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si slanciavano come raggi neri sul cielo d’ametista, e una delle loro ombre copriva Lia e si stendeva ai suoi piedi fino al prato d’oro. «A che pensa lo zio Asquer?» ella si domandava, e lo sentiva lontano da lei, più freddo, più scuro di quell’ombra. Il senso di solitudine e di abbandono che ella credeva di aver lasciato sotto il palmizio della landa la raggiunse sotto il cipresso della Via Appia. Le sembrò di essere in un cimitero; e trasalì quando lo zio Asquer le parlò.

— Muoviti, Lia; va anche tu nel prato!

— Si sta bene qui, zio!

Egli si volse lentamente verso di lei e col pomo del bastone cominciò a battersi lievemente la mano morta scintillante d’anelli.

— Lia, mi sembra che ti annoj!

— Che dite, zio! — ella esclamò arrossendo. Tacque, poi rise. — Perchè, zio?

— Almeno ne hai l’aria! Stavi meglio laggiù?

Egli indicò un punto lontano, verso l’ovest; Lia ricordò la tristezza dei lunghi pomeriggi primaverili di laggiù e si scosse tutta, come un uccellino appena svegliato.

— No, no, no, no, zio! Si sta così male, laggiù! Non c’è da far paragoni, zio!

Egli rise, piano, piano, con quel suo riso che pareva un lieve raschiamento di gola, e parve parlare al suo bastone.

— Certo, non è una gran città quella!... E dunque, Lia, parla sincero; ti piace stare a Roma?