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vano nell’aria un po’ umida del mattino: cominciava quella dell’«acetosaro», un grido melanconico, lungo e cadenzato, che pareva venisse dalla campagna ancora addormentata; seguiva quello della venditrice di ranocchie, poi quello del merciaio ambulante, infine quello del giornalaio che annunziava con una certa calma i giornali del mattino; egli non s’affrettava perchè a quell’ora la gente premurosa dei fatti propri non s’occupa ancora dei fatti altrui.
A poco a poco le voci s’alzavano, fresche talune, altre rauche e assonnate, alcune fioche e timide, altre prepotenti e quasi minacciose; i rivenditori di frutta e di erbaggi vantavano la loro merce, alcuni gridavano con voce tenorile aggettivi sonori, ma con inflessione ironica, quasi beffandosi del cliente che prestava loro fede.
Verso le nove la strada era tutta un mercato; non mancavano i pescivendoli coi cestini colmi di pesci argentei, scintillanti, quasi ancora umidi d’acqua marina. Lia provava un gusto infantile a contemplare quel quadro colorito, animato da figure volgari ma caratteristiche. I capelli già ravviati delle serve riflettevano la luce azzurra del mattino; grosse donne in spolverina e fornite di valigie, pronte a intraprendere il faticoso viaggio di una giornata di economie, si fermavano davanti ai carretti di frutta e pesavano con la mano ad una ad una le arance mature, e le erbivendole sorridevano egualmente al cuoco