Mitologia comparata/Il sole, la luna, le stelle

Il sole, la luna, le stelle

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Il fuoco Pietre, piante, animali
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LETTURA QUARTA.


IL SOLE, LA LUNA, LE STELLE.




Trasportiamoci col pensiero in mezzo ad un antico popolo di pastori, lontano da tutti i rumori della civiltà. Non città, non castelli, non templi; unico tempio, la natura; il cielo, gran tabernacolo divino; la terra tutta aperta al riso dal sole, ricca di pascoli verdeggianti e di lieti armenti; in alto, un solo essere animato e splendente che fa muovere la luce, che tiene desto con la favella dell’uomo, il canto degli uccelli, che fa germogliare dal suolo tutta la immensa famiglia delle erbe e delle piante, il sole, insomma, che si concede tutto ai viventi e nulla chiede od attende per sè, che fa bene a tutti, anche a suoi nemici, cioè ai mostri tenebrosi ch’egli illumina. Il sole è il simbolo celeste della carità universale; quindi si comprende bene il nome di Mitra, ossia amico, dato nell’India ed in Persia al sole. Con questo nome famigliare il sole accompagnava, nell’età vedica, le opere del giorno ai pastori erranti per le valli del Kaçmîra e del Pancianada; ed ogni volta che questo amico tornava nel cielo o ne [p. 76 modifica]partiva lo accoglievano o io seguivano i saluti e le preghiere de’ pastori vivamente inteneriti. Dopo avere vissuto l’intiero giorno all’aperto coi loro greggi, i pastori vedici erano invasi da un profondo terrore, nel vedere che il sole si ritraeva dagli spazî celesti e che le ombre si estendevano misteriosamente ad avvolgere tutta la terra. Il sole si corica, il sole tramonta, il sole si tuffa nel mare, il sole cade, il sole se ne va, il sole si oscura, il sole tace, il sole muore, sono tutte immagini e non le sole con le quali la immaginazione popolare nelle varie lingue si rappresentò lo scomparire diurno del primo tra gli astri che risplendono alla terra, dalla vista degli uomini. L’uomo primitivo fu pronto a domandarsi: Ove va? Tornerà desso? In qual pericolo fu egli ora attirato? Che cosa gli faranno dunque? Secondo le varie risposte che furono date a quelle prime quasi paurose interrogazioni, si svolse una serie infinita di miti solari, alcuni dei quali pieni di alta, solenne, quasi tragica poesia.

La prima, la più frequente di tali risposte dovette essere idillica. La vita del sole parve agli antichi pastori vedici somigliante alla vita lor propria. Anche essi uscivano col levarsi del sole dalle loro stalle oscure e muovevano, pastori erranti, ne’ vasti campi, ai quali l’umana cupidigia non aveva ancora posti confini. La prima ricchezza, la sola ambita dal poeta vedico, la sola ch’esso invocò da prima fu la moltiplicazione infinita del proprio gregge, e della propria famiglia. L’oro non era ancora desiderato; veniva celebrato il suo splendore, perchè colorava gli [p. 77 modifica]astri ed il fuoco, perchè dall’oro celeste si diffondeva sopra la terra la luce; ma un gregge fiorente ed una famiglia numerosa erano la prima ambizione di que’ nostri antichi patriarchi ariani. La luce degli astri, specialmente del sole, scopriva ai pastori il loro gregge, che si animava esso pure con l’apparir del sole. Quindi, in questo celeste agitator di greggi ed armenti, nel sole, fu veduto, da prima, principalmente e più spesso, un sommo pastore. È tra i pastori che nasce il grande benefattore celeste; e la sua prima vita è quella d’un buon pastore. Quando al mattino ed alla sera, tutto il cielo orientale ed occidentale si empie d’una luce d’oro, d’una luce dorata, si vide in quel mare agitato di luce un armento di vacche e pecore luminose, che, al mattino, escono dalle stalle celesti ed a sera vi rientrano. Il buon pastore celeste le richiama tutte a sè, senza perderne alcuna.

Il momento in cui il pastore divino rientra col gregge nelle sue dimore divine parve, particolarmente, solenne agli antichi pastori ani e semitici.

Al sole (sûrya, propriamente lo splendido) furono nell’India dati più di mille nomi, e molti di questi diedero occasione a crear nuovi miti. Ogni nome del sole è un appellativo che rappresenta una sua qualità speciale, od un suo peculiare momento.

Il sole presso al tramonto viene specialmente salutato dai poeti vedici coi nomi di Aryaman, il venerando, di Bhaga, il ricco o Fortunio (da questa parola derivò la voce russa Bog, che [p. 78 modifica]significa Dio) il sole nel tramonto si chiama Pûshan, propriamente il nutritore. Di Pûshan è detto ch’egli è purûvasu o ricchissimo, Vâg’in o fornito di cibi, Viçvasaubhaga o recante tutte le benedizioni, mayobhû o benefico, mantumat o ricco di consigli, viçvavedas od onnisapiente, çakra tura, tavyas, tuvig’âta o forte, potente. Ma vi sono ancora due appellativi di Pûshan che mi sembrano specialmente singolari ed importanti. Egli ci è rappresentato ancora come Pathaspati o signor della via, o proteggitor de’ viandanti, e come paçupâ o guardiano di armenti di pecore, o pastore. Nell’ora del giorno che intenerisce il cuore ai naviganti, nell’ora del giorno in cui l’arabo del deserto si arresta e mormora, rivolto verso il sole moribondo, in silenzio, la sua preghiera, in cui il penitente indiano si sprofonda maggiormente nella sua meditazione, in cui celebra il sacrificio vespertino, il Dio Pûshan rappresentato, con uno stimolo in mano, spingeva egli pure i suoi armenti celesti nelle stalle divine. Nulla di più poetico, nulla di più pittoresco del nome dato dai poeti vedici all’ârâ, o stimolo del divino pastore del Dio Pûshan, ossia all’ultimo raggio allungato del sole moribondo. Quello stimolo è chiamato, in lingua vedica, brahmac’odanî, che vuol dire precisamente, risvegliante la preghiera. Quando il pastore celeste Pûshan adoprava il proprio stimolo divino per fare entrare nella stalla il suo bestiame celeste, il pastore della valle del Kaçmîra stimolava egli pure il proprio bestiame al ricovero, per supplicare il pastore divino affinchè, com’egli lìbera sè stesso [p. 79 modifica]ogni notte dal mostro tenebroso, rappresentato dai poeti vedici come un lupo rapace divoratore del gregge, tenga lontano dal gregge dell’uomo il lupo, intanto che gregge e pastori ritrovano, indicate dallo stesso Dio Pûshan, ossia dall’ultimo sole morente e pietoso, le loro dimore. «Con Pûshan, canta un inno vedico, possiamo noi trovare le dimore ch’egli ci prescrive; eccole, egli dica soltanto.» Ma qui questo Pûshan guidatore alle desiderate dimore, non appare soltanto un Dio pastore, ricco di capre e di cavalli, onde il suo nome di ag’âçva, che fu di poi spiegato pure quello «che ha per cavallo una capra»; come Pûshan spinge il proprio bestiame nelle stalle divine, così fa entrare il sole moribondo nella sede de’ beati; in tal figura egli si confonde col funebre e paradisiaco Dio Yama, che divenne più tardi un nume infernale, allo stesso modo che Çiva propriamente il felice, il beato, il Dio dei beati, diventò poi un Dio distruggitore, un Dio della morte, una specie di Dio de’ Dannati. Il primo sole che morì apparve, qual primo de’ mortali, qual primo de’ beati, quello che mostrò la via dei beati agli altri mortali. Così dall’idea pastorale del sole che riconduce alle stalle divine gli armenti, si passò ad immaginare quelle pecore celesti come anime le quali il nume Pûshan, che diviene in tal figura un vero ψυχοπομπός, accompagna alle loro sedi immortali nel largo splendido cielo lontano. Lo stesso Pûshan che, col suo stimolo, ridesta la preghiera, la meditazione vespertina de’ pii mortali, onde pure il suo appellativo di dhiyamginva, viene invocato in un inno [p. 80 modifica]funebre vedico, perchè accompagni l’anima del morto alle sedi beate: «Il sapiente pastore del mondo, Pûshan dal gregge immortale, ti porti via di qua, ti conduca fra quei beati maggiori, ed Agni (qui il fuoco stesso del rogo) fra gli Dei benigni. Una lunga vita ti sia propizia; dove stanno i buoni, dove andarono i buoni, colà ti porti il Dio sole. Pûshan conosce tutte quelle sedi; egli conduca noi fiduciosi, egli benefico, splendido, ornato d’ogni virtù, vigile, previdente vada innanzi. Pûshan è nato per andar lontano, nel lontano Dyu, nella lontana Pr’ithivi; entrambe sono per lui sedi amatissime; egli arriva da esse; egli parte per esse.»

Un’altra forma vedica più gaia del sole è Savitar, che si congiunge specialmente col sole mattutino, col sole rinascente, come Pûshan col sole vespertino, col sole moribondo; l’uno e l’altro talora, negli inni vedici, s’identificano; ma Savitar raffigura specialmente il sole nel suo più vago splendore. Egli è celebrato come avente occhi d’oro (hiranyâksha), mani d’oro (hiranyapâni, hiranyahasta), belle e grandi mani (supâni prithupâni), cappelli biondi (harikeça) bella e dolce lingua (sug’iyva, mandrag’ihva); egli ha carro d’oro, cavalli d’oro, tunica d’oro e nasce in acque tinte del color dell’oro (ossia nell’onda luminosa dell’aurora mattutina); egli manda innanzi a sè il bel carro degli Açvini, e poi si manifesta egli stesso; egli sale e scende; il suo carro, percorrendo le vie celesti, non fa polvere; egli illumina l’universo seguito dagli altri Dei che, per suo merito, sono immortali; dominatore delle acque [p. 81 modifica]e dei venti, signore benefico, egli libera tutti dal male e fa muovere i viventi; egli nella sua qualità di Savitar o generatore, genera tutti gli Dei e sè stesso, col nome di Sûrya o sole; egli contiene in sè tutti gli Dei onde il suo nome di Viçvadeva; egli è onniveggente, onnisapiente, onde è l’appellativo ch’è pur dato al vecchio sole moribondo Pûshan di Viçvaveda.

Ma voi potreste qui osservarmi che io vi rappresento la mitologia vedica, senza darvi alcun indizio che gli stessi miti siansi trasferiti in Europa, ove dovrebbe essere prima industria del mitologo comparatore ricercarli. Ed avreste ragione. Ma, come io potrei darvi un’idea un poco chiara delle fasi più recenti del mito, senza aver prima tentato di mostrarvi qual fosse il mito nella sua forma primitiva? Io credo pericoloso assai il rinnovare nella mitologia l’errore che si è già commesso e di cui in Italia forse più che altrove sentiamo, nelle scuole secondarie, i danni nella filologia. Dopo ch’è nata la filologia comparata, alcuni nostri chiari professori credono ormai cosa superflua lo studio profondo de’ singoli linguaggi; quando si possiede, essi pensano, il metodo critico comparativo, le lingue non occorre più studiarle; s’indovinano; è da pedanti il saper di latino, di greco, di sanscrito; con le ricostruzioni sapienti della glottologia si sarebbe, dicesi, arrivati a ricomporre i Vedi, anche senza gli indianisti, a leggere Omero anche senza professori di greco. Io ho un ammirazione profonda per i glottologi, ma credo ingenuamente che, [p. 82 modifica]prima di comparare il greco ed il latino e l’altre lingue arie d’Europa col sanscrito, occorra darsi la briga di studiare un po’ di sanscrito. Così credo impossibile il trattato di mitologia comparata fin che non abbiamo esaminato le singole mitologie nazionali e non ne conosciamo un po’ dappresso il contenuto. La mitologia indiana è la più elementare, la più schietta, la più ricca; occorre pertanto accostarci ad essa, prima d’arrischiarci nelle indagini comparative. Senza una prima sufficiente nozione dei miti indiani, intendiamo male gli altri miti indo-europei. Ora io m’affido alla vostra intelligente indulgenza, perchè non vi rincresca troppo se in queste nostre prime escursioni mitologiche ho dovuto fermarmi particolarmente sui miti indiani. Per costruire convien partire dalla base; e la più larga base alla mitologia comparata ci viene sicuramente offerta dai miti indiani. Ma perchè, vedendo onde si parte, possiate pure avere un indizio della meta alla quale si può, mercè questi nostri studî curiosi, arrivare, poichè vi feci menzione del Sole vedico Savitar il Dio dai cappelli d’oro, che sa tutto, desidero pure richiamar qui alla vostra memoria una novellina popolare boema, rivolataci dal dottissimo prof. Emilio Teza, ch’è una variante del mito ellenico di Bellerofonte. In questa novellina il re ordina al giovine eroe, tra l’altre imprese, quella d’andargli a pigliare in luogo remoto, e pericoloso i tre cappelli d’oro del nonno Satutto. Satutto nelle lìngue slave si chiama Vsieveda o Vseveda ch’è il perfetto corrispondente del vedico Viçvaveda onnisapiente, dato al sole Savitar dai [p. 83 modifica]cappelli d’oro. Anche gli altri particolari della novellina boema mi sembrano tutti mitologici e riferirsi alle vicende del sole che scompare in occidente, che viaggia la notte e risorge al mattino con l’aurora, la bella figlia del re che ama il giovine sole e gli insegna il modo di ritrovare i cappelli d’oro, ossia di ricomparire egli stesso nel mattino coi cappelli d’oro che si suppongono rapiti al vecchio, al nonno Vsieveda. Per arrivare alla dimora di Vsieveda o Satutto, il giovine eroe dove attraversare un’acqua misteriosa, piena anch’essa di pericoli, quell’acqua stessa che percorre Ercole al suo ritorno dall’orto delle Esperidi, o dal giardino delle fate dal quale il giovine eroe suol rapire le tre mele d’oro o le tre melarancie. Certo il pastore boemo che racconta oggi la novellina del nonno Vsieveda o Satutto dai capelli d’oro, non sa più e non si cura sapere che quel nonno era una volta, ch’egli era ancora, per i poeti vedici, il sole onnisapiente dai capelli d’oro. Ma non è cosa indifferente per noi il conoscere il senso riposto di tutta quella fantastica letteratura popolare così cara ai fanciulli, così piena di fascino misterioso, e dichiararci quel curioso mistero.

Una delle più popolari tra queste novelline, è, senza dubbio, quella della Cenerentola, che ha poi tante varianti singolari e fantastiche nella letteratura popolare. La fanciulla perseguitata ora appare mal vestita con abiti scuri che la cenere ha coperti; ora si nasconde sotto una pelle d’asino; ora in una veste di legno e cammina in essa come una trottola; ora si nasconde in una [p. 84 modifica]foresta, ed in altri mille modi sfugge alla persecuzione della crudel matrigna, della strega, della rivale, del padre, dello suocero, del vile suo seduttore.

Noi abbiamo già veduto come per avere rivelato un segreto, per aver fatto sapere, per aver fatto conoscere ciò che doveva rimanere nascosto, Urvâçî e Purûravas, Apollo e Dafne, Amore e Psiche, la Belle et la Bête, Elsa e Lohengrin vengono divisi. Il ciclo delle novelline che svolgono il motivo principale contenuto nella storiella della Cenerentola è parallelo al ciclo delle favole e leggende che trattano degli amanti i quali s’occultano l’uno all’altro. Anche la Cenerentola s’occulta; il mito è sempre lo stesso; solo il motivo che il mito adduce talora per quell’occultarsi dell’eroina è un po’ diverso. Nella storiella della Belle et la Bête, la fanciulla non deve sapere chi si cela sotto le spoglie notturne d’una bestia; non deve dire ad alcuno com’essa vive; quando essa vuol rivelare altrui il segreto, la bestia si ammala e muore, ma risorge poi dalle sue spoglie un giovine principe bellissimo. Così Purûravas perde Urvâçî appena gli si rivela, nella leggenda vedica; Dafne cui Apollo si rivela, Psiche che scopre Amore, Elsa che rivela il segreto di San Graal rimangono al sole e dolenti. La forma misteriosa, notturna dell’eroe, o dell’eroina solare non deve essere rivelata ad alcun mortale; appena que’ segreti amori del cielo si scoprono, gli amanti si perdono l’uno per l’altro. Questo è un aspetto frequente del mito. Ma il mito si rappresentò pure la forma scura, la forma tenebrosa che assume nella notte [p. 85 modifica]il nume o l’eroe luminoso, come una forma proteggitrice per la quale egli si nasconde e sfugge alla persecuzione; nessuno ha invidia de’ miseri e l’eroe diventato misero cessa pure di venire invidiato, e però perseguitato; talora l’eroe, o l’eroina assumono una veste oscura, per effetto d’alcuna maledizione; l’intervento d’una buona fata, d’un nume pietoso, o d’un giovine eroe liberatore o d’una giovine eroina liberatrice distruggono il tristo incanto. Il riscontro de’ miti europei coi miti vedici ci permette ora d’affermare che nel duplice ricchissimo ciclo di novelline popolari di Amore e Psiche e della Cenerentola si raffigurano gli amori celesti del sole e dell’aurora, che la notte accoglie, occulta, perseguita, che copre di vesti scure, e ai quali, per lo più, una buona fata, la luna, viene pietosamente in aiuto.

L’aurora come fenomeno fisico luminoso quotidiano vien descritta negli inni vedici, sotto il nome di Ushas od Ushâ, come splendida, ardente, e, in quanto l’alba la precede come bianca, imburrata, stillante burro; essa vien pur detta di bella forma, ben fatta, di bell’aspetto, rosea, dal roseo aspetto, aurea, ricca, estendente la luce; giovine, sempre giovine, agile, bene muoventesi; simile ad una go, ad una vacca luminosa; anzi fornita di molte go, di molte agili vacche lucenti; simile ad una cavalla veloce, fornita di cavalli veloci. Da tutti questi appellativi dell’aurora è agevole l’argomentare che siamo già assai vicini ad una sua vera e propria personificazione celeste. L’aurora gomati ossia fornita di vacche diventò [p. 86 modifica]facilmente una bella pastorella; l’aurora açvavati o fornita di cavalle, una eroica guidatrice di carri e di cavalli.

Vi ricordate, senza dubbio, che nella novellina della bella e della brutta, la bella è mandata dalla matrigna a pascere; la bella pastorella è l’aurora che nella sera appare perseguitata dalla notte matrigna, o brutta sorella, o trista rivale che vuol perderla, e nel mattino sposa il figlio del re, il giovine principe, il sole. Noi parliamo ora soltanto più di una sola aurora, dell’aurora del mattino. Ma la parola aurora significa il ciclo aurato, che si vede al mattino in oriente, alla sera in occidente. Il mito ha contemplato queste due figure, questi due splendidi momenti del cielo, e vide nell’aurora del mattino, per lo più, una pastorella felice, nell’aurora della sera una pastorella infelice. Come il sole, figurato qual giovine eroe, diventa stalliere e spazza poi nel mattino, le stalle celesti, ossia sgombra il cielo dalle tenebre, così la pastorella, che nella notte aveva prese umili vesti, riappare in una splendida veste, ora vestita color delle stelle, ora color della luna, ora color del sole innanzi al principe che dovrà sposare, deponendo la veste scura che la crudel matrigna l’obbligava a portare nella notte.

In un inno vedico, ci viene rappresentato il Dio Indra che protegge una fanciulla, Apâlâ, che gli vuol bene. È la sera; la fanciulla discende alla fontana per attingere acqua; nella fonte pesca il Soma, ossia l’ambrosia, è, come pare, l’ambrosia lunare, la luce della luna, che in altri casi appare come una buona fata, una buona vecchierella, una [p. 87 modifica]Madonna, che fila per la buona fanciulla sulle corna delle sue vacche, dopo essersi fatta pettinare dalla buona fanciulla, la quale afferma poi che dai capelli della Madonna piovono perle le quali raffigurano nel mito i raggi lunari o le stelle. La fanciulla vedica che attinge acqua e trova nell’acqua il soma, sapendo quanto il Dio Indra ne sia ghiotto, s’affretta ad offrirglielo; quel segno d’amore intenerisce il nume, che vedendo la fanciulla ammalata, vedendo oscurarsi la sua pelle, ne prende pietà e si dispone a guarirla. Lacerando dunque la pelle scura della fanciulla Apâlâ che ci ricorda la pelle d’asino della novellina di Perrault, il Dio Indra la fa, in tre tempi, diventar bella, e finalmente tutta luminosa, all’apparire dell’aurora. Il mito vedico è evidentissimo, e ci offre, senza dubbio, la forma più antica della nostra Cenerentola, la quale butta via la sua veste scura, assume tre vesti splendide, l’una color della luna, l’altra color delle stelle, la terza color del sole, per ballare col figlio del re, che deve quindi sposare. Ma l’aurora vedica non è soltanto, come dicemmo, una gomati o fornita di vacche, una guidatrice di vacche (gavâm netrî), una pastorella, ma ancora, come dicemmo pure, una guidatrice di carri e di cavalli, come l’eroe solare. Gl’inni vedici ci rappresentano l’aurora in questi varî aspetti: essa si orna come una ballerina, si scopre il petto, sorride, lusinga, vezzeggia col corpo, giovine, splendida, ora come una bella fanciulla che la madre adorna, ora come una bella donna che si leva dal bagno, per muovere alle nozze, ora in veste [p. 88 modifica]luminosa; ma essa si rivela in tutto lo splendore della sua bellezza solamente innanzi al proprio sposo. Così Cenerentola si mostra bella solamente innanzi al figlio del re. È il sole che fa nascere, che fa splendere, che riveste d’oro l’aurora.

Vi ricordate come spesso nelle novelline popolari il giovine principe, dopo avere sposata la bella fanciulla, l’abbandoni, per andarle a cercare vesti regali, ma poi per le magie d’una strega si dimentica la data promessa e l’abbandona; il re indiano Dushyanta abbandona in tal modo la giovine Çakuntalâ che viveva nella foresta, coperta d’una rozza veste di penitente; ma prima di abbandonarla per andare a cercare vesti ed ornamenti regali, le lascia un anello con cui Çakuntalâ potrà farsi riconoscere. Quest’antica novellina che ha tanti riscontri nelle novelline indo-europee ci raffigura essa pure gli amori del sole e dell’aurora, che s’incontrano a sera nel cielo occidentale, i quali dalla strega, la notte, vengono divisi; la strega notte vuol pigliare presso il principe sole il posto che teneva la bella aurora, la quale viene precipitata in una fonte, od uccisa e convertita, ora in canna ora in colomba, ora in altra forma funebre, fin che al mattino il principe sole e l’aurora si ritrovano, si riconoscono, la brutta strega la notte vien fatta morire in una fornace, sul rogo, e i due giovani sposi tornano insieme felici.

Noi vedemmo fino ad ora l’aurora vedica figurata come una pastorella, e come fanciulla che di brutta divien bella, che si veste splendidamente e che va a ballare. In questo mito abbiamo [p. 89 modifica]già, oltre un aspetto splendidissimo della Venere indiana, gli elementi di quasi tutta la novellina popolare della Cenerentola. Ma, se vi ricordate, nella novellina di Cenerentola vi sono ancora due particolari curiosi: la Cenerentola fugge, per lo più, sopra un carro rapidissimo che il giovine figlio del re non può raggiungere; alfine lascia nelle mani del principe una sua piccolissima pantofola, così piccola che non si può trovare in tutto il regno un piede al quale convenga. Dell’aurora vedica si dice che essa non ha piedi, che non lascia orma di sè, e che il sole va dietro all’aurora lucente come un uomo va dietro alla donna. Ma come mai, con piedi tanto piccoli, anzi senza piedi, l’aurora può correr tanto? Come mai, nella gran corsa celeste che si descrive dai Vedi vien detto che l’aurora si mostrò rapida fra tutti gli Dei e vinse la prima corsa?

Il miracolo si compie sopra un gran carro luminoso, rapidissimo, al quale sono aggiogati e con rosee redini infrenati rosei cavalli rapidissimi. I due cavalieri e Dioscuri vedici, gli Açvini incontrano nel cielo la bella figlia del sole, l’aurora, e mossi da affetto per questa loro bella amica e sorella, per questa Elena vedica, desiderosi che vinca essa la corsa celeste, le imprestano il loro proprio bel carro; perciò vien detto nell’inno 116° del primo libro del Rigveda, che l’aurora arrivò prima alla meta celeste, vincendo la corsa, e nell’inno 124°, che arrivò e splendette prima nel cielo. Quando il sole è vicino a raggiunger l’aurora, l’aurora scompare, e il sole ne perde la traccia. Ed ecco come un mito si trasforma in [p. 90 modifica]un altro, come il sole fenomeno fisico dell’aurora mattutina che si manifesta per virtù solare, ma scompare appena, o per curiosità propria, o per invidia altrui, il sole le appare nella sua propria figura, ossia rivela il proprio essere, può dare occasione alla favola d’Amore e Psiche e di Cenerentola che dopo aver ballato col figlio del re, sfugge a’ suoi amplessi, e non si lascia raggiungere e ritrovare. Ditemi ora voi, se la mitologia comparata che viene per la prima volta a rivelarci tutti questi cari misteri della nostra letteratura infantile, sia poi dottrina così vana e così infeconda, e se il mitologo che si fa interprete di questi sogni dell’infanzia del mondo perda intieramente l’opera sua.

Vi rammentai già la luna come benefattrice del principe sole e della principessa aurora, quando lo stregone, l’orco, la strega, la tenebra notturna li perseguitano. Vediamo ancora sotto quali aspetti ci viene rappresentata la luna negli inni vedici. Anumati, ossia la propizia, è chiamata la luna alla vigilia del plenilunio; Rakâ la splendida, la luna del plenilunio. Presso queste due fasi lunari, si rammentano Sinivali e Kuhû o Guñgu, le due lune del novilunio. La piccola luna, la luna del novilunio è celebrata come sabahû ossia avente piccole braccia, e svañguri, ossia dalle belle dita. Di Sinîvalî è pur detto ch’essa prepara il germe, che pone il germe produttivo. Nelle novelline russe abbiamo fate dalle mani e dita meravigliose che foggiano un fanciullino nano di pasta e poi vi soffiano la vita, sì che ne nasce un piccolo eroe, l’eroe solare. Raffigurata così la luna come [p. 91 modifica]una fata meravigliosa, come una meravigliosa madre celeste, essa divenne pure più facilmente la proteggitrice de’ parti e de’ matrimoni. Secondo l’uso nuziale indo-europeo, i matrimonî devono essere sempre celebrati, per buon augurio, nella quindicina luminosa della luna, quando la luna è veramente luna o lucina, o luminosa, ossia fra il novilunio ed il plenilunio, tempo che si crede propizio, per eccellenza, alla fecondazione, nè solo alla fecondazione animale, ma ancora alla vegetale, onde pure le numerose superstizioni agricole che si riferiscono agli influssi lunari. Ma se la vedica Sinîvalî ci offre alcuni indizî preziosi, anche più singolare ed importante è quello che l’inno trentesimo secondo del secondo libro del Rigveda ci fa sapere della nuova luna Râkâ. Voi ricordate, senza dubbio, come nelle novelline popolari, la strega matrigna ordini alla bella fanciulla che odia e perseguita, un lavoro impossibile, superiore ad ogni arte, industria e potenza umana. La povera fanciulla si dispera, e si raccomanda ora alla Madonna, ora ad una buona fata che viene ad assisterla, a lavorare, a far contare il grano, tessere, filare, cucire per essa. Invece della Madonna, trovasi talora una meravigliosa bambolina o fanciulla di legno (uno de’ nomi vedici della luna è Aranyânî, o la silvestre, quella che sta nel legno, nel bosco, come Artemis o la Diana silvestre, nel quale aspetto diventa poi una Dea cacciatrice; quindi il nome di madre delle fiere dato ad Aranyânî e di Mr’igarâg’a, o re delle fiere dato, in sanscrito, alla luna). Questa bambolina, questa fanciulla di legno ha, come la [p. 92 modifica]luna, mani e dita meravigliose di fata, così piccole che può con esse preparare una camicia o un abito tanto fine che passi nella crua dell’ago o possa star chiuso entro il guscio di una nocciuola. Anche la luna Râkâ, nel Rigveda, appare intenta a cucire l’opera luminosa celeste, con un ago che non si rompe. Qual è quest’opera celeste? Il velo d’oro che l’aurora mattutina reca al sole suo sposo, il velo, l’abito, la veste, la camicia nuziale dei giovine sole; la tela che Penelope prepara, senza fine, allo sposo errante Ulisse. L’inno vedico, subito dopo aver nominato l’opera che Râkâ, la splendida luna, deve cucire, invita la stessa Râkâ a produrre l’eroe dai cento doni, degno di venir celebrato, ossia il giovine eroe solare. Più tardi questa stessa strofa divenuta una formola sacra, passò nel rituale dell’uso domestico, e, per ogni figlio nascituro sopra la terra, si ripetè a fine di buon augurio, la stessa invocazione. Chè, se rechi meraviglia il sentire come la luna, cucendo l’opera, produce un figlio, può scemar questa meraviglia, quando si pensi pure al probabile equivoco di linguaggio nato tra le radici siv, syu, sû, cucire (onde il vedico sûcî l’ago, quello che cuce), onde la parola indiana sûtra filo, la parola latina suere cucire, e la radice generare, onde le voci sanscrite sûta, sunu il figlio. Il cucire come il creare è un mettere insieme, un aggiungere, un aggregare. Io ho fin qui indicato un solo aspetto della luna vedica, la luna mediatrice, la luna proteggitrice dell’eroe e dell’eroina solare; la lampada che illumina la via acquosa ai due amanti Ero e Leandro è una [p. 93 modifica]nuova forma poetica di questo mito. Altre più potremmo osservarne, le quali ci sarebbe agevole riscontrare coi varî aspetti delle classiche Selene, Artemis, Persefone, Cinzia, Diana, Lucina e Proserpina. Ma quanto s’è detto può bastare a persuaderci che fra il sole e la luna il mito suppose una relazione continua.

Così pure fra la luna e le stelle. Abbiamo già accennato alle stelle spie del cielo. Il sole, la luna, le stelle, sono ancora raffigurati come sede immortale di anime umane fatte beate. Alle stelle si sale, dopo morte; dalle stelle, secondo le credenze orfiche ed eleusine discendevano le anime dei neonati, l’arco baleno, la via lattea si rappresentarono talora come un ponte delle anime che attraversano la funebre palude. Il poeta vedico, descrivendo lo scomporsi del corpo umano dopo la morte ne’ suoi varî elementi, osserva che l’occhio del trapassato va a perdersi nel sole ond’esso è nato; concetto che fu pure accolto dal Goethe nella sua Farbenlehre:

 Wär’ nicht das Auge sonnenhaft,
 Wië könnten wir das Licht erblicken?

Come in uno specchio, nell’onda, nell’arcobaleno si rinfrangono tutti i colori dell’iride; come nel linguaggio, per gradazione successiva di suoni o colori vocali che rivestono il pensiero, per minime deviazioni di riflessi ideali, con parole omonime, si vennero talora a rappresentare colori diversi, così da fenomeni fisici elementari insieme combinati si svolse un intero sistema mitologico, anzi una intiera armonia mitica. Noi abbiamo [p. 94 modifica]già inteso come nella lingua vedica nascesse l’equivoco sopra la voce div, che significò brillare e abbiamo pur veduto come le ninfe danzino, come i gandharvi vedici e i centauri ellenici suonino, come il cielo si riempia di suoni e di canti; abbiamo pur veduto che la luce si muove e si crea al suono della parola. L’acqua che balla e canta delle novelline popolari non è altro se non l’onda luminosa; il moto manda un suono. La luce che si muove, che si distende, diffonde per gli spazî che percorre un’armonia di colori, che appare eloquente; così pure s’immaginarono il sole, la luna, le stelle come divini strumenti musicali, come arpe eolie che il vento fa fremere, come lire celesti. Quando si dice che Orfeo con la sua lira fece muovere pietre, piante, animali; quando si rappresenta Apollo con la lira. Apollo guidator delle nove splendide muse, ci si raffigura il sole stesso come una lira, di cui i raggi d’oro sono le corde. Il Dio che regge il sole tocca quella lira divina e per quell’armonia i raggi solari che insieme giuocano e producono un divino concento, tutta la terra si muove, si ridesta, ripalpita alla vita. Quello che fa il sole nel giorno, lo fanno nella notte la luna e le stelle. Il flauto magico che rinnova il miracolo della lira d’Orfeo e che inspirò il genio del Mozart è ancora un flauto celeste. La luna ed il sole sono quel flauto, quel sonatore di flauto. Quel flauto rivela tutti i segreti, scopre tutti i tradimenti, precisamente come fanno il sole e la luna che rivelano i nascondigli, che rendono tutto manifesto, che fanno muovere ogni cosa. Alcune novelline ci parlano [p. 95 modifica]pure d’un giovine pastorello, d’un giovine suonatore di flauto d’agreste cornamusa, che viene ucciso; ma sulla sua tomba risorge una pianta vocale e dolente che ci dirà il nome dell’uccisore come la il corniolo del Polidoro virgiliano. Il flauto divino è immortale, come la luce. Quando l’aurea luce s’accende nel cielo, tutto il mondo risorge, favella e canta; il lungo silenzio rendeva fioche le ombre dantesche, e Dante stesso chiama muto un luogo privo di luce. La luce è perfetta armonia; dalle stelle risplendenti parve uscire una grande sinfonia celeste: le stelle fra loro si parlano; e tutte insieme formano quello stupendo concerto che un walzer dello Strauss mi sembra avere tentato invano di farci risuonar negli orecchi. Quella musica divina penetra nell’anima nostra in modo troppo misterioso, perchè alcuno strepito violento di note musicali terrene possa determinarlo. Guardando il cielo stellato, un sentimento poetico e religioso s’impadronisce delle anime nostre; nessuno è con noi, e pure contemplando ad una ad una e tutte insieme le stelle, non sentiamo quasi più la nostra solitudine profonda; ogni stella ci splende amica e ci dice una sua parola, e quella parola arcana ci acqueta le interne tempeste e compone nelle anime nostre i loro dissidî dolorosi. Anche il gran scettico di Recanati, che sdraiato alle falde del Vesuvio, contemplava quasi moribondo ora il mare, ora il bel cielo stellato di Napoli, non seppe resistere al fascino immenso di quella armonia di astri lucenti negli spazi infiniti, e trovò in essi un’ora di pace, disperata bensì ma pace; egli conchiudeva bensì [p. 96 modifica]sempre alla pochezza dell’uomo, e alla sua grande miseria innanzi alla natura; egli derideva pur sempre all’essere mortale; ma in questa meraviglia stessa che suscitava ancora in lui l’aspetto d’un cielo stellato, noi abbiamo una prova che il sentimento d’armonia religiosa che governa la natura aveva vinto e domato anche lui. Perchè mai egli così terribile scettico intorno alle cose dell’umanità, levando gli occhi al cielo volle tornar poeta, e, non figurando più gli altri mondi ad uno ad uno, come stupide inerte moli ove la creatura patisce e geme come sulla terra, si sollevò egli nel concepimento ideale di un tutto più alto e più perfetto che si dilata per gli spazî infiniti quasi a confondere ed umiliare la miseria nostra? Quanto manca più perchè quest’uomo il quale sente la divina maestà del creato, e la solenne armonia che diffonde come in un tempio infinito la luce serena e tranquilla delle stelle, non curvi i ginocchi riverente ed adori? Così la celeste lira d’Orfeo, la lira febea, il flauto divino, l’armonia delle sfere che, secondo il mito, ebbe virtù di trarsi dietro tutta la natura animata e inanimata, rinnovando il suo magico portento, viene a tentare il gelido petto del più disperato e disperante fra i nostri poeti, e lo costringe, nuovamente e per l’ultima volta, meravigliato e commosso, al canto.