dette Lettere. Riporta lo stesso editore anche una bella e lunga lettera scritta al Belcari da suora Costanza di Stefano Cimperelli da Prato, monaca di s. Brigida, in occasione della morte di suora Orsola di lui figliuola.
- ↑ Al mio distacco dalla famiglia Remondini andarono dispersi i miei manoscritti, e tra gli altri anche quello delle Rime del Belcari.
- ↑ Una canzone e due Sonetti del Belcari ha pubblicato anche il Poggiali nella Serie de’ Testi di Lingua, ecc. Livorno, 1813, vol. 2 in 8.
- ↑ Questo Catalogo trovasi nell’edizione fatta a Milano l’anno 1812 della mia Serie de’ Testi di Lingua, ecc., e qui si omette siccome lavoro bibliografico.