Nel deserto/Parte I/Capitolo IV
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IV.
Non vedendola più, Justo Villanueva, che non ostante le cattive qualità affibbiategli dallo zio Asquer era un uomo timido, stanco e nostalgico, credette che ella fosse malata, o fosse ripartita: ogni volta che usciva o rientrava, sollevava gli occhi, e la finestra di Lia senza la caratteristica figurina di lei gli sembrava una cornice da cui fosse sparita una immagine prediletta.
Salvador parlava di Lia ma senza preoccuparsene troppo; la mulatta, più astuta del cavalier Asquer, si guardava bene dal riferire al padrone le chiacchiere della portinaia e di Costantina.
Un giorno, verso la fine di settembre, Justo s’era appena seduto a tavola, nella sala da pranzo la cui finestra era appunto attigua a quella di Lia, quando la mulatta, dopo averlo servito con aria truce, tese l’indice verso Salvador.
— Lo guardi bene, e gli domandi che cosa ha fatto stamattina.
Salvador, di solito sfacciato, chinò la testa e chiuso gli occhi per sfuggire lo sguardo paterno.
— Che hai fatto?
Silenzio, seguito dalla domanda ripetuta più energicamente. Allora Salvador scoppiò a piangere e mormorò fra i singhiozzi:
— Ho rubato.
Il padre, quasi sempre molle e affettuoso col bimbo, si turbò: guardò la donna come per rinfacciarle la colpa di Salvador, e fu a lei che domandò:
— Che cosa? Dove, come, come?
La storia era breve: passando accanto ad una fruttivendola, Salvador aveva rubato una pera: ma i commenti furono lunghi, e il padre si sdegnò maggiormente quando il bimbo, per difenderei, disse che «aveva veduto un altro ragazzo prendere così una pera».
— Anche bugiardo! Sì, chi è bugiardo è ladro!
Per castigarlo lo mandò a mangiare in cucina: e tutti rimasero scontenti, la mulatta perchè trovava il castigo troppo mite, Salvador perchè lo trovava troppo duro, il padre perchè una nuvola nera passava davanti alla sua fantasia inquieta.
«Mio figlio ha rubato!» Egli ricordava davvero, fra i suoi ascendenti spagnuoli, qualche tipo di avventuriero: sua moglie era stata una donna nervosa, morta giovanissima per anemia cerebrale: egli quindi vedeva talvolta il suo bimbo come circondato da una fitta caligine, e provava un’angoscia paurosa perchè si sentiva impotente a strapparlo al suo destino fatale. Egli, che nei suoi articoli dava consigli ai potenti della terra e insegnava come si devono governare i popoli, si sentiva incapace di educare un bambino: spesso, come aveva fatto quel giorno, parlava a Salvador di doveri, lo minacciava, lo supplicava come un uomo già fatto; ma si accorgeva che le sue parole gravi cadevano nell’anima lieta del bimbo come sassi nel mare.
Mentr’egli sentiva nella sua modesta colazione un sapore di veleno, Salvador, in cucina, già rideva e rifaceva i versi della signora Rosario.
Justo suonò, sollevò il viso severo e incontrò lo sguardo bieco della mulatta.
— Perchè il bambino fa chiasso?
— Perchè è cattivo.
— Fatelo lacere!
Ma dopo un momento le risate e i trilli gorgheggiarono ancora: per frenare la sua collera paterna, il vedovo passò nel salottino, si mise a fumare e pensò a Lia. Ella gli piaceva: si sentiva attirato a lei quasi da una affinità di razza, e l’affetto che ella dimostrava a Salvador era già un tenue filo che li univa attraverso uno spazio sconosciuto. Come avvicinarla? Come conoscerla? Questi quesiti gli fecero dimenticare il problema dell’educazione di Salvador, lo calmarono e lo confortarono. Egli era già grato alla sua vicina per il peso che gli toglieva.
Nel cortile melanconico si spandeva il canto di Costantina che lavava i panni alla fontana: la sua voce cadenzata e nostalgica vibrava come un grido di prigioniero, e il suo stornello in dialetto logudorese ricordava i mori, le barche dei pirati, e diceva d’una donna «hermosa» che si affacciava a una «ventana» fiorita di «graveglios».
Justo, ascoltandola, pensava di nuovo ai suoi avi spagnuoli, ma con un senso di nostalgia, col desiderio di cambiar vita, di ricostrurre l’edificio rovinato della sua famiglia.
Anche sopra il cortile, sullo sfondo delle bianche e gialle nuvole di settembre, le rondini passavano e ripassavano, garrendo con gridi di richiamo, quasi per avvertirsi scambievolmente che era tempo di cambiar aria, di partire per lidi lontani.
*
S’inoltrava l’autunno, e Lia si sentiva vincere giorno per giorno da una melanconia insolita. Lo zio Asquer quando non parlava degli stranieri, la fissava con uno sguardo cattivo, e vedendola sempre più magra e pallida muoveva le labbra per dire qualche cosa, ma poi si frenava e nello sforzo il suo viso si contraeva più del solito, con macabra ironia.
Se la nipote usciva sola, al ritorno erano domande aspre, dispettose, allusioni a un suo possibile incontro col vedovo; più di una volta ella trovò le sue poche carte smosse e capì che lo zio aveva frugato in cerca di qualche lettera amorosa. Ella invece evitava Justo, e se incontrava il piccolo Salvador lo abbracciava arrossendo, vinta da un turbamento puerile, come se il bimbo fosse l’uomo a cui ella, senza volerlo, pensava continuamente.
Un giorno, in ottobre, andò sola a Villa Borghese, e sedette accanto alla fontana, nel medesimo posto ove per la prima volta il suo sguardo s’era incontrato con quello di Justo. Nulla era mutato intorno: pareva fosse la stessa stagione, col cielo azzurro sparso di nuvolette bianche, gli stessi preti rossi sul verde dei prati, gli stessi tipi di sognatori attorno allo specchio verdastro della fontana: ma Lia si sentiva mutata e le pareva che l’autunno fosse dentro di lei. Quante illusioni cadute! Chiudendo gli occhi le sembrava di vedere la figura della zia Gaina, sotto il palmizio, e ne ascoltava ancora le profezie.
A un tratto, però, una fiamma le colorì il viso e il suo cuore cominciò a battere con violenza. Salvador correva verso di lei e in fondo al viale sparso di foglie dorate si avanzava la figura attesa tante volte invano. Il bambino saltò sul sedile e le disse:
— Sono col mio papà: ti cercavamo ed io sapevo ch’eri qui!
Lia lo strinse a sè e mormorò qualche parola, ma senza sapere quello che si dicesse, colta da un senso di spavento. Lo pareva di sognare: Justo le si era fermato davanti, l’aveva salutata, s’era seduto accanto a lei. Ella vedeva come attraverso un velo i grandi occhi di lui, d’un nero verdognolo, fissarla con curiosità e con bontà, distingueva le labbra di lui, un po’ pallide, i denti bianchi e forti ma alquanto irregolari, e pensava con terrore a quel che avrebbe detto lo zio Asquer se avesse saputo....
Ma a poco a poco si rifrancò: Justo le parlava di cose indifferenti, le diceva che la governante aveva la febbre reumatica e che quindi gli toccava di farne le veci.
La sua voce velata e cadenzata e il suo accento che rassomigliava alquanto a quello dei veneti sembravano a Lia ironici e benevoli nel medesimo tempo, e non le dispiacevano.
— Non le pare che ci sia troppo umido, qui, signorina?
Ella si guardò attorno e rispose gravemente:
— Sì, forse c’è troppo umido.
Justo parve allarmarsi, come per un imminente pericolo; guardò Salvador e disse:
— Cerchiamo un altro posto.
Ma Lia non si mosse, fredda e rassegnata.
— Dovunque vada, in questa stagione c’è umido da per tutto....
— Lei viene spesso qui, signorina?
— Sì.... cioè no.... Qualche volta!
— Questo è il suo posto favorito?
Ella pensò ancora allo zio Asquer, ebbe paura, poi si fece coraggio.
— Sì, — disse sottovoce.
E Justo abbassò gli occhi, timido e pensieroso, mise una gamba sull’altra e col bastoncino cominciò a battere ostinatamente la suola della sua scarpa, come per provarne la resistenza.
Il picchiettìo del bastone risuonava nel luogo solitario. Finalmente egli domandò, con un sospiro:
— Non si annoia, signorina?
— Oh, no! Perchè dovrei annoiarmi?
— Perchè la monotonia annoia. Non c’è cosa che guasti lo spirito come l’abitudine di far sempre le stesse cose, di pensar sempre alle stesse cose.
Ripresa da un senso di diffidenza, Lia guardava di sbieco l’uomo non più giovanissimo, grande e indolente, sedutole accanto, e si domandava se era lo stesso a cui ella pensava: all’improvviso sentì vergogna dei suoi sogni fantastici e riacquistò tutto il suo spirito di contraddizione.
— E lei, — disse con dispetto, — non fa sempre lo stesse cose? Sieno pure variato, non sono sempre le stesse?
— Oh no, signorina! S’io farò un viaggio in Sardegna non sarà la stessa cosa come un viaggio in Grecia.
— Viaggio l’uno, viaggio l’altro! — ella ribattè, anche offesa dal paragone che non lo pareva lusinghiero per la sua isola.
— Lei è pessimista, signorina!
— Tutt’altro! Le ripeto che non mi annoio, sebbene giudichi la vita monotona, eguale dappertutto.
— Lei giudica così la vita perchè è monotona la sua vita, signorina; noi giudichiamo tutto attraverso il nostro temperamento: spesso ci sbagliamo.
— E lei, scusi, come può giudicare la mia vita?
— È facile, signorina! Dal suo viso. Ella ha un viso da araba, che riflette, direi, la solitudine del deserto.
Lia arrossì e come assalita da un’angoscia improvvisa sentì le lagrime velarle gli occhi; ma volse il viso dall’altra parte e richiamò Salvador che giocava nel prato.
Justo s’accorse del turbamento di lei e tacque; ma dopo qualche momento le domandò con voce mutata, titubante, come se il trovare le parole italiane gli fosse più difficile del solito:
— Lei dunque non cambierebbe vita?
— E perchè no, — ella disse, scherzando, mentre il cuore le batteva forte. — Se mi offrissero di diventar milionaria accetterei subito.
— Crederebbe di diventar felice?
— Non si trattava di questo, ma semplicemente di cambiar vita.
Discussero alquanto sull’eterno tema della ricchezza e della felicità; e Lia ripeteva ingenuamente le teorie dello zio Asquer, contraddicendosi e facendo sorridere spesso il vedovo, che la guardava fisso, e la trovava graziosa, ingenua, semplice, ma non riusciva a spiegarsi quell’espressione di tristezza e di diffidenza che spesso velava gli occhi di lei. Ma ella finì col dire:
— L’uomo o la donna, poveri, sono soli, sempre così soli! Si dà loro l’elemosina, talvolta, ma nessuno concede loro amore.
Egli sorrise.
— Eppure anche i poveri si amano, si sposano, e formano anche numerose famiglie; le più numerose, anzi!
— Non parlo di quest’amore! — ella disse, arrossendo; poi tacque e sfuggì lo sguardo di lui che si era improvvisamente animato.
Dopo quel giorno si rividero spesso, ritrovandosi al medesimo posto, alla stessa ora, quasi si fossero dato convegno. Lia ben presto si accorse che egli voleva studiarla, e a sua volta non perdeva una parola dei discorsi di lui. Egli le raccontò ch’era d’origine spagnuola: suo padre, medico, stabilitosi a Buenos Aires con la speranza di formarsi una buona clientela era morto giovane, d’un’infezione malarica, lasciando il figlio orfano e solo. Il ragazzetto aveva fatto di tutto; l’operaio, il fattorino, il tipografo, il correttore di bozze, poscia lo stenografo e il cronista.
La sua natura un po’ indolente lo portava a sognare con nostalgia l’Europa: da dieci anni viveva a Roma, e la sua giornata passava, altrettanto monotona quanto quella di Lia, tra il Caffè Aragno e la sala dei corrispondenti. Alla notte scriveva articoli di politica europea per i giornali di Buenos Aires; soffriva d’insonnia, e più che i destini delle nazioni e le loro alleanze o le loro guerre, lo preoccupava l’avvenire di Salvador.
Un giorno, poichè egli si lamentava dell’inettitudine della mulatta a educare il bambino, Lia gli domandò perchè non lo metteva in collegio o non lo affidava ad una istitutrice.
Il vedovo odiava i collegi; pensava però ad una istitutrice.
— Mi deciderò a cercarla se non riuscirò a farmi amare da una donna che vuol bene a Salvador e che potrebbe fargli da madre.
Ella lo guardò, timida e dolce, ma anche diffidente, e domandò esitando: — Chi sarebbe?
— Lei lo sa, signorina!
Lia chinò gli occhi, e prima di rispondere parve raccogliersi, interrogando un’ultima volta il suo cuore. Justo non cessava di guardarla, e il viso di lei, illuminato dal sole, gli parve rischiarato da una luce interna.
— Lia, — pregò, timido come un fanciullo, — mi risponda....
— Alloro, senta, se non le dispiace, parliamo sul serio, — ella disse finalmente. — Sa lei chi sono? Sono orfana e povera: sono ignorante.
— Se lo fosse non lo direbbe! Ma ella forse vuol dirmi che anch’io non sono un grand’uomo, nè celebre, nè ricco!
Lia si mise a ridere.
— Sarebbe bella che io pretendessi tanto. Lei mi onora fin troppo.... volendomi bene, abbassandosi a me!
E il ricordo dello zio tornò ad oscurarle il viso.
— Mio zio, — ricominciò, imbarazzata, — non sarà forse troppo contento che io lo abbandoni così. Ma bisogna scusarlo.... È vecchio, è originale e malato....-Io non ho altri parenti che lui; sono sola e povera, le ripeto....
— Se non vuol farmi dispiacere non insista! L’essenziale è che ella mi voglia bene, e che voglia bene al mio bambino.
— Questo sì! Questo sì! — mormorò Lia con fervore. — Ho voluto bene a Salvador fin dal primo giorno che l’ho conosciuto. Oh, stia sicuro, per questo; saprò educarlo, guidarlo. Sarò felice di aver finalmente uno scopo nella vita: è questo il mio sogno. Da ragazzetta, sognavo di diventar maestra perchè, nel mio paesetto, non vedevo altra possibilità di rendermi utile agli altri ed a me stessa: passavo per un’originale ed ero antipatica a tutti. E forse lo sono ancora....
— A me no!
Lia tacque, sembrandole ch’egli l’ascoltasse, al solito, benevolo ma anche un tantino ironico. Vedendola pensierosa, egli però lo disse:
— Io non capisco perchè lei parla sempre di sè con disprezzo: si direbbe ch’ella non conosca sè stessa, le forze occulte, le bellezze, la luce che nasconde la sua anima. Mi dà l’idea di uno che si ostina a tener chiuse le finestre della sua casa, e rimane al buio, mentre fuori una luce meravigliosa inonda l’aria. Apra, apra un po’ le finestre, Lia; non dica che è povera e ignorante, mentre è ricca di fede e di intelligenza....
Ella ascoltava, pallida, commossa: se egli le avesse rivolto le più ardenti frasi d’amore non si sarebbe turbata così. E cominciò a raccontargli il suo melanconico passato, e com’era giunta a Roma col sogno di cambiar vita.
— Ma mi trovai come davanti a un muro insormontabile. Mio zio è buono, è intelligente; ma non mi ama abbastanza per capirmi. La mia vita, qui, è simile a quella che conducevo al mio paese: i giorni passano ugualmente inutili....
— Ebbene, non passeranno più così.... se ella vorrà!...
— Oh, se lo vorrò! — ella disse, alzandosi.
Era tempo di andarsene: il sole ora tramontato, e solo un angolo della vasca brillava, come se dentro l’acqua ardesse un lume. Justo prese Lia per la vita, ed ella, nonostante il terrore che provava pensando a suo zio, lasciò fare: e così se ne andarono, attraverso i viali più solitari, sotto l’occhio della luna che saliva grande e rosea sul cielo verdastro.
Lia non dimenticò mai quella sera: sentiva un’ebbrezza profonda, non perchè aveva trovato un uomo che la amava, ma perchè quest’uomo le prometteva una vita nuova. Le pareva di esser già un’altra donna; di essersi liberata da un laccio.
Ritornarono assieme a casa, passando sotto le mura illuminate dal crepuscolo glauco e rosso; le foglie cadevano dagli alberi, gialle, simili a fiori appassiti; in lontananza i cristalli delle finestre brillavano come lastre di smeraldo; tutto era dolce, luminoso e melanconico come l’amore di Lia.
— Allora a domani, — disse Justo, camminandole a fianco con la sua andatura un po’ lenta e quasi stanca. — Porterò a suo zio tutti i miei documenti, perchè prevedo che per lui le sole mie parole non basteranno!
L’ingresso e la scala del palazzo erano deserti: i due fidanzati salirono assieme e quando furono davanti all’uscio di Lia, Justo la strinse a sè e la baciò sulle labbra: e lei non protestò per paura che lo zio la sentisse.
*
L’indomani Justo mandò la mulatta a domandare se il cavalier Asquer poteva riceverlo; la donna andò, cupa in viso, e rispose con aria tragica che il cavalier Asquer, sebbene si sentisse poco bene, avrebbe ricevuto il signor Villanueva alle tre pomeridiane.
Lia, in camera sua, aspettava inquieta, oppressa da un tristo presentimento: lo zio non aveva aperto bocca; ma ov’egli passava, trascinando il suo piede e il suo bastone, si spandeva come un’aria di temporale: ella pensò di scrivere a Justo pregandolo di rimandare a un altro giorno la sua visita, ma non ne ebbe il coraggio, e neppure osò muoversi quando egli suonò. Costantana corse ad aprire e fece passare Justo in salotto: subito dopo il picchiettio del bastono dello zio risuonò nel corridoio. Lia sentì un’angoscia profonda; con uno sforzo di volontà riuscì a calmarsi, e in punta di piedi andò nella sala da pranzo, che comunicava col salottino. Costantina stava già ad origliare; ma appena vide la padrona lo corse incontro, l’afferrò per le braccia e le mormorò sul viso:
— Signorina! È venuto per chieder la sua mano!
— Va, va! — supplicò Lia, appoggiandosi all’uscio, con la testa bassa e le braccia abbandonate lungo i fianchi quasi stesse per svenire.
Lo zio Asquer parlava con un accento che Lia non gli conosceva ancora: con voce sorda, che egli invano cercava di rendere fredda e sarcastica.
— Tutto questo va bene: ma, caro signore, pensi che lei ha un bambino e che anche Lia è una bambina. Essa non conosce le difficoltà della vita, e tutto perciò le sembra facile: oggi ama il bambino perchè è carino, grazioso, perchè non le dà fastidio e perchè.... insomma, i bambini piacciono a tutti. Ma domani.... domani, diventando matrigna, il fanciullo le apparirà sotto un diverso aspetto.... Non so se Lia potrà assumersi la responsabilità di educarlo, di compatirlo.... Lei mi capisce.... E non so se Lia sappia....
— Capisco. Ma la signorina Lia sa tutte questo cose, e a sua volta le capisce benissimo, e accetta coscientemente tutte le responsabilità che il suo nuovo stato necessariamente le porterà.
Seguì un inquietante silenzio.
— Ali, Lia sa? Dunque.... sa?
— Eh, certo! Vuole che io venissi qui senza prima aver interrogato la signorina Lia?
— Ha fatto bene! Mia nipote però, ne convenga, doveva anche avvertirmi. Ci avrebbe forse risparmiato uno sgradevole colloquio. Perchè io, glielo dichiaro francamente, sono contrario a questo progetto.
— Per quali ragioni?
— Anzitutto la differenza d’età. Lia ha poco più di venti anni, lei avrà passato i quaranta....
— Non ancora, cavaliere! — disse Justo con voce sarcastica.
— Eppoi il bambino, lo ripeto! Eppoi la differenza di condizione, di educazione, di abitudini, di principî, fra lei e mia nipote, eh, eh....
A questo punto lo zio Asquer fu assalito da una tosse nervosa e stridente che gli impedì di proseguire; per rispondere Justo aspettò che la tosse cessasse, e così passarono di nuovo alcuni momenti di silenzio imbarazzante, penoso. Finalmente la tosse diminuì, senza cessare del tutto, e il pretendente disse con voce mutata:
— Se si cercassero sempre queste cose, pochi matrimoni si combinerebbero. D’altronde non credo esista questa grande differenza. Io ho sempre fatto una vita modesta, tranquilla, e non credo che la signorina Lia possa, cambiando stato, cambiare abitudini. Sono anzi certo che fra me e lei esiste una grande affinità di gusti, di sentimenti, di aspirazioni. Non si meravigli se.... alla mia età.... parto ancora di aspirazioni. Se son qui, — aggiunse con finezza, — vuol dire che ne ho ancora....
— Le condizioni.... le condizioni.... economiche.... — ricominciò lo zio con voce stridente; ma di nuovo la tosse gli impedì di proseguire.
Lia fu assalita da un’agitazione nervosa: le parve che lo zio tossisse apposta per non spiegarsi bene e per non permettere all’altro di spiegarsi.
Infatti Justo taceva di nuovo.
— Ma perchè lo zio non vuole? — ella si domandava. — Perchè? Si direbbe che egli lo faccia per dispetto.
E come un’ombra cupa la avvolgeva.
A un tratto squillò il campanello del salotto e Costantina, che era andata ad origliare all’uscio del corridoio, entrò senz’altro, presa anche lei da un vago presentimento.
— Portami un po’ d’acqua, — disse il vecchio.
Ella corse in sala da pranzo, prese il bicchiere, s’avvicinò a Lia.
— Se lo vedesse com’è! È livido in viso dalla rabbia.
Gli portò l’acqua, ma la tosse non si calmò.
Justo taceva, e Lia, appoggiata all’uscio, rabbrividiva di angoscia, come se là dietro si svolgesse, non una semplice discussione per una domanda di matrimonio, ma una scena dolorosa.
Finalmente il vedovo, sempre più timido, riprese quasi sottovoce:
— Se ella parla delle condizioni economiche del nostro futuro «ménage», sono in grado di rassicurarlo completamente. So che la signorina Lia non possiede niente. Ma io sono in grado di mantenere decorosamente una famiglia.
— E poi? — domandò il vecchio. — Appunto perchè Lia non ha niente e in caso di sventura non sarebbe capace di guadagnarsi da vivere, appunto per questo essa ha bisogno, per crearsi una famiglia, d’una posiziono sicura....
— Io non penso a morire, per quanto non sia giovanissimo come il marito ch’ella desidera per la signorina Lia....
— Non siamo noi che pensiamo alla morte, caro signore! È la morte che pensa a noi.... Eh, eh, eh....
Fu riassalito dalla sua tosse strana, che però cessò subito completamento. Ma un’esclamazione di Justo, un suo lieve grido di sorpresa e di dolore, fece sobbalzare Lia.
Qualche cosa di spaventoso doveva essere accaduto dietro l’uscio. Ella aprì ed entrò. Curvo su un fianco, col gomito affondato sul divano, la testa riversa, il bastone fedele abbandonato sull’altro fianco, lo zio Asquer giaceva svenuto. Il suo viso paonazzo e contorto pareva sogghignasse, ad occhi chiusi, a bocca aperta. Si vedeva l’oro dei suoi denti falsi, e alcune goccie di saliva gli inumidivano i baffi.
Curvo su lui Justo cercava di sollevarlo: non parlava, ma un tremito gli agitava le mani.
— Dio, Dio, ò morto? — disse Lia a bassa voce, ancora paurosa che lo zio la sentisse.
— No, no. Non si spaventi. Lasci fare a me! bisogna che la testa stia giù. Poi correrò per chiamare il medico.
La respinse, slegò la cravatta e tolse il colletto al vecchio; poi cercò di adagiarlo a testa bassa sul divano. Il bastone scivolò sul tappeto e Lia si chinò, lo raccolse, levò i cuscini che ingombravano il divano: nè lei nè Justo pronunziarono più una parola.
Quando il vecchio fu adagiato alla meglio, il vedovo uscì rapidamente per andare a chiamare un medico; allora Costantina entrò, si accorse della disgrazia e il suo grido acuto risuonò per tutta la casa.