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In quei luminosi e quasi melanconici pomeriggi egli la condusse a visitar Roma, senza dimenticare un monumento, un angolo storico, uno dei punti indicati dalla Guida, come se Lia dovesse ripartire e non riveder più la Città. Un giorno presero anche la serva e andarono in carrozza fino alla Via Appia antica, al di là della tomba di Cecilia Metella. Mentre lo zio Asquer indicava col pomo del suo bastone i punti più celebri del paesaggio, e Costantina si morsicava le grosse labbra per non ridere, tanta era la sua gioia, Lia guardava affascinata i prati d’oro, interamente coperti di ranuncoli, e al di là le linee verdi della campagna seguite dai profili azzurri dei monti: tutto era armonia e luce; gli alberi scintillavano su sfondi di perla e le tombe e alcune rovine le ricordavano i «nuraghes» della sua terra lontana.

Quando smontarono, Costantina, ripresa dai suoi istinti di paesana, si slanciò nel prato a cogliere erbe mangerecce; e zio e nipote sedettero come pellegrini stanchi sul ciglio d’un tumulo incoronato di cipressi.

Il vecchio taceva, col pomo del bastone sulla guancia, il viso triste ed immobile, gli occhi perduti nella lontananza. Le allodole si richiamavano fra le rovine, i cinque cipressi del tumulo