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Questo nome gli parve nuovo e divertente: lo ripetè parecchie volte, come fra sè, ridendo, poi lo gridò su tutti i toni, finchè la mulatta non chiuse sgarbatamente la finestra.

Era una domenica, e nel pomeriggio Lia e lo zio andarono anch’essi a Villa Borghese. Le strade erano insolitamente animate da gruppi di serve vestite di bianco e d’azzurro, e da buoni padri di famiglia che conducevano i figli a prendere il gelato; buoni padri grassocci e vigorosi, simili, in mezzo alla corona dei loro rampolli, a quercie attorniato da promettenti quercioli.

Don Luigi Asquer brontolava, scettico e diffidente, preoccupandosi per l’avvenire di tanta ragazzaglia, chiamando incoscienti i buoni padri, incoscienti le serve, incoscienti le vecchie mamme che conducevano a spasso le figlie anzianotte e melanconiche: anche Lia si lasciava suggestionare dal malumore del vecchio e guardava con pietà ironica l’umile folla domenicale, quando a un tratto il suo viso s’illuminò di gioia. Nel marciapiedi opposto ella vedeva uno dei tanti buoni padri, che conduceva a passeggio il suo bambino: l’uomo era alto, piuttosto grasso e molle, vestito di nero e con un panama guarnito di crespo da lutto; il suo viso scuro e pensieroso, gli occhi grandi e neri, le labbra grosse sotto i piccoli baffi bruni, e sopratutto l’espressione melanconica del suo sguardo ricordavano a Lia alcuni tipi di uomini del suo paese. Il bimbo era Salvador.