possiamo oramai rimaner persuasi tutti del senso matariale che ebbe in origine il mito greco di Prometeo, cosa più istruttiva e più utile contemplare un istante quanta nuova poesia il genio perfettamente plastico de’ Greci, abbia saputo cavare da un mito elementare rozzo e grossolano, e ammirare una volta più la somma idealità di quel popolo d’artisti, che seppe circondare di tanto splendore que’ stessi numi, i quali presso altri popoli erano rimasti umili feticci, o creature informi o mal vive. Il greco non può concepire il nume altrimenti che mirabile per sovrana bellezza e maestà. Gli stessi avversari del nume esso non può immaginare schifosi e ributtanti, poichè il nume deve combattere con un nemico degno di sè, che può essere orrendo, ma non umile, nè troppo ignobile. Se non ne avessimo avuto già molti documenti, i recenti scavi fatti pel Museo di Berlino nell’acropoli di Pergamo nell’Asia Minore, metterebbero in piena luce questa verità. Le dette rovine tolte da una grand’ara di Zeus rappresentano la titanomachia. I Titani vogliono dare la scalata all’Olimpo; tutti gli Dei, coi loro animali prediletti prendono parte alla lotta; i giganti appaiono, per una creazione fantastica degna dei poeti indiani, in aspetti diversi; gli uni alati, gli altri in forma di guerrieri barbuti, con pelli di leone, aventi rocce e tronchi d’albero per armi, precisamente come gli eroi del Râmâyana e del Mahâbhârata; i piedi terminano in forma di serpenti, che avvolgono le gambe degli Dei, e coi loro denti tentano lacerarle; così Indra, nel cielo vedico, nella sua gran battaglia contro i