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Nel pomeriggio si rivedevano spesso a Villa Borghese, ove lo zio Asquer aveva preso l’abitudine di passare qualche ora al fresco davanti alla fontana. La mulatta accompagnava Salvador: col viso camuso reclinato sul petto lavorava una sciarpa di seta e pareva meditasse qualche cosa di molto fosco, mentre il bimbo giocava sul prato e di tanto in tanto correva a lei per farsi pulire le manine e il naso. Lia e lo zio stavano dall’altra parte del sedile e solo qualche rara volta scambiavano un saluto o poche parole con la signora Rosario. Anche Lia ricamava, ma spesso si incantava guardando la fontana, la cui lingua d’acqua, guizzante in alto, nel centro del vaso, pareva dicesse tante cose strane, spesso allegre, più spesso melanconiche.

Qualche volta Salvador s’avvicinava a lei, appollajandosi come un uccellino sulla spalliera del sedile, e ricominciava i soliti discorsi finchè la mulatta non lo richiamava con un grido gutturale, raccomandandogli di non dare «turbacion» alla signorina, di non essere «desobediente» nè «malo»: ed egli se ne tornava nel prato a cogliere erba per le sue pecorine di legno.

Lia non lo confessava a sè stessa, ma si annoiava: nulla, a pensarci bene, era mutato nella sua vita; l’appartamento dello zio Asquer aveva sostituito la casupola della zia Gaina, e la quercia di Villa Borghese il palmizio della brughiera. Ella si sentiva sempre sola, e si domandava