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Lungo via Boncompagni fu un continuo sorridersi e guardarsi, fra Lia e il suo piccolo vicino di casa; l’uomo vestito a lutto volse lo sguardo pensieroso e salutò, e lo zio Asquer cominciò a brontolare.

— Per me gli argentini han tutte le brutte qualità dei sardi; la stessa tabe spagnuola nel sangue; boria, beffe, diffidenza, quanta ne vuoi!

Invano Lia protestò; il nuovo vicino di casa aveva anche il torto di essere un giornalista, razza maledetta (diceva lo zio Asquer) che si ficca di continuo nei fatti altrui e non rispetta neanche la santità della vita domestica. Entrarono nella Villa che egli borbottava ancora; tacque solo quando, sedutosi davanti a una fontana, si mise a leggere il giornale. Il luogo era melanconico: altri due vecchi, una giovane signora e due ragazze dall’aspetto malaticcio, sedevano attorno, sul sedile circolare di pietra corrosa; guardavano l’acqua verde della vasca e parevano intenti al pianto monotono dell’acqua che cadeva dal vaso di pietra della fontana. Ma spingendo lo sguardo, Lia vedeva lo sfondo grandioso del parco, il sole che cadeva roseo attraverso gli alberi dorati, i seminaristi che giocavano a «football», rossi, sul verde del prato, come fiamme guizzanti.

Dal Pincio luminoso arrivavano soffi di musica: gridi di gioia, lamenti d’amore; attraverso il verde si vedevan piume rosee e nere svolazzanti