Nel deserto/Parte I/Capitolo III
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III.
Ella si alzò presto la mattina dopo; sentì che anche lo zio si era alzato e che Costantina lo aiutava a vestirsi e gli lavava i piedi e gli tagliava le unghie.
— Lo faccio perchè anche Gesù Cristo lavò i piedi agli Apostoli; se no, in verità, vostè non se lo meriterebbe, — diceva la serva con ironia, mentre egli non cessava di lamentarsi. — Fosse stato almeno giovane, lei!
— Quando ero giovane avevo cameriere autentiche, belle, grasse ed eleganti, e non straccione come te!...
— Si vede che sono tutte scappate, tanto vostè è insopportabile.
Egli diventò cupo e tacque; segno ch’era in collera davvero: allora, per farsi perdonare, Costantina gli disse:
— Che piedi piccoli ha vostè: io non no ho visto mai, di così piccoli; sembrano piedi di donna, così bianchi, freschi, venati come il marmo bardilio....
Ed egli sorrideva con compiacenza, tenero alle lodi appunto come una donna.
Ma finita la toeletta si alzò e non lasciò più in pace la ragazza. Sotto il comando energico e rabbioso di lui, ella ripulì i pavimenti, sbattè i tappeti, rimise in ordine la camera. Lia si presentò, offrendo umilmente il suo aiuto, ma lo zio la respinse.
— Perchè pago, allora? Se tu l’aiuti, quella canaglia non fa più niente!
Costantina sospirava: finse di asciugarsi il sudore con la palma della mano e la scosse e disse:
— È sangue, è sangue, come quello di Cristo! Pazienza!
Finalmente prese il cestino e andò a far la spesa, Lo zio Asquer guardò con gli occhiali se i pavimenti erano puliti bene anche sotto i mobili, se dietro gli sportelli e gli usci c’eran tele di ragno; andò di camera in camera, lentamente, rimettendo in ordine gli oggetti spostati dalla serva; e solo quando si assicurò che nulla mancava e tutto era a suo posto parve calmarsi e uscì. Tutte le mattine andava dal barbiere, e in attesa dell’ora della colazione vagava per le strade e per i giardini come un operaio disoccupato, fermandosi a guardare le costruzioni nuove, un cavallo caduto, le vetrine dei calzolai e delle mercerie: comprava i giornali del mattino e andava a far sosta nel giardino della stazione: seduto all’ombra, in un angolo solitario, sbuffava e leggeva, tirandosi ogni tanto i calzoni sulle ginocchia e mettendo in mostra le sue calze scozzesi e i nastri ben legati delle sue scarpette. Lì per lì s’interessava a quello che leggeva, ma ripiegato il giornale non ci pensava più. La politica, i problemi sociali, l’arte, la scienza, la cronaca? Come potevano interessarlo se appartenevano a un mondo già lontano da lui? Il suo mondo egli lo portava con sè, come un carico ove eran chiusi tutti i suoi pensieri, le sue sensazioni, il suo dolore continuo, assorbente: era la metà semi-paralizzata della sua persona. Egli sentiva più questa parte morta che la sua parte viva; era un cadavere, il suo cadavere, ch’egli portava con sè, e il cui peso lo schiacciava, lo rendeva triste, finto e irritabile. Come non esserlo, in simile compagnia? Come pensare al mondo dei viventi quando egli era già a metà in quello dei morti? Ed egli amava la vita, perchè non aveva vissuto, e tutte le cose belle del mondo, l’amore, il piacere, i paesi lontani, tutto era più ignoto a lui che a Lia medesima. Gli pareva che il contatto con le persone giovani e sane lo rendesse ancora più misero e acerbo: esse eran vive, egli era già morto. Ed egli taceva anche a sè stesso questo continuo rimpianto, ma il suo dolore senza sfogo s’incancreniva sempre più, entro il suo cuore, come un tumore maligno non curato. All’attesa della morte s’univa poi la paura d’una lunga agonia, di anni ed anni d’immobilità, e il terrore di essere assistito dalle cure di una serva. Ecco perchè aveva chiamato Lia.
*
In quei luminosi e quasi melanconici pomeriggi egli la condusse a visitar Roma, senza dimenticare un monumento, un angolo storico, uno dei punti indicati dalla Guida, come se Lia dovesse ripartire e non riveder più la Città. Un giorno presero anche la serva e andarono in carrozza fino alla Via Appia antica, al di là della tomba di Cecilia Metella. Mentre lo zio Asquer indicava col pomo del suo bastone i punti più celebri del paesaggio, e Costantina si morsicava le grosse labbra per non ridere, tanta era la sua gioia, Lia guardava affascinata i prati d’oro, interamente coperti di ranuncoli, e al di là le linee verdi della campagna seguite dai profili azzurri dei monti: tutto era armonia e luce; gli alberi scintillavano su sfondi di perla e le tombe e alcune rovine le ricordavano i «nuraghes» della sua terra lontana.
Quando smontarono, Costantina, ripresa dai suoi istinti di paesana, si slanciò nel prato a cogliere erbe mangerecce; e zio e nipote sedettero come pellegrini stanchi sul ciglio d’un tumulo incoronato di cipressi.
Il vecchio taceva, col pomo del bastone sulla guancia, il viso triste ed immobile, gli occhi perduti nella lontananza. Le allodole si richiamavano fra le rovine, i cinque cipressi del tumulo si slanciavano come raggi neri sul cielo d’ametista, e una delle loro ombre copriva Lia e si stendeva ai suoi piedi fino al prato d’oro. «A che pensa lo zio Asquer?» ella si domandava, e lo sentiva lontano da lei, più freddo, più scuro di quell’ombra. Il senso di solitudine e di abbandono che ella credeva di aver lasciato sotto il palmizio della landa la raggiunse sotto il cipresso della Via Appia. Le sembrò di essere in un cimitero; e trasalì quando lo zio Asquer le parlò.
— Muoviti, Lia; va anche tu nel prato!
— Si sta bene qui, zio!
Egli si volse lentamente verso di lei e col pomo del bastone cominciò a battersi lievemente la mano morta scintillante d’anelli.
— Lia, mi sembra che ti annoj!
— Che dite, zio! — ella esclamò arrossendo. Tacque, poi rise. — Perchè, zio?
— Almeno ne hai l’aria! Stavi meglio laggiù?
Egli indicò un punto lontano, verso l’ovest; Lia ricordò la tristezza dei lunghi pomeriggi primaverili di laggiù e si scosse tutta, come un uccellino appena svegliato.
— No, no, no, no, zio! Si sta così male, laggiù! Non c’è da far paragoni, zio!
Egli rise, piano, piano, con quel suo riso che pareva un lieve raschiamento di gola, e parve parlare al suo bastone.
— Certo, non è una gran città quella!... E dunque, Lia, parla sincero; ti piace stare a Roma?
— Sì!
— Dimmi Li verità, non senti la nostalgia? Ti dispiacerebbe ritornare in Sardegna?
— Perchè dovrei tornarci? Non siete contento di me, zio?
Ella attese con ansia la risposta che tardava.
— Ma un giorno o l’altro.... addio, zio Asquer! Hai pensato a questo, Lia? Io feci male a non dirti subito che io non ero più svelto e pieno di salute come un giovinetto; ma avevo paura che tu credessi il mio invito dettato da un moribondo. D’altra parte, adesso, visto che tu ti affezioni troppo alla vita di città, ne provo rimorso.... Lia, io non ho molti giorni da vivere, e non sono un egoista, come forse sembro....
— Perchè pensare all’avvenire? — disse Lia, pallida e turbata. — Voi state bene, e forse camperete più di me. Io, poi, sarò contenta dappertutto, basta che siate contento voi.
— Brava! Son le ragazze delle novelline educative che parlano così; ma quelle son ragazze che per lo più non esistono. Ragioniamo, invece, giacchè abbiamo cominciato; io non volli scriverti le mie intenzioni perchè tu non mi conoscevi nè io ti conoscevo, e quando due non si conoscono e fanno un progetto da eseguirsi assieme, sono entrambi o sciocchi o in mala fede. Io pensavo: lasciamola arrivare, lasciamo che ella giudichi da sè lo stato in cui io mi trovo e l’ambiente in cui ella dovrà vivere. Tu sei qui da tre settimane appena, Lia, ma credo che le cose ti sieno già apparse nel loro vero aspetto. Se io ti avessi veduto scontenta, non avrei esitato a dirti: riparti, e restiamo amici. Ma ti vedo tale e quale come quando sei arrivata, tutt’altro che pazzamente allegra, ma certo più allegra di quanto dovevi esserlo laggiù, nel deserto. Tu sei sempre eguale a te stessa, come un cielo sereno: talvolta qualche nuvola passa attraverso questa serenità un po’ melanconica, ma svanisce subito senza lasciare ombra. Tu sei diversa dalle altre donne, Lia, permettimi che te lo dica: se tu fossi stata come le altre, io non ti avrei parlato come ti parlo. Non so se il tuo carattere farà la tua felicità; certo farà quella delle persone che dovranno vivere con te. Io non godrò a lungo di questa fortuna; ma finchè vivrò, se tu mi starai vicina, mi parrà di poter sperare ancora.... E adesso devo dirti una cosa, Lia: io non sono ricco. So che non te ne importa niente, ma importa a me. Avrei potuto mettere da parte qualche cosa, ma non l’ho fatto; ho passato la vita da egoista, pensando sempre a me; e quando uno pensa molto a sè, di solito gli altri lo abbandonano, sicuri che egli basti a sè stesso. Allora egli finisce col credersi assolutamente solo, come un eremita nel deserto, e nulla più esiste per lui tranne che lui stesso. Io sono abbastanza ricco per me, Lia: io ho una buona pensione; ma morto io nulla rimarrà. Che farai tu, allora?
— Non pensate a me, zio! No.... no.... non ci pensate!...
— Possiedi qualche cosa?
Ella si meravigliò di questa domanda, e rispose sottovoce:
— Mi pare di avervi già detto che ho una casupola e una vigna. Ma adesso la vigna è distrutta e la casetta è quasi una rovina.
— Che cosa fa tua zia Gaina? Ricordo che parlava molto, ma concludeva poco.
— Fa il pane per venderlo. Vive di questo.
— Tu non hai avuto proposte di matrimonio?
— Sì (ella ricordò con ripugnanza i suoi pretendenti). Due.... un giovane proprietario, abbastanza ricco ma ubbriacone, e il maestro di scuola.... un uomo di cinquant’anni!
— Fosse stato giovane, si poteva ajutare: ma ad un uomo di cinquant’anni, che per di più pensa ad ammogliarsi, non c’è che da porgere una corda perchè si impicchi!
Lia si mise a ridere; ma lo zio Asquer parlava serio, quasi tragico.
— Non ti venga mai in mente di sposare un uomo vecchio o uno che non abbia una posizione sicura: il matrimonio è l’atto più tragico della vita, e sovente le donne, sposandosi, imitano la farfalla che la fiamma attira e brucia.
Lia, che sognava l’amore senza però sperare in un matrimonio ideale, approvò con un cenno del capo, ma non osò parlare dei suoi sogni. Che lo zio fosse povero o ricco non le importava: bastava ch’egli le volesse bene e si facesse voler bene da lei.
— La povertà non è da temersi, zio; quello che è insopportabile è la solitudine.... Laggiù io ero sola.... sola, capite.... E se sposavo uno di quei due sarei stata ancora più terribilmente sola.... Mentre qui, zio, la vostra bontà.... il rendermi utile a voi.... la vostra compagnia....
.S’alzò, confusa, incapace di esprimere bene il suo pensiero.
— Bella compagnia! — gridò Costantina, che s’era arrampicata sul tumulo per cogliere una foglia d’acetosella.
E anche il vecchio si alzò e minacciò la serva col bastone; ma ella era in alto, nera accanto al cipresso nero, col grembiale colmo di erbe, e rideva inebbriata di verde e di sole, mentre i lembi del suo fazzoletto scuro svolazzavano come ali e pareva accennassero al padrone di calmarsi e lo irridessero anche.
*
Rotto il ghiaccio, lo zio Asquer dopo quel giorno cominciò a parlare fin troppo di quanto fino allora aveva taciuto. Qualche volta era allegro e domandava a Lia notizia dei suoi pretendenti, burlandosi del maestro di scuola; più sovente però tornava sul melanconico argomento della sua prossima fine, della sua scarsa eredità. La primavera calda e ventosa lo rendeva fiacco e nervoso; pareva che a un tratto egli si preoccupasse dell’avvenire di Lia più che del suo. Costantina s’immischiava nella questione, e in segreto diceva a Lia che lo zio Asquer possedeva molti denari, ma davanti a lui ripeteva:
— Vostè morrà quando io e signoricca saremo vecchie come le pietre, se prima lei non ci farà morir di bile. Quando resteremo sole metteremo su una pensione, come dicono che farà la vedova qui accanto a noi, e forse troveremo anche marito....
— Ah, certo, — diceva Lia, — a nessun costo tornerò in Sardegna.
Eppure, talvolta, ella sentiva una specie di nostalgia fisica; quando stava per addormentarsi le pareva di star seduta ancora sotto il palmizio, o affacciata alla sua piccola finestra: rivedeva la sua camera, coi quadretti appesi allo pareti bianche, quella della zia, coi vagli e i canestri, e il pozzo del cortiletto con un piccolo specchio verdastro in fondo; sentiva il ronzìo delle api, l’odore delle erbe aromatiche, e si addormentava nella pace selvaggia della landa. Anche in sogno viveva l’antica vita, ascoltava il borbottìo della zia Gaina, provava un senso di desolazione, sognava Roma! Svegliandosi provava la dolcezza di veder il suo sogno già fatto realtà. I gridi dei rivenditori ambulanti risuonavano nell’aria un po’ umida del mattino: cominciava quella dell’«acetosaro», un grido melanconico, lungo e cadenzato, che pareva venisse dalla campagna ancora addormentata; seguiva quello della venditrice di ranocchie, poi quello del merciaio ambulante, infine quello del giornalaio che annunziava con una certa calma i giornali del mattino; egli non s’affrettava perchè a quell’ora la gente premurosa dei fatti propri non s’occupa ancora dei fatti altrui.
A poco a poco le voci s’alzavano, fresche talune, altre rauche e assonnate, alcune fioche e timide, altre prepotenti e quasi minacciose; i rivenditori di frutta e di erbaggi vantavano la loro merce, alcuni gridavano con voce tenorile aggettivi sonori, ma con inflessione ironica, quasi beffandosi del cliente che prestava loro fede.
Verso le nove la strada era tutta un mercato; non mancavano i pescivendoli coi cestini colmi di pesci argentei, scintillanti, quasi ancora umidi d’acqua marina. Lia provava un gusto infantile a contemplare quel quadro colorito, animato da figure volgari ma caratteristiche. I capelli già ravviati delle serve riflettevano la luce azzurra del mattino; grosse donne in spolverina e fornite di valigie, pronte a intraprendere il faticoso viaggio di una giornata di economie, si fermavano davanti ai carretti di frutta e pesavano con la mano ad una ad una le arance mature, e le erbivendole sorridevano egualmente al cuoco dal viso d’imperatore romano e alle vecchiette che compravano esitando due soldini di cicoria. Costantina andava da un cestino all’altro, pesava le arance e sbucciava un pisello, prendeva un grappolo roseo di ranocchie, scuotendolo e arrovesciandolo come un grosso fiore carnoso; tirava su un cefalo argenteo, ne apriva le pinne, l’odorava, lo rimetteva: litigava con tutti.
Al di là del muro un uomo in camicia gialla coltivava un pezzetto di terra, due cagnolini giocavano all’ombra dei salici, e dietro gli olmi fioriti il sole illuminava una fila gialla di palazzi e di conventi.
Una mattina Lia vide alla finestra attigua alla sua un bambino di cinque o sei anni, che sporgeva e ritirava la testa, volgendosi di qua e di là curioso e irrequieto; e stette ad osservarlo intenerita, notando le sue manine affilate e nervose, il visino che pareva scolpito nell’avorio, illuminato da due grandi occhi castani e incorniciato dai capelli biondicci, lisci, lunghi sulle orecchie e tagliati a frangia sulla fronte. Vedendosi osservato egli cominciò a fare il grazioso, buttando in aria alcune briciole di pane e riprendendolo con la bocca, e guardando Lia di nascosto come per accertarsi che il gioco le piaceva.
Lia gli sorrise: egli si ritrasse, poi ritornò, le fece vedere una palla rossa, poi un cavallino con tre sole gambe: ed entrambi cominciarono a sorridersi, a guardarsi, a farsi cenni di saluto, attraverso le persiane, finchè una donna non mise anche lei fuor della finestra il viso terreo di mulatta circondato di capelli neri crespi, e dopo aver fatto un cenno di saluto a Lia, tirò dentro il bimbo e socchiuse le imposte. Lia sentì il bambino protestare con lunghi strilli nervosi e andò a chiedere a Costantina notizie dei loro nuovi vicini.
— La vedova che stava qui accanto, nell’appartamento attiguo, è andata via ed è venuto a starci un signore argentino, che scrive nei giornali del suo paese. Anche lui è vedovo; ha un bambino, e una governante che non è nè bianca nè negra; ed è lei che comanda e fa tutto in casa: si chiama Rosario, come un uomo, ha un muso di cane arrabbiato.
Nel pomeriggio Lia incontrò in via Boncompagni il suo piccolo vicino e la governante bassa e grossa, vestita come le bambinaie more: abito d’indiana scura, grembiale bianco e paglietta gialla. Il bambino spariva sotto un gran cappello di paglia col nastro verde: nel veder Lia sollevò il visino e sorrise, mostrando tutti i suoi dentini che sembravano perle, ed ella si fermò, affascinata, come vinta dal desiderio di abbracciarlo: ma la donna salutò e passò oltre tirandoselo dietro. L’indomani Lia lo attese alla finestra e gli domandò come si chiamava.
— Salvador. E tu?
— Lia.
Questo nome gli parve nuovo e divertente: lo ripetè parecchie volte, come fra sè, ridendo, poi lo gridò su tutti i toni, finchè la mulatta non chiuse sgarbatamente la finestra.
Era una domenica, e nel pomeriggio Lia e lo zio andarono anch’essi a Villa Borghese. Le strade erano insolitamente animate da gruppi di serve vestite di bianco e d’azzurro, e da buoni padri di famiglia che conducevano i figli a prendere il gelato; buoni padri grassocci e vigorosi, simili, in mezzo alla corona dei loro rampolli, a quercie attorniato da promettenti quercioli.
Don Luigi Asquer brontolava, scettico e diffidente, preoccupandosi per l’avvenire di tanta ragazzaglia, chiamando incoscienti i buoni padri, incoscienti le serve, incoscienti le vecchie mamme che conducevano a spasso le figlie anzianotte e melanconiche: anche Lia si lasciava suggestionare dal malumore del vecchio e guardava con pietà ironica l’umile folla domenicale, quando a un tratto il suo viso s’illuminò di gioia. Nel marciapiedi opposto ella vedeva uno dei tanti buoni padri, che conduceva a passeggio il suo bambino: l’uomo era alto, piuttosto grasso e molle, vestito di nero e con un panama guarnito di crespo da lutto; il suo viso scuro e pensieroso, gli occhi grandi e neri, le labbra grosse sotto i piccoli baffi bruni, e sopratutto l’espressione melanconica del suo sguardo ricordavano a Lia alcuni tipi di uomini del suo paese. Il bimbo era Salvador.
Lungo via Boncompagni fu un continuo sorridersi e guardarsi, fra Lia e il suo piccolo vicino di casa; l’uomo vestito a lutto volse lo sguardo pensieroso e salutò, e lo zio Asquer cominciò a brontolare.
— Per me gli argentini han tutte le brutte qualità dei sardi; la stessa tabe spagnuola nel sangue; boria, beffe, diffidenza, quanta ne vuoi!
Invano Lia protestò; il nuovo vicino di casa aveva anche il torto di essere un giornalista, razza maledetta (diceva lo zio Asquer) che si ficca di continuo nei fatti altrui e non rispetta neanche la santità della vita domestica. Entrarono nella Villa che egli borbottava ancora; tacque solo quando, sedutosi davanti a una fontana, si mise a leggere il giornale. Il luogo era melanconico: altri due vecchi, una giovane signora e due ragazze dall’aspetto malaticcio, sedevano attorno, sul sedile circolare di pietra corrosa; guardavano l’acqua verde della vasca e parevano intenti al pianto monotono dell’acqua che cadeva dal vaso di pietra della fontana. Ma spingendo lo sguardo, Lia vedeva lo sfondo grandioso del parco, il sole che cadeva roseo attraverso gli alberi dorati, i seminaristi che giocavano a «football», rossi, sul verde del prato, come fiamme guizzanti.
Dal Pincio luminoso arrivavano soffi di musica: gridi di gioia, lamenti d’amore; attraverso il verde si vedevan piume rosee e nere svolazzanti sui cappelli delle signore, e lo carrozze e i pedoni giravano e rigiravano, sparivano in fondo ai viali, riapparivano, come se in lontananza vi fosse una festa, ma in un posto che la gente, per quanto cercasse, non riusciva a trovare.
All’improvviso un piccolo grido risuonò alle spalle di Lia. Ella si volse e vide il visetto di Salvador dietro il tronco di un albero, e più in là, seduto sull’erba e con un giornale in mano, l’uomo vestito a lutto. Lia accennò al bambino di accostarsi, ma egli rideva e si nascondeva dietro il tronco, e solo quando ella volse di nuovo il capo verso la fontana, saltò sul sedile, alle spalle di lei, e le disse:
— Io ti avevo veduto e tu non mi vedevi!
Lui si volse e lo afferrò per la vita, montr’egli tentava di scappare.
— Fallo ancora, fallo ancora! — egli disse, prendendo gusto al gioco. — Io vengo di nascosto e tu mi prendi.
Ritornò dietro il tronco, saltò di nuovo sul sedile; e continuò il gioco finchè una voce calma e lenta non lo richiamò: allora Lia si volse e incontrò gli occhi pensierosi e malinconici dello straniero. Ottenuto il permesso dal padre, Salvador ritornò e andò a esaminare il bastone dello zio Asquer. E lo zio Asquer non sollevò gli occhi dal giornale, ma intuì il pericolo e strinse il bastone fra le gambe. Salvador tornò da Lia.
— È una testa di cane? Perchè non la metti fra i tuoi giocattoli?
— Io sono grande e non ho giocattoli.
— Che cos’hai, allora? Nulla? E perchè il tuo papà non ti compra una chitarra?
— Io non ho papà.
— Ah, io l’ho, sì! Eccolo, è quello, lo vedi? Volgiti, dunque!
Ella si volse, per compiacerlo, e di nuovo incontrò lo sguardo profondo dello straniero.
Mentre parlava, Salvador le si aggirava attorno, toccandole il cappello, i bottoni, i guanti; ma ella rispondeva a bassa voce ed egli finì con l’annoiarsi e tornarsene nel prato. Nell’andarsene, lo straniero salutò di nuovo e guardò Lia.
E per tutta la sera ella ebbe davanti agli occhi quel viso scuro, quegli occhi profondi. Nei giorni seguenti rivide spesso, dalla finestra, il bimbo e la governante mulatta; e ben presto si accorse che il vedovo ogni volta che usciva e rientrava, sollevava gli occhi, la guardava, e si volgeva anche, prima di svoltare in fondo alla strada. Allora ella provò una impressione di sorpresa gradevole, come uno che si trovi perduto in un deserto e all’improvviso sull’arida sabbia scopra l’orma d’un piede umano.
Tutto ad un tratto la sua solitudine si animò di sogni. Il vedovo non era il primo che la guardava; altri uomini, per le vie di Roma, la fissavano negli occhi, ma con occhi bestiali, e molti le offrivano di accompagnarla, costringendola ad affrettare il passo: nello sguardo dello straniero c’era invece qualcosa di fraterno, e talvolta ella aveva l’impressione che anch’egli fosse vinto da un senso di abbandono e di solitudine, come lei e come tanto altre creature sole in mezzo alla folla. Ma ben presto ricominciò a diffidare. No, egli non era solo, aveva famiglia, amici, era un giornalista, cioè un uomo, secondo lo zio Asquer, conosciuto, ricercato, temuto da tutti, indifferente a tutto.
*
Intanto s'avvicinava l’estate, e lo zio Asquer, che non amava la campagna e non si moveva mai da Roma, col sopraggiungere del caldo diventò più irritabile e strano. Per non prender parte alle discussioni fra lui e la serva, Lia si ritirava nella sua camera e si metteva a lavorare accanto alla finestra, ascoltando i trilli, i canti, le grida del piccolo Salvador. Qualche volta, col lavoro in mano si sporgeva sul davanzale e vedeva il visino del bimbo che le sorrideva attraverso il vuoto fra la persiana e il muro. Un giorno egli le disse che doveva partire per il mare.
— Tu non vieni?
Ella disse di no, sospirando: per confortarla egli le promise di lasciarle in consegna il suo cavallino rotto.
Nel pomeriggio si rivedevano spesso a Villa Borghese, ove lo zio Asquer aveva preso l’abitudine di passare qualche ora al fresco davanti alla fontana. La mulatta accompagnava Salvador: col viso camuso reclinato sul petto lavorava una sciarpa di seta e pareva meditasse qualche cosa di molto fosco, mentre il bimbo giocava sul prato e di tanto in tanto correva a lei per farsi pulire le manine e il naso. Lia e lo zio stavano dall’altra parte del sedile e solo qualche rara volta scambiavano un saluto o poche parole con la signora Rosario. Anche Lia ricamava, ma spesso si incantava guardando la fontana, la cui lingua d’acqua, guizzante in alto, nel centro del vaso, pareva dicesse tante cose strane, spesso allegre, più spesso melanconiche.
Qualche volta Salvador s’avvicinava a lei, appollajandosi come un uccellino sulla spalliera del sedile, e ricominciava i soliti discorsi finchè la mulatta non lo richiamava con un grido gutturale, raccomandandogli di non dare «turbacion» alla signorina, di non essere «desobediente» nè «malo»: ed egli se ne tornava nel prato a cogliere erba per le sue pecorine di legno.
Lia non lo confessava a sè stessa, ma si annoiava: nulla, a pensarci bene, era mutato nella sua vita; l’appartamento dello zio Asquer aveva sostituito la casupola della zia Gaina, e la quercia di Villa Borghese il palmizio della brughiera. Ella si sentiva sempre sola, e si domandava dov’ora l’utilità, la pienezza della vita ch’ella aveva sognato. Accompagnava lo zio con un certo senso di protezione, ma questo non le poteva bastare. Essi non conoscevano nessuno e vivevano in mezzo alla grande città come in un’isola disabitata: se qualcuno salutava lo zio, per la strada, ella domandava: «chi è?», e il vecchio rispondeva con un nome. Nomi e null’altro; ormo sulla sabbia, che il vento cancellava tosto.
Dal sedile della fontana ella spiava talvolta se una figura d’uomo, alta e un po’ grave, s’avanzasse nel viale come un’ombra amica; ma dopo quella prima domenica il vedovo non aveva più accompagnato il bimbo alla Villa.
Ai primi di luglio sparvero anche la governante e Salvador, e le persiane attigue a quelle di Lia furono chiuse. Roma si spopolava. Nel pomeriggio la via, battuta dal sole, ancora coperta di avanzi di erbaggi, pareva la strada di un villaggio; Lia vedeva i venditori di ciliegio che agitavano le bilancie d’ottone lucenti come lune, ricordava i cavalcanti di Gavoi, che portavano le ciliegie fino al suo paesetto, e un’ombra di nostalgia le velava lo sguardo. Ella rimpiangeva i sogni perduti; ma aveva ventitrè anni e nuovo fantasticherie seguivano alle antiche. Nella sua cameretta piena di sole le sembrava di soffocare come entro una scatola di cristallo; sognava il mare, le montagne, e per quanto girasse e rigirasse per il vasto appartamento, finiva col tornare davanti al suo cestino da lavoro, oppressa dai suoi pensieri che pur lo sembravano piccoli, frivoli e inutili come i ricami che ella eseguiva.
Un giorno, su un tavolino di caffè, vide un giornale illustrato con fotografie della spiaggia di Anzio, e mentre lo zio Asquer batteva il bastone per terra e contemplava il cielo d’un azzurro metallico, illudendosi che lo tende gialle e bianche dei negozî, sbattute dal vento di ponente, fossero vele gonfiate dal maestrale, ella guardò le figurine delle donne vestite di bianco, coi lunghi veli svolazzanti, i profili dei bimbi e quelli degli uomini in maglia, alcuni obesi e ridicoli, altri piacevoli a guardarsi, eleganti come statue o, se drappeggiati negli accappatoi, solenni, sullo sfondo marino, come figure di antichi sacerdoti.
Un senso d’invidia la rattristò: le pareva che quei bagnanti dovessero tutti sentirsi felici con l’anima piena di luce, di tutti i riflessi e di tutte le voci del mare. Ella non sperava di poter un giorno partecipare a tanta gioia; ma non poteva impedire alla sua fantasia di cercare, tra la folla della spiaggia, due figure a lei note. Pensava a Salvador con tenerezza materna, e le sembrava di vederlo guizzare tra l’acqua e la sabbia come un pesciolino: e accanto alla figurina del bimbo vedeva quella del padre, alta e grave, taciturna, in mezzo alla folla seminuda e garrula dei bagnanti, come quella di un esiliato.
Allora il ricordo del suo vicino di casa non l’abbandonò più; e piano piano, senza ch’ella lo volesse, l’amore nacque nel suo cuore come nasce il filo d’erba sulla roccia. Una notte sognò di trovarsi ancora davanti al suo mare selvaggio, sotto il palmizio; a un tratto la figura del vedovo apparve in lontananza e si avanzò lentamente su per il sentiero; le si sedette accanto, le prese una mano, avvicinò il viso al viso di lei e la baciò, senza dirle una parola; e rimasero così davanti al mare infinito, finchè la stessa emozione profonda ch’ella provava non la svegliò.
*
Questo sogno fu come il lievito che fermentò la sua passione fantastica. Il veleno dolce ed acre del desiderio le agitò il sangue, e un giorno, in settembre, nel rivedere all’improvviso il suo vicino di casa e nell’incontrarne lo sguardo, provò la stessa sensazione violenta che l’aveva svegliata dal sogno. Le parve che egli l’abbracciasse con lo sguardo e che le loro anime s’unissero come in un bacio. Rimase a lungo immobile davanti al cielo rosso del tramonto, vinta da un sentimento di gioia mai provato; per la prima volta, dopo anni ed anni di solitudine, sentiva il legame che la univa ai suoi simili, e le sembrava che finalmente anche per lei il mondo si popolasse di spiriti amici.
Salvador la salutò dalla finestra, sporgendo il piccolo viso abbronzato, e cominciò a raccontarle mille bugie graziose, e qualcuna anche terribile, come quella, per esempio, che un giorno stava per affogarsi.
— Ma la mia mamma, su in cielo, ha pregato «il» Dio di salvarmi.
— Ricordi la tua mamma? — domandò Lia a bassa voce.
— Sì, sì, — egli rispose indifferente. — Ero piccolo, quando è morta; adesso è in cielo davanti «al» Dio.
— Sai le preghiere?
Egli recitò l’ave-maria in spagnuolo e immediatamente dopo domandò:
— Adesso mi dài lo zucchero?
— Perchè?
— Perchè così fa la signora Rosario.
— Vieni a casa mia e te lo darò.
Egli corse a domandare il permesso, ma subito ritornò alla finestra scuotendo la testa.
— Non posso. Ora deve venire papà.
Ed entrambi attesero il ritorno del vedovo, sorridendosi di tanto in tanto, come uniti dallo stesso pensiero.
Ben presto la portinaia oziosa, Costantina, le erbivendole, si accorsero che Lia e il vedovo si guardavano con tenerezza; e la prima per speranza di lucro, la seconda per bontà naturale, le altre per curiosità cominciarono a spiare con simpatia l’idillio: solo la mulatta fece subito capire che non approvava le aspirazioni del suo padrone. Cominciò col proibire a Salvador di andare da Lia e di affacciarsi alla finestra; a Villa Borghese cambiò posto e un giorno dichiarò francamente a Costantina che il suo padrone cercava una seconda moglie, sì, ma con dote.
Costantina riferì i discorsi a Lia.
— Per faxla arrabbiare le dissi, a quella cornacchia, che lei, signoricca, è molto benestante, che ha tanche e bestiame e servi in Sardegna, e che se vuole può sposare i più ricchi proprietari sardi, non un forestiere che non si sa da dove venga, un vedovo con figli, uno che oggi guadagna, è vero, ma che domani può morir di fame.
Lia arrossì e protestò, ma in breve le chiacchiere di Costantina giunsero fino allo zio Asquer e immediatamente la commedia volse in dramma. Il vecchio non domandò a Lia se nelle supposizioni delle serve e delle erbivendolo ci fosse ombra di vero; ma diventò più irritabile del solito, e a tavola, a passeggio, por giorni e mesi non fece altro che parlar male degli stranieri, e specialmente degli americani del sud, che dipingeva a sua nipote come altrettanti avventurieri, astuti, beffardi, calcolatori. Ella ascoltava, inquieta e disgustata; capiva le allusioni dello zio, e nel veder il suo segreto divulgato provava come un senso di pudore offeso.
— Io non domando nulla, — diceva a sè stessa, — perchè dunque questa volgare ostilità?
E sembrandole che lo zio fosse animato, come la serva mulatta, da un solo impulso d’egoismo, sentiva un istinto di ribellione e di difesa: non si affacciò più alla finestra, nelle ore in cui sapeva che il vedovo usciva o rientrava, ma le sue fantasticherie si fecero più intense e più luminose, come le nuvole all’appressarsi del sole.