Mitologia comparata/Il fuoco
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LETTURA TERZA.
IL FUOCO.
I tre principî generatori del mondo, i tre elementi primordiali vuolsi che siano stati l’aria (ossia il vento), l’acqua, il fuoco. Ma la sede originaria del fuoco, dell’acqua, dell’aria cosmica, la sede unica, la sede comune, universale è sempre il cielo, principio e causa di tutte le cose. Noi rammentammo già l’aria e l’acqua cosmica. Ora vedremo come siasi spiegata nel mito l’origine del fuoco.
Nel quinto inno del decimo libro del Rigveda si dice che da principio Agni, ossia il fuoco, era e non esisteva ancora. Col che s’intende ch’egli stava in germe nel seno delle cose; nel vedere sprigionarsi il fuoco ora da una roccia, ora dal legno, ora da una nuvola; nel vedere, senza che alcuno le accenda, brillare in cielo il sole, la luna, le stelle, fu detto che il fuoco, che il Dio del Fuoco ossia Agni, primo nato nell’età primordiale, si generò da sè stesso, apodo ed acefalo (apâd açirsha lo chiama il Rigveda). Vedendo poi come i fabbri sulla terra, battendo il ferro, ne mandano in aria vive scintille, gli Indiani immaginarono pure il cielo come una gran fucina ove il fabbro divino Tvashtar suscita continuamente il fuoco e somministra specialmente le armi ai combattenti nella gran battaglia titanica, nella quale gli Asurâs demoniaci cercano impadronirsi della sede dell’ambrosia, dell’Olimpo vedico, onde Indra li fulmina, come Giove, nella Titanomachia, atterra i giganti. Ma Tvashtar, come Hefesto, come Vulcano, è un nume informe, mostruoso, mobile, che muta continuamente d’aspetto, e sfugge alla nostra analisi. La sua persona non è vivace e ben determinata, oscura quasi ed impersonale, come il genio del nume creatore che si muove nel caos. Nel dire pertanto che il Dio Agni, ossia il fuoco, era figlio di Tvashtar ossia del fabbro divino, la cui curiosità del popolo che cantava gli inni vedici non poteva rimaner soddisfatta. Si cercarono pertanto altre cagioni all’origine del fuoco. Si vide, per un esempio, come, sulla terra, picchiando una pietra contro l’altra si sprigionava talora il fuoco; allora paragonandosi ora il cielo, ora la nuvola ad un gran monte, ad una gran roccia, ad una gran pietra, vedendosi come nasce in cielo la luce, come si muovono i lampi, si immaginò che due pietre, probabilmente la pietra luminosa (Dyaus) e la pietra larga (Pr'ithivi) picchiandosi, per opera del Dio Indra, producessero il fuoco. L’inno primo del secondo libro del Rigveda canta in vero, che Indra generò il fuoco fra due pietre o rocce. Nel vero, in quanto il Dio Indra non sia il precursore di Brahman creatore del mondo, il signore del cielo, ma il nume tonante e fulminante, si immaginò che Indra facesse scoppiare il fuoco, ossia il fulmine, muovendo una montagna contro l’altra, ossia una nuvola contro un’altra nuvola.
Il fuoco nasce in modo diverso, onde pure il nome di Bhûrig’anma, di molti nascimenti, dato nel Rigveda al Dio Agni. Agni si chiama pure nello stesso Rigveda, viçvarûpa ossia onniforme, per la sua gran capacità di mutar forma. In un dotto libro recentissimo del dottor Schwartz (uno degli illustri fondatori della mitologia comparata) sopra le nuvole, il vento, il fulmine ed il tuono, noi troviamo descritta una trentina di forme diverse con lo quali nella mitologia popolare, venne raffigurato il fulmine che le nuvole acquose fecondano.
Fulmina gignier e crassis alteque putandum est
Nubibus exstructis
cantava Lucrezio, onde noi ci spieghiamo ancora ad evidenza come gli inni vedici celebrassero il fuoco, il Dio Agni qual nato nelle acque, qual figlio delle acque. Figurato del resto tutto il cielo come un mare ondoso, poichè da quelle onde emergono tutti gli astri celesti e le aurore mattutina e vespertina, era naturale il supporre che quelle acque celesti potessero alimentare il fuoco, che gli Dei vedici andassero a cercare il fuoco nascosto nelle acque, il che val quanto dire che essi uscirono dalle acque, poichè il fuoco, il Dio Agni si identifica con quasi tutti gli Dei, che partecipano della sua natura luminosa, infuocata. Secondo la leggenda vedica, Agni si nasconde per timore di venire ucciso come i suoi fratelli maggiori che erano morti prima di lui. Questo mito vuol dire che l’eroe solare per non morire si nasconde, si salva per mezzo delle acque; condannato a perire in un pozzo, a naufragare in un fiume, in un mare, in un diluvio, le acque sono per esso liberatrici, salvatrici, anzi che cagione della sua rovina. A questo mito di Agni, ossia del piccolo eroe solare che si nasconde nelle acque e si salva miracolosamente da’ suoi persecutori, si congiunge un’altra nozione, parimenti vedica, del fanciullo Agni parricida. Il parricidio è cosa mostruosa e si condanna la mitologia perchè quasi lo celebra, e lo giustifica. Ma, se il mito si dichiara, ogni carattere mostruoso scompare. Abbiamo già veduto che il mondo apparve generato dal cielo, ossia da Dyaus il luminoso che fecondò Pr’ithivî la larga volta celeste. Si paragonarono dunque il Dyaus e la Pr’ithivî a que’ due legni, alle due aranî, le quali confregandosi l’una contro l’altra, generavano nell’età vedica il fuoco sopra la terra; un legno è superiore, l’altro inferiore; il fuoco giace ne’ due legni. Immaginati i due legni, e quindi pure le due aranî celesti, come padre e madre del fuoco, poichè il fuoco che si sprigiona dal legno, lo consuma, era naturale la rappresentazione del piccolo Agni ossia del fuoco come un figlio parricida e matricida. Onde il poeta vedico stesso inorridisce a tanto delitto, ed esclama nell’inno settantanovesimo del decimo libro dal Rigveda: «O Dyaus o Pr’ithivî, questa verità io dico a voi; appena nato, il fanciullo mangia i suoi due parenti.» Così il sole invade co’ suoi raggi tutto il cielo; così Indra tonante e pluvio occupa tutto il cielo, spodestando suo padre l’antico Dyaus rappresentato nel Rigveda come il figlio della vedova Aditi, ossia come un parricida. Così lo Zeus pluvio e tonante abbatte nella mitologia ellenica il primo Zeus Uranio. Agni il nipote, il figlio delle acque, dell’oceano notturno, quando vien fuori al mattino, in forma d’aurora, o di giovine sole, distrugge la materna notte, l’oceano luminoso o tenebroso notturno, salvandosi egli stesso dalle acque, ossia dalla persecuzione del padre o zio o suocero crudele dalla strega, dalla crudel matrigna. Come il fanciullo Agni, dopo essersi salvato dalle acque, diviene parricida, così l’eroe delle leggende epiche, e l’eroe delle novelline popolari, che lo continua, viene esposto nelle acque, condannato a perire e si salva miracolosamente ed uccide il suo persecutore, si chiami Kr’ishna o Karna nell’India, Ciro in Persia, Paride, Edipo in Grecia, Romolo a Roma, Mosè nella leggenda giudaica; poichè, secondo questa leggenda, Mosè viene esposto nelle acque del Nilo, e salvato dalla figlia di quel Faraone che, per cagione di Mosè, dovrà perire. Il mito del fuoco diede poi occasione alla più splendida, più grandiosa, più tragica forse delle fantasie umane, ossia alla grande leggenda ellenica di Prometeo, della quale il prof. Kuhn ha, con mirabile sagacia, rintracciato ne’ miti vedici le più remote origini. Uno dei nomi vedici del fuoco od Agni, come del vento, è Mâtariçvan propriamente quello che si muove nell’aranî inferiore, nella Pr’ithivî, nell’Aditi celeste, nella vôlta del cielo, e, in quanto questa sia tenebrosa o nuvolosa, nella tenebra nella nuvola. La leggenda vedica narra che il fuoco essendo scomparso, Mâtariçvan lo riportò ai Bhr’igu, un’antica stirpe sacerdotale, od a Manu, che figura poi come il primo de’ mortali, ma che personificò in origine l’astro lunare. Una variante di questo mito dice ora che i Bhr’igu stessi, ora che gli Angirasi, o Atharvan, rintracciarono il fuoco nella caverna ove s’era nascosto. Ora i Bhr’igu, gli Angirasi, Atharvan appaiono tutti come Mâtariçvan figure parziali, attributi, compagni di Agni il fuoco, il Dio del fuoco, che dicemmo già personificarsi in tutti i corpi luminosi celesti, ma specialmente nei sole e nel fulmine; essi sono dunque particolarmente raggi solari, o lampi. Il prof. Kuhn riconobbe anche etimologicamente nei Bhr’igu i fulgenti, i flagranti; avvicinò qui naturalmente, come rifulgenti per eccellenza, le folgori e il tedesco blitz. Secondo il Kuhn i Bhr’igu che apportano il fuoco sulla terra non sarebbero dunque altro che i fulmini. Ma non mi pare tuttavia esclusa la possibilità di dichiarar pure questi esseri luminosi, rifulgenti, che ritrovano il fuoco nascosto e lo riconducono fuori, come raggi solari, i quali rinnovano nel cielo anche più frequentemente e più splendidamente del fulmine questo miracolo. Ora secondo una leggenda del Mahâbhârata, Bhr’igu sarebbe nato nel sacrificio di Varuna (ossia del cielo, che si compie due volte al giorno, al mattino e alla sera, nell’aurora mattutina e nell’aurora vespertina rappresentate entrambe come una forma di sacrificio celeste, di sacrificio in onore del cielo), dal Dio Brahman Svayambhu, ossia dal cielo stesso. Da Bhr’igu nasce C’yavana, il caduto dal cielo, che ha un figlio di nome Pramati, propriamente la previdenza, nome frequente dato nei Vedi al Dio Agni, al Dio del fuoco che risponde idealmente al Prometeo ellenico, col quale, a malgrado dell’apparente analogia delle due parole, non ha tuttavia alcuna relazione diretta, se non in quanto vi può essere come vi è, senza dubbio, parentela tra la radice man pensare, onde provengono le voci indiane mati e manas, e l’ellenico menos ed il latino mens; onde si può bene avvicinare al pramantha vedico agitante, Pramati che prevede, come il Prometeo che agita il fuoco ad un Prometeo che prevede. Una variante della leggenda mitica di Bhr’igu contenuta nel Mahâbhârata c’insegna che Bhr’igu nacque dal cuore di Brahman il quale s’aperse (intendasi dal centro del cielo), che suo figlio si chiamò Kavi e il figlio del figlio, Çukra, propriamente il luminoso, uno de’ nomi dati al sole, ma poi specialmente al pianeta Venere e al genio di quel pianeta, immaginato dagli Indiani qual maestro dei demonî, ossia, intendasi quello che rischiara i demonî, quello che illumina la tenebra notturna, la confusione del caos. Il figlio di Bhr’igu assume pure, come s’è detto, ne’ Vedi il nome di C’yavana che sposa la figlia di Manu, Arushî o Sukanyâ, la bella fanciulla e per essa ringiovanisce, come Titone nel mito ellenico ringiovanisce per virtù dell’Aurora. Como la Savitrî leggendaria, per la sua fedeltà, fa rivivere lo sposo, così nel mito vedico la bella Aurora, la bella sposa di C’yavana fa ringiovanire il proprio sposo raccomandandosi agli Açvini suoi protettori ed amici, i quali fanno attraversare a C’yavana l’acqua dalla quale si risorge con l’età che si può desiderare. Quest’acqua noi sappiamo pur troppo che non esiste sulla terra, quando non sia l’acqua lustrale e battesimale, alla quale si attribuì la virtù di purificar l’uomo per la vita eterna, ma, come abbiamo già veduto, quest’acqua miracolosa fu veramente immaginata e creduta esistere nel cielo, ossia nell’oceano celeste, nel quale ogni sera cade il vecchio sole moribondo e dalla quale ogni mattino risorge, fiorente di gioventù bellezza, un sole novello. Il prof. Kuhn vide specialmente in C’yavana figlio di Bhr’igu una forma del fulmine, in Sukanyâ la dea delle nuvole. Il fenomeno che presenta il cielo nuvoloso è analogo a quello che presenta il cielo tenebroso; quindi lo stesso mito può convenire al sole che si sprigiona dalla tenebra notturna e al fulmine che si sprigiona dalla nuvola. La confusione che nacque tra questi due fenomeni celesti contribuì a fare più ricca la leggenda di Bhr’igu di C’yavana nell’India, come pure quella di Prometeo, che ora personifica il solo rivelatore della luce agli uomini, ora il fulmine che porta sulla terra il fuoco celeste. Noi non comprenderemo dunque mai intieramente tutto il mito di Prometeo, se non terremo conto della duplice origine e sede del mito, delle due correnti mitiche le quali concorsero a formarlo. Nella leggenda cosmogonica indiana si finse che l’ambrosia celeste fosse nata agitando nell’oceano celeste un gran monte, cui Dei e serpenti facevano muovere con un gran serpente avvolto a guisa di fune intorno al Monte Mandara, o Manthara, parola che vale propriamente l’agitatore. Questo concetto mostruoso, colossale della creazione del mondo, ossia dell’ambrosia, principio della vita universale, era stato inspirato agli Indiani dal vedere in qual modo sulla terra si faceva il burro, cioè facendo girare un bastone entro il latte. In un modo analogo si produceva pure il fuoco cioè facendo passare un bastone nel buco d’un legno sottoposto ed agitandolo o pure fra i buchi di due legni congiunti, che stropicciandosi insieme dovevano accendersi. Anche nel cielo si suppose che l’ambrosia ed il fuoco si producessero con un simile processo, cioè per mezzo di un pramantha, di un bastone colossale, agitatore, generatore del liquore ambrosiaco inebbriante e del fuoco vitale, che stavano in germe nascosti nella caverna celeste. Il prof. Kuhn dimostrò che la radice indiana manth non significa soltanto agitare, ma strappare, levar via; onde il pramantha, bastone agitatore del fuoco, dovette essere concepito come un bastone rapitore del fuoco. Nella lingua greca la parola manthanô acquistò la stessa estensione di significato, onde il bastone che accende il fuoco si identificò molto facilmente con la ferula che rapisce il fuoco, e poi divenne la ferula del rapitore del fuoco, la ferula di Prometeo rapitore del fuoco, e finalmente per una personificazione più viva, Prometeo stesso, che per amor degli uomini, invola il fuoco agli Dei. Il primitivo Zeus Promantheus o rapitore del fuoco che, secondo Licofrone, era venerato dai Turii, diventò un Promêtheûs o rapitore del fuoco. In quanto Indra e Giove accendono il fulmine nella nuvola, o il sole sè stesso nella tenebra, sono Promanthei; in quanto i fulmini o i raggi solari scendono sulla terra sono Promêthei. In quanto poi Prometeo, spaccando il cervello di Giove, ne fa uscire Minerva, noi, che nella Minerva riconosciamo l’aurora celebrata dagli inni vedici come la sapiente svegliatrice degli uomini, la illuminatrice per eccellenza, abbiamo pure in Prometeo una figura del precursore luminoso, di un giovine sole che gli inni vedici celebrano come Viçvavedas ossia onnivegente, onnisapiente. Come tale Prometeo, il previdente, ha un fratello Epimeteo che ha la sapienza del poi, l’esperienza (Serus lo chiama l’iscrizione d’un sarcofago latino); se Prometeo rappresenta, in tale aspetto, il sole mattutino, anzi il suo precursore, Epimeteo ci può raffigurare il sole vespertino. Così Hermes, Mercurio, precorre, prenunzia gli Dei; il suo caduceo, come il vedico pramantha, come la ferula di Prometeo, divide la tenebra, porta la luce, suscita il fuoco generatore. Le statue di Hermes hanno culto presso gli uomini come di buon augurio alla generazione; così Prometeo appare non solo quale apportatore del fuoco tra gli uomini sopra la sua ferula divina, ma, per virtù di questa stessa ferula, generatore egli stesso di uomini. Pel furto fatto al cielo da Prometeo, gli Dei temono che gli uomini siano per diventar simili a loro, poichè hanno acquistato il secreto della generazione. Zeus si commove dunque per quel furto; nel qual mito abbiamo raffigurato in qualche modo lo stesso concetto che è dichiarato nella leggenda biblica del peccato originale, ove il serpente medesimo, che riappare nel caduceo di Mercurio, che avvolge il Manthara indiano agitatore dell’ambrosia, e che si mostra pure nella forma serpeggiante del lampo e nel guizzar de’ primi raggi solari, rivela all’uomo un dono che il Nume s’era riservato, cioè la virtù di divenire, creando, simili a Dio. Adamo è cacciato dal paradiso terrestre. Prometeo legato alla rupe, per alto castigo o per vendetta del Nume. Deucalione, il primo uomo scampato dal diluvio ellenico, che dissi già essere una nuova forma della legge cosmogonica, appare figlio di Prometeo, onde Prometeo ci si mostra veramente come l’Adamo ellenico. Così nell’India Bhr’igu, scopritore del fuoco, si congiunge con Yama e con Manu, il primo de’ mortali, il primo uomo, il primo che sia disceso all’inferno; Yama diventò anzi poi egli stesso Dio dell’inferno, giudice infernale, come Manu figurò quale primo legislatore. Col nome di Manu fu congiunto quello del re greco Minosse capo-stirpe, giudice, legislatore infernale, quello di Minyas il re dei Minii, che furono identificati coi Flegei, nel regno de’ quali Prometeo crea gli uomini, coi Flegei che il prof. Kuhn accostò ai vedici Bhr’igu; Flegyas o Flegys sembra pure essere stato il nome del primo uomo in Grecia, ossia di quel Prometeo che rapì il fuoco generatore come il vedico Bhr’igu. Così il primo uomo creato in Flegia, la ferula di Prometeo, e Prometeo, che sovra di essa porta dal cielo alla terra il fuoco, appaiono una triplice forma dello stesso mito ellenico, che trova una perfetta corrispondenza ne’ miti vedici. In quanto poi il raggio solare, il fuoco solare, o il fulmine penetrano l’albero, da prima in cielo, poi sulla terra, in quanto si trasse dal legno il fuoco, si suppose pure che quel fuoco vi fosse disceso dal cielo con virtù generativa, onde ebbero principio le numerose credenze indo-europee intorno agli uomini generati dal ceppo, dal tronco degli alberi, nelle selve, intorno agli alberi cosmogonici, antropogonici, de’ quali le feste scandinave e germaniche intorno all’albero natalizio per la nascita di Gesù Bambino, e del nuovo sole che nel solstizio d’inverno fa allungare i giorni, sono ancora una vivace e poetica reminiscenza. Ma io non posso qui in brevi pagine esporvi il contenuto di tutto un libro dottissimo di Adalberto Kuhn, che tratta, per l’appunto delle origini mitiche del fuoco. Mancandovi per ora il filo di Arianna per muovere nell’intricato labirinto dei miti, io temerei d’affaticare soverchiamente la vostra attenzione citandovi, ad una ad una, tutte le immagini mitiche alle quali diede occasione il fuoco negli inni vedici, e tutti i minuti riscontri che si potrebbero fare a quelle varie immagini nella serie infinita delle tradizioni indo-europee. Credo invece, perchè mi pare che possiamo oramai rimaner persuasi tutti del senso matariale che ebbe in origine il mito greco di Prometeo, cosa più istruttiva e più utile contemplare un istante quanta nuova poesia il genio perfettamente plastico de’ Greci, abbia saputo cavare da un mito elementare rozzo e grossolano, e ammirare una volta più la somma idealità di quel popolo d’artisti, che seppe circondare di tanto splendore que’ stessi numi, i quali presso altri popoli erano rimasti umili feticci, o creature informi o mal vive. Il greco non può concepire il nume altrimenti che mirabile per sovrana bellezza e maestà. Gli stessi avversari del nume esso non può immaginare schifosi e ributtanti, poichè il nume deve combattere con un nemico degno di sè, che può essere orrendo, ma non umile, nè troppo ignobile. Se non ne avessimo avuto già molti documenti, i recenti scavi fatti pel Museo di Berlino nell’acropoli di Pergamo nell’Asia Minore, metterebbero in piena luce questa verità. Le dette rovine tolte da una grand’ara di Zeus rappresentano la titanomachia. I Titani vogliono dare la scalata all’Olimpo; tutti gli Dei, coi loro animali prediletti prendono parte alla lotta; i giganti appaiono, per una creazione fantastica degna dei poeti indiani, in aspetti diversi; gli uni alati, gli altri in forma di guerrieri barbuti, con pelli di leone, aventi rocce e tronchi d’albero per armi, precisamente come gli eroi del Râmâyana e del Mahâbhârata; i piedi terminano in forma di serpenti, che avvolgono le gambe degli Dei, e coi loro denti tentano lacerarle; così Indra, nel cielo vedico, nella sua gran battaglia contro i mostri, intende specialmente ad uccidere il mostro Vr’itra, il copritore, il mostro Ahi, il serpente stringitore. Tra gli Dei, Zeus che ha lanciati con la destra i fulmini, con la sinistra tiene l’egida, onde il suo nome di Egioco; Athênê o Minerva afferra per le chiome un gigante, intanto che la Vittoria scende dal cielo per incoronarla, e la Terra, uscendo dall’abisso, prega per i Titani suoi figli; ma noi sappiamo ora che la Terra generatrice di mostruosi giganti è una Terra celeste; le ombre, le nuvole, ora sono montagne che si muovono, ora guerrieri che combattono con macigni; se poi volessimo pure pensare che la madre de’ Titani fosse veramente la Terra nostra, i Titani rappresenterebbero pur sempre le ombre notturne e le nuvole che si vedono del pari alzarsi dalla Terra per dare come giganti che crescono la scalata al cielo e ripiombar sulla Terra all’apparir del Sole. Nella rappresentazione di Pergamo, si mostra pure, al fine della battaglia, Helios il sole sopra un carro tirato da quattro cavalli, preceduto dall’Aurora che fa da staffetta e si mostra sopra uno stupendo cavallo. Nell’Aitareyabrâhmana si parla di una corsa, di una sfida alla corsa fatta nel cielo tra gli Dei, la quale sarebbe stata vinta dall’Aurora, la prima che s’affaccia nel cielo orientale. Si trovano pure, nella Gigantomachia, rappresentati Apollo; Diana che cavalca un leone, seguita da ninfe che portano stivali da caccia; Bacco vestito all’orientale, seguito da un piccolo satiro che gli fa il verso; Hefesto, Borea, Nettuno seguito da un centauro marino alato. Nella zoologia mitologica indo-europea si vede spesso l’eroe rappresentato dal suo animale, e come si dice nelle novelline russe, dalla sua caccia, che ne fa le veci, che combatte per esso; anche nella Gigantomachia si vede il serpente di Minerva avvolgere nelle sue spire il gigante che la Dea afferrò per i capelli; l’aquila di Zeus con uno de’ suoi artigli sbrana la mascella inferiore di uno de’ serpenti. Così dovettero prender parte alla lotta il molosso di Diana, la pantera di Bacco. In questa rappresentazione ellenica l’antica lotta mitologica fra gli Dei e i Demonii, fra la luce e la tenebra, appare, in somma, nella sua più vivace e potente personificazione. Ora, se come abbiamo veduto fin qui, il mito di Prometeo ebbe umile e assai materiale principio, a pena nacque il concetto che questo rapitore del fuoco fosse un titano potente, esso prese posto nel gran poema della Titanomachia, e in quella lotta apparve un vero gigante, un degno avversario di Zeus, quasi un altro Zeus. Da questo momento mitico, si dimentica, senza dubbio, ogni parentela di Prometheus col pramantha vedico, per vedere solamente più in lui l’agitatore formidabile di questo pramantha, che vuol togliere a Zeus il suo scettro, che vuol strappare il fulmine a Giove, e che finisce legato alla rupe per venire straziato dall’avvoltoio o dall’aquila, come il serpente della Titanomachia viene straziato dall’artiglio dell’aquila di Zeus. A questo punto Prometeo diviene un ribelle al nume, e più che all’Adamo biblico egli rassomiglia allora al Satana, al Lucifero, che nella lotta primeva degli angioli ribelli, venne da Dio precipitato nell’abisso. È a questo punto che lo incontra il genio di Eschilo, per farne il tipo del ribelle immortale indo-europeo, come Satana, Lucifero rimase il gran ribelle semitico, ravvivato poi dalla fantasia de’ poeti cristiani. E come lo raffigurò il poeta Eschilo rimase poi quel tipo nella fantasia popolare ellenica e nella nostra, assai remoto certamente dal primo tipo vedico. Rileggiamo dunque insieme il dramma di Eschilo. S’apre con un dialogo tra Vulcano e la Forza. Vulcano, per ordine di Giove, viene a inchiodare i ceppi che legano Prometeo alla rupe. Vulcano sente la pietà; sa che Prometeo è egli stesso un Dio cognato, e prova un certo ritegno nell’obbedire al comando di Giove, tanto più che gli è ben noto come non sia ancora neppur nato chi porrà un fine ai mali del titano punito. Vulcano non ignora che Giove, nuovo tiranno, sarà sordo ai lamenti di Prometeo. La Forza, che rappresenta il potere di Giove, rimprovera la sua pietà a Vulcano, a Vulcano cui veramente Prometeo rapì quel fuoco di cui egli doveva più d’ogni altro nume mostrarsi custode geloso. Vulcano si scusa, dicendo ch’egli infine sente i vincoli della parentela. Ma la Forza ripete che supremo dovere è obbedire a Giove, il solo degli Dei che sia veramente libero, e sollecita Vulcano a terminar prestar l’opera sua. Vulcano cede di mal animo, gemendo, per i dolori del titano, e, spinto sempre dalla Forza, inchioda le mani ed i piedi dell’amico degli uomini che dispiacque a Giove. Quando egli è tutto fermato indissolubilmente alla rupe, Vulcano e la Forza si allontanano, e Prometeo, rimasto solo, incomincia il suo lamento. Egli si lagna che essendo Dio, riceve tal pena e dice il motivo del suo supplizio: «perchè agli uomini feci doni, in queste difficoltà miseramente mi trovo involto; e perchè presi la ferula, furtiva sorgente del fuoco, maestra d’ogni arte agli uomini, ed utilissima, tali pene per tali delitti sconto stando così legato sotto l’aperto cielo.» Ma pel Greco, ai tempi di Eschilo, la natura aveva tutta un linguaggio umano. Prometeo solo, in mezzo all’orrore delle rupi scitiche, ascolta le voci della natura, che fanno coro pietoso al suo gran dolore. Ad un primo strepito d’ali, Prometeo teme già che s’accostino i nefasti avoltoi per lacerargli le carni; ma sono invece le pie ninfe oceanine, volate a lui sopra un carro alato, per consolarlo. Esse hanno una viva simpatia pel titano castigato, e con due versi che tradiscono un intendimento non solo satirico, ma politico, deplorano che «nuovi governanti occupino ora l’Olimpo, e che Giove iniquamente imperi con nuovi decreti». Le ninfe oceanine son donne, ed ogni donna gentile sente naturalmente la pietà per gl’infelici oppressi, l’odio per gli oppressori; le ninfe oceanine, odiano il nuovo Giove: «Qual è, domandano esse, tra gli Dei quello che abbia cuore così duro da trovar simili cose gioconde? Quale può non compatire a’ tuoi mali, se si tolga Giove, che ne’ suoi sdegni inflessibili governa la schiatta urania?» Prometeo annunzia allora che Giove avrà un giorno bisogno di lui per sapere com’egli sarà un giorno spogliato del proprio scettro. Le ninfe lo avvertono ch’ei parla troppo libero e che ne risentirà maggior danno dal figlio di Saturno di cui il cuore è implacabile. Ma Prometeo è sicuro per l’avvenire, egli sa che, per quanto aspro si mostri ora Giove, verrà un giorno in cui si farà mite, e, rimesso alquanto del proprio sdegno, ricercherà l’amicizia di Prometeo, il quale, pregato quindi dalle ninfe, racconta la cagione de’ suoi mali presenti. Vi era discordia fra gli Dei; gli uni volevano Saturno; gli altri Giove; i titani figli del Cielo e della Terra approfittarono di quell’occasione per muover guerra agli Dei, se bene sconsigliati da Prometeo. Temi e la terra insegnarono allora a Prometeo che si vincerebbe meglio con l’arte che con la forza. Saturno co’ suoi ausiliari venne precipitato nel Tartaro; Giove, aiutato da Prometeo trionfò, ma come torna ad osservare satiricamente il libero poeta Eschilo odiator di tiranni, «il tiranno degli Dei, così beneficato da Prometeo, mostrossi ingrato, poichè è vizio de’ tiranni non prestar fede agli amici». Prosegue Prometeo a narrare che Giove, appena salito sul soglio, incominciò a distribuir premî tra gli Dei, dimenticando intieramente il genere umano, ch’egli voleva distruggere per crearsene un altro più devoto. Il solo Prometeo osò resistere a quel decreto di Giove, salvando gli uomini dall’estremo eccidio; e, per amor degli uomini, sacrificò sè stesso, anticipando così di molti secoli la vita mirabile dell’indico Buddha e quella del Figlio di Dio, nel nome del quale siamo cristiani. Prometeo aggiunge pure ch’ei liberò gli uomini dal terror della morte, facendo loro il dono della speranza, e che diede loro il fuoco, il quale, se fu tenuto qual principio vitale, apparve pure simbolo della vita eterna. In una lucerna antica cavata dai sepolcri della via Lavicana incisa dal Bartoli, illustrata dal Bellori, si vede espresso il mito di Prometeo largitore del fuoco ai mortali; egli tiene la fiaccola celeste con una mano, e con l’altra mostra il cielo, onde credevano gli antichi che fosse discesa l’anima umana, e, ove risalendo dopo la morte, doveva rivivere immortale. Il mito di Prometeo si confonde pertanto, sotto questo aspetto intieramente poetico, col domma cristiano della seconda vita. Tutto questo mito viene poi espresso da una leggenda vedica che mi pare di singolare importanza. Avendo molta cura del fuoco sacrificale e funebre, il devoto nell’età vedica non s’assicurava soltanto i beni di questa vita, ma, per quanto c’insegna una leggenda del Catapatha Brâhmana anche quelli dell’altra. Secondo la leggenda, Agni, il Dio del Fuoco, appena creato dal Dio Prag’âpati, incominciò a bruciare ed a perturbare ogni cosa. Allora tutte le creature esistenti si mossero per distruggerlo. Il Dio Agni ricorse allora ad un uomo, e gli domandò che lo lasciasse entrare in lui, dicendogli: «Dopo avermi generato, alimentami; se tu farai codesto per me nel mondo di qua, io farò lo stesso per te nel mondo di là.» Per mezzo del fuoco sacrificale, nell’età vedica, non si alimentava soltanto il necessario fuoco domestico; per mezzo del culto di Hestia e di Vesta, Greci e Latini non mantenevano soltanto vivo il fuoco vitale sopra la terra, ma propiziavano il cielo, perchè il fuoco si riaccendesse ogni giorno ne’ suoi varî aspetti celesti; il sacrificio pagano era simbolo d’un gran sacrificio celeste di qualche nume, che, ogni giorno, nel cielo, pareva all’occhio de’ pii mortali sacrificarsi per l’umanità; la leggenda vedica del giovine Sunassepa, che viene sacrificato dal padre e che l’Aurora invocata viene a liberare, è una poetica rappresentazione del sole che ogni sera entra come in un vasto rogo, e da cui l’aurora mattutina viene a liberarlo. Così, nel sacrificio cristiano della Messa viene ancora simboleggiato, dai ceri ardenti sull’altare, il sacrificio del figlio di Dio e la vita eterna. La religione cristiana dovette, per divulgarsi, accogliere molti riti pagani; perciò ancora le tede nuziali, le faci funerarie romane si ritrovano anche nelle nozze, ne’ funerali cristiani, poichè la fiamma ardente simboleggia per noi come per gli antichi la vita immortale. Così ne’ Vedi, insieme con l’Agni sacrificale arreca specialmente al devoto le splendide gioie del giorno, l’Agni funebre, il fuoco del rogo guida la parte immortale, l’anima del trapassato di cui, nutrendosi, consuma le carni, all’eternità degli splendori celesti; se perciò l’Aitareya Brâhmana chiama Agni, il fuoco col nome di filo, ponte, via, per la quale si va agli Dei; per esso, è ancora detto, possono gli uomini arrivare al cielo e rallegrarsi in gaudio comune con gli Dei. Agni come disperde in terra, per mezzo del fuoco sacrificale, la tenebra notturna, così nel cielo è figurato qual distruggitore del mostro, rakshohan, vincitore di mille, sahasrag’t. Da questo concetto quasi materiale del mito, la riflessione trasformò Agni in simbolo della luce divina, della luce immortale, della eterna beatitudine. Nella figura stessa dell’indiano Agni si potrebbero dunque facilmente riscontrare tutti i gradi della evoluzione, per la quale si compose in Grecia la stupenda leggenda di Prometeo; se non che nell’India, mancò il soffio potente dell’arte, che accogliesse, coordinasse le sparse nozioni mitiche, e in una sola persona splendida e vivace desse unità ideale ai vari concepimenti mitici. I varî miti indiani relativi ad Agni, il fuoco rimasero, per la massima parte, dispersi nelle loro forme elementari. Questa permanenza del mito indiano nelle sue prime forme è ora per noi sommamente istruttiva, poichè ci permette distinguere i varî elementi primitivi che concorsero probabilmente alla formazione della leggenda ellenica di Prometeo, a plasmar la quale era necessaria l’opera di un popolo scultore come il Greco, che immaginò anzi Prometeo creatore dell’uomo e della donna in Flegia, come il primo degli scultori. Ed ora, se vi piace, terminiamo l’esame del dramma di Eschilo. Le ninfe oceanine fatte anche più pietose nell’udire il racconto di Prometeo, vorrebbero mutar discorso, temendo che, per alcuna sua colpa, Prometeo paghi quel fio, e che il ricordo di quella colpa sia per cagionargli soverchia amarezza. Ma Prometeo non sarebbe per noi così grande se egli fosse soltanto una vittima, e non un eroe del sacrificio, se egli non avesse osato sacrificarsi per gli uomini, già pur prevedendo l’orribile sacrifizio che lo attendeva, e come egli sarebbe stato messo in croce sul Caucaso, ove le sue mani, i suoi piedi sarebbero stati un giorno inchiodati, ove il suo costato sarebbesi lacerato crudelmente un giorno dall’adunco becco d’un avoltoio. Prometeo risponde fieramente: «lo sapeva tutto. Spontaneamente operai, non me ne disdico. Ma, in servigio degli uomini, incontrai questi mali, pur non credeva che sarei stato messo a tal supplizio.» Tuttavia, Prometeo non vuole, non sopporta di essere compianto e compatito; si dispone bensì a vaticinare il futuro e desidera di avere presso di sè tali ascoltatrici. Le ninfe oceanine rispondono che per questo lasciarono il mobile elemento e attraversarono gli spazi aerei. S’avanza allora l’Oceano, mosso egli pure da compassione pel caso di Prometeo, non tanto egli dice perchè parente, ma perchè non istima al mondo alcuno più di Prometeo, il quale se ne mostra meravigliato, poichè non trova che sia spettacolo molto attraente il veder castigato da Giove quel Prometeo stesso che aveva contribuito a fondarne il regno. L’Oceano è un politico, un diplomatico. Ammira bensì Prometeo, ma lo consiglia di adattarsi costituzionalmente ai tempi e costumi nuovi, poichè vi ha tra gli Dei un reggitore novello. S’egli smettesse dal dir cose aspre e pungenti, se, frenati gli sdegni impetuosi, si sottomettesse ed implorasse grazia, vedrebbe forse il fine de’ suoi mali. S’egli non può dir cose piacevoli a Giove, taccia almeno, o parli men libero. Prometeo ringrazia de’ prudenti consigli, ma soggiunge, «cessa, non darti pensiero; già non lo persuaderesti, poich’egli è inflessibile, e vedi più tosto che da cotesto tuo viaggio non arrivi alcun male anche a te». L’Oceano si duole allora che Prometeo sia miglior consigliere per gli altri che per sè, e spera pur sempre che Giove gli farà la grazia di liberarlo da’ suoi mali. Ma il fiero e magnanimo titano risponde pregando l’Oceano di non tentar cose vane, di posare, di partire, poichè, se egli si trova tormentato, non desidera che, per cagion sua, si tormentino altri, nè che gli si attribuisca poi a delitto il patimento altrui. Quest’ultimo argomento persuade alfine l’Oceano che si ritrae. Quando è partito ricomincia il coro delle ninfe oceanine, che rinnovano i loro lamenti pietosi e allora Prometeo vorrebbe ricordare ch’egli stesso largì ai singoli Dei i loro doni; ma egli è pure un benefattore di buon gusto, e desiste da un vanto volgare sapendo in ispecie che le ninfe sono bene informate di quanto egli ha fatto a pro degli Dei. Egli si compiace invece d’opera più modesta, fatta per gli uomini, che un giorno erano rozzi e ch’egli rese intelligenti: che un giorno avevano occhi per vedere e non vedevano: che avevano orecchi per udire e non udivano: che, come accade ne’ sogni, confondevano ogni cosa; non avevano case; vivevano nelle spelonche, come formiche, senza aver cura delle vicende del giorno e dell’anno a loro ignote; egli rivelò agli uomini il moto degli astri, le arti, la scrittura: fece aggiogar gli armenti ed i cavalli e navigare i mari; ogni arte, in somma, egli insegnò agli uomini, e pure ei non conosce ancora arte alcuna che possa liberarlo dai mali che Giove gli inflisse. Nè egli rammenta ancora tutto ciò ch’egli potè fare a pro degli uomini, come i rimedî, l’arte di spiegare i sogni, di dichiarare i vaticinî oscuri, di scoprire i tesori nascosti nella terra. Le ninfe lo pregano allora di non volere, per amor de’ mortali, trascurar troppo sè stesso, ed esprimono la loro fiducia che Prometeo si troverà un giorno sciolto da’ suoi ceppi. Ma Prometeo prevede ancora lontano quel giorno, per volere del Fato cui Giove stesso è sottoposto. Allora vien curiosità alle ninfe di sapere se l’impero di Giove dovrà essere eterno. Ma Prometeo non vuol rispondere; egli sa che il parlare è un rivelare a Giove il segreto che dovrà perderlo, e per cui Prometeo sarà un giorno liberato. Egli si chiude dunque nel suo silenzio, sicuro di sè, sfidando l’ira di Giove, che egli non vuole in alcun modo vituperare. Le ninfe oceanine osservano allora a Prometeo che invano egli ama ed onora gli uomini, poichè questi non valgono a mutare la mente di Giove. Appena le ninfe hanno finito di parlare, arriva la infelice Io, la fanciulla cornuta, altra vittima, non dell’odio, ma dell’amore di Giove, che un assillo perseguita e caccia dolorosamente di terra in terra, fino alle estreme plaghe del mondo conosciuto, per volere della vindice Giunone, che fa spiare di continuo la fanciulla dal bifolco celeste Argo dai mille occhi, che ci ricorda il vedico Indra Sahasrâksha, ossia il cielo dai mille occhi, il cielo stellato. Io è la luna cornuta, continuamente errante pel cielo. Arriva a sera presso l’Oceano celeste e vede legato ad una rupe il sole, ossia Prometeo. L’uno è inchiodato al monte, l’altra erra sempre. Questo è, senza dubbio, il primo senso del mito; ma il genio poetico d’Ellenia l’ha bene altrimenti ravvivato. Prometeo ed Io, le due vittime dolenti, sentono l’uno per l’altro la più viva simpatia nel comune dolore. Prometeo sa ciò che ha patito fin qui, ciò che deve ancora patire la infelice figlia d’Inaco, e si duole, pur troppo, di saperlo, perchè ad Io rimane sempre da patire assai. Io, come ogni donna di sensi gentili, vorrebbe sapere i casi di Prometeo, non tanto per curiosità, ma per senso di profonda pietà; ma l’anima grande di Prometeo sdegna innanzi ad un grande dolore altrui, fermare la pietà sopra sè stesso, e quando Io gli chiede di qual colpa paghi la pena, egli, dopo avere detto ch’egli è Prometeo, colui che diede il fuoco agli uomini, non vuole più aggiungere altro. Allora Io domanda s’egli lo sa, che Prometeo palesi quando le pene di lei avranno un fine. Prometeo prega ancora di lasciarlo tacere e di non giudicare scortese il suo silenzio, poich’egli sa che il supplizio della povera tormentata sarà ancora lungo assai. Ma la fanciulla volendo conoscere, ad ogni patto, il proprio destino, Prometeo le fa note le lunghe dolorose peregrinazioni che le rimangono ancora a fare, prima che Giunone si plachi; ma prima egli invita Io a raccontare alle ninfe l’origine de’ suoi mali, alle ninfe pietose, innanzi alle quali non è opera vana il narrar casi lacrimevoli, ed Io consente. Quando essa intende poi quanto ancora le rimanga a patire, in un accento di disperazione grida che vorrebbe precipitarsi dalla rupe e trovar subito nella morte un fine alle sue pene. Prometeo le fa allora coraggio, invitandola a contemplare lui stesso, che la parca condanna a soffrir sempre e a non morir mai, a non morire almeno fin che non verrà a liberarlo il tredicesimo discendente della stirpe d’Io, della stessa fanciulla amata da Giove, da Ercole. Allora Giove sarà precipitato dal suo seggio divino, se Prometeo stesso non arriverà in suo soccorso. Alle ninfe quel vaticinio pare audace troppo, ed esse già temono per Prometeo che osò tanto. Prometeo risponde che un uomo che non può morire non ha da temer nulla. Le ninfe soggiungono che Giove lo tormenterà di più. Prometeo prevede pure i nuovi tormenti e sta già preparato a riceverli. Le ninfe trovano Prometeo imprudente; ma il titano risponde disdegnosamente:
Blandisci, invoca,
Adora pur chi regna; a me di Giove
Men che nulla ne cale. Opri, comandi
Fin che tempo gli resta, a suo talento,
Già non a lungo avrà su i numi impero.
Egli ha detto appena, che Giove gli manda il suo alato messaggiero, la spia degli Dei, Mercurio che viene tosto a domandare in nome del suo padrone, a Prometeo, in qual modo ei pretende sapere che Giove cadrà dal trono. Ma Prometeo tratta Mercurio, spia di governo, con quel disprezzo che dovea sentire per tal razza di gente un libero poeta ateniese, che, forse nello sferzar Mercurio, pensava a qualche illustre spia contemporanea:
Grandisonante e d’alterezza pieno
È tal discorso inver, quale a ministro
Si convien degli Dei. Siete novelli
In nuovo regno, e d’abitar credete
Securissime rocche; ma caderne
Pur non vid’io già due regnanti? e il terzo
Quel ch’oggi impera, anco vedrò ben tosto,
E in turpissima guisa. Or non ti sembra
Ch’io tema e tremi de’ novelli dei?
Lungi da me tanta vergogna.
E tu Per la via che venisti indietro torna;
Nulla da me di quanto chiedi, udrai.
Mercurio rinfaccia a Prometeo che la sua insolenza lo portò a quel fine; ma questi è pronto a rispondere:
Io t’assicuro.
Non cangerei la mia misera sorte
Con la tua servitù. Meglio d’assai
Lo star qui ligio a questa rupe io stimo,
Che fedel messaggiero esser di Giove,
Così insultar gli insultatori è d’uopo.
Dopo altre poche parole, Mercurio si lagna di esser trattato da Prometeo come fanciullo; questi ripiglia:
E non se’ tu fanciullo,
E più semplice ancor, se udir t’aspetti
Cosa alcuna da me? Non v’è tormento,
Arte non evvi, onde m’induca Giove
L’alto segreto a rivelar, se pria
Sciolto non m’ha da queste aspre catene.
Scaglisi pur la divampante folgore
E con nembi di neve e sotterranei
Tuoni si mesca e si sconvolga tutto:
Non pertanto sarà che a dir mi pieghi,
Chi sia che un giorno il balzerà di seggio.
Inutil noia
Tu m’arrechi, e alle sorde onde favelli,
No, mai non entri in tuo pensier, ch’io l’ira
Paventando di Giove, assumer voglia
Cor femminile, e, con donnesco rito,
Tender al ciel le palme, a scior miei lacci
Supplicando colui che tanto abborro.
Troppo lunge io ne sono.
Allora Mercurio minaccia a Prometeo i nuovi mali che lo percoteranno in breve, per la vendetta del nume nuovamente offeso; la rupe sarà spaccata dal fulmine, Prometeo precipitato in un abisso, poi tornerà di nuovo su e l’aquila di Giove verrà a lacerargli le membra, a cibarsi del suo fegato. Le ninfe atterrite fanno un’estrema prova di tentare Prometeo a piegarsi per allontanar dal suo capo quella nuova sventura; ma Prometeo ch’è il tipo dell’uomo giusto, tenace, impavido d’Orazio, non cede, e l’ultima volta rivolto alle ninfe esclama:
A me costui
Gridò cose già note, e i vituperii
Di nemici a nemico onta non fanno.
Piombi su me l’ignicrinito fulmine.
Il ciel con tuoni e con urtar di fieri
Venti s’irriti; orribile uragano
Scuota la terra dall’ime radici,
E con tremendo strepito confonda
L’onda del mare e l’alte vie degli astri,
E giù nel negro Tartaro travolga
Ne’ vortici fatali il corpo mio;
Far nondimeno ei non potrà ch’io muoia.
Altro consiglio
Dammi, altra cosa a far m’esorta, questa
Sopportabil non è. Che? Tu m’imponi
Una viltà? Soffrir con esso io voglio
Tutto quanto fia d’uopo. I traditori
Già tempo appresi a detestar; delitto
Anzi non v’ha ch’io più di questo abborra.
Allora la terra si scuote, il tuono mugghia, le saette lampeggiano; la polvere sì solleva dal turbine, i venti si scatenano furenti gli uni contro gli altri, il cielo si mesce col mare; è Giove che si vendica; e Prometeo dolente invoca la natura a farsi spettatrice de’ mali, onde Giove ingiusto lo castiga.
Così il dramma di Eschilo finisce, o piuttosto la prima parte d’un dramma, di cui la seconda che andò perduta dovea rappresentare Prometeo slegato; il che diede poi al poeta inglese Shelley la idea di scrivere un suo dramma molto fantastico, molto nebuloso, molto panteistico, ove il tipo del titano s’allontana sempre più dal suo semplice concetto primitivo. Il dramma del poeta inglese differisce dal dramma del poeta greco, quanto un cielo nuvoloso settentrionale da un cielo sereno d’Ellenia e, trattandosi d’un dramma il cui eroe dev’essere il manifestatore della luce ai mortali e il loro divino riscaldatore, non mi pare che vi possa essere per noi alcuna incertezza nella scelta. Il dramma dello Shelley è un’amplificazione fantastica fatta da un uomo di potente ingegno sopra l’uomo Prometeo posto a contrasto con la natura; ma quest’uomo poteva chiamarsi Prometeo come ogni altro uomo; non vi è più fra il dramma greco e l’inglese una continuazione dell’idea mitica, ma soltanto una divagazione da essa. Noi vediamo invece ancora la connessione strettissima fra il tipo poetico del Prometeo di Eschilo e il rozzo mito elementare proto-ariano da cui si svolse. È gloria della mitologia popolare aver potuta fecondare nel genio ellenico una così grande poesia, aver trasformato la materia più grossolana nella materia più spirituale, e con essa creato una cosa quasi divina e perfetta, com’è ora per noi il tipo del redentore ellenico, del giusto e forte titano che sacrificò sè stesso per portare fra gli uomini il beneficio della luce. Il Cristianesimo poi, come trasformò l’acqua che purifica i corpi, in acqua che purifica le anime, trasformò pure, facendoci salire assai più alto nella scala ascendente e luminosa dell’ideale e togliendo la mostruosità di una lotta col nume, la luce solare in una luce tutta spirituale. Il fuoco immortale che arde nell’ara o nel focolare per darci luce e calore, il sole che sembra morire ogni sera nel cielo occidentale, il sole che sembra esso pure sacrificarsi, per la volontà d’un tiranno tenebroso, per amore degli uomini, ma che risorge poi sempre a nuova vita immortale, diede origine alla rappresentazione ellenica d’un Prometeo, che non può morire, legato alla rupe dopo avere comunicato la luce ed il fuoco agli uomini, d’un Prometeo che Giove può tormentare, ma non distruggere, d’un Prometeo impavido, che resiste, che sfida superbamente le ire del cieco nume spietato. In tale aspetto il titano già benefattore degli uomini, dà pure agli uomini stupendo esempio di grandezza d’animo; il mito celeste, sotto questo aspetto, si converte nel più alto dramma umano; e Prometeo, come il Budha, come il divino fondatore del Cristianesimo, diventa a noi mirabile non pure per quanto egli ha patito, ma ancora per l’insegnamento che la sua dignità e fierezza nel patire ci insegna.