ripiegato il giornale non ci pensava più. La politica, i problemi sociali, l’arte, la scienza, la cronaca? Come potevano interessarlo se appartenevano a un mondo già lontano da lui? Il suo mondo egli lo portava con sè, come un carico ove eran chiusi tutti i suoi pensieri, le sue sensazioni, il suo dolore continuo, assorbente: era la metà semi-paralizzata della sua persona. Egli sentiva più questa parte morta che la sua parte viva; era un cadavere, il suo cadavere, ch’egli portava con sè, e il cui peso lo schiacciava, lo rendeva triste, finto e irritabile. Come non esserlo, in simile compagnia? Come pensare al mondo dei viventi quando egli era già a metà in quello dei morti? Ed egli amava la vita, perchè non aveva vissuto, e tutte le cose belle del mondo, l’amore, il piacere, i paesi lontani, tutto era più ignoto a lui che a Lia medesima. Gli pareva che il contatto con le persone giovani e sane lo rendesse ancora più misero e acerbo: esse eran vive, egli era già morto. Ed egli taceva anche a sè stesso questo continuo rimpianto, ma il suo dolore senza sfogo s’incancreniva sempre più, entro il suo cuore, come un tumore maligno non curato. All’attesa della morte s’univa poi la paura d’una lunga agonia, di anni ed anni d’immobilità, e il terrore di essere assistito dalle cure di una serva. Ecco perchè aveva chiamato Lia.